Enrico Peyretti su “il foglio” – mensile di cristiani torinesi – del 29 marzo 2012, fa memoria del Concilio. “E’ stata – scrive – una rivoluzione. Nulla di meno. Strana rivoluzione, quella che non coltiva un progetto utopico, ma ritrova la genuinità attingendo di nuovo alla fonte originaria…”. Poi, osserva, si è tentato di tornare indietro: c’è stata “una potente azione congelatrice”. Però, dice ancora Peyretti, “il seme evangelico non è morto. Ora, dal congelatore monumentale portiamolo di nuovo a fecondare il terreno caldo e umido della vita quotidiana personale, delle piccole Chiese fraterne senza potere sociale”. E propone un impegno comune per gli anni a venire
Per chi è nato dopo gli anni ’70, il Concilio Vaticano II è archeologia. Oggi, in un mondo minacciato da molti pericoli e molte paure; in una Chiesa che si difende, che ammonisce e rimprovera più che animare e incoraggiare; oggi, per il popolo vario dei variamente credenti in Dio, che cosa vale ricordare i cinquant’anni dall’apertura di quel Concilio?Anche chi ne sa molto poco, sa che fu un momento assai vivo della Chiesa, in un tempo storico di speranza e di slancio. Tanto che oggi, col senno di poi, sembra che allora si sia peccato di ottimismo riguardo alla storia successiva. Ma la Chiesa fu in testa ad un movimento di ripensamento e di messa in discussione di molte strutture e idee della vita comune. La Chiesa appariva giovane e coraggiosa.
Ebbe il coraggio di aprire alla partecipazione attiva del popolo cristiano la liturgia fino ad allora supersacrale e riservata al monopolio del clero separato. Avviò la trasformazione della forma di Chiesa da piramidale papo-centrica assoluta, a popolare, comunitaria, sinodale (che significa “camminare insieme”). Il sacerdozio comune di tutti i seguaci di Cristo tornava a valere più di quello di un clero sacralizzato, con forme di vita strane e separate da quelle di tutti. La stessa immagine di Dio, rivelato come Padre da Gesù, mutò da Grande Padrone che esige adorazione, da Giudice cui nulla sfugge, a Padre anzitutto amoroso e misericordioso – «misericordia voglio, non sacrifici» – , e spirito che anima e scalda i cuori. Davvero cambiava la teologia, l’idea che avevamo di Dio, nientemeno, e faceva spaventare gli arcigni guardiani della sua concezione padronale. Le leggi morali, preoccupanti e incombenti, perciò spaventose, col ritorno alla lettura dei Vangeli si riassumevano nel «comandamento nuovo» di Gesù, l’amore che compie tutta la legge e la giustizia. Il rapporto della Chiesa col mondo moderno passava dal corruccio maledicente alla fraternità rispettosa: affidandosi alla libertà e ai diritti di tutti, la Chiesa perdeva la fede nel potere temporale e relativizzava molto i concordati; si parlava di fine dell’era costantiniana, che non aveva crocifisso Gesù, ma, peggio, ne aveva fatto una gamba del trono imperiale; e di fine della cristianità, cioè della finzione e illusione che la società intera fosse evangelizzata con un battesimo a pioggia, e coincidesse con la Chiesa, che aveva parte nel governarla, collaborando coi potenti di turno. “Chiesa dei poveri” in Concilio voleva dire Chiesa povera di potere, ricca solo della forza mite del Vangelo affidatole, vissuto e annunciato, in umiltà, con umili mezzi. Leggera e spoglia di potere, la Chiesa poteva riconoscere le vittime di tante violenze, e spendersi tutta per la giustizia e la pace. Così, libera dalla pretesa di avere tutta la verità, su Dio e su tutto, la Chiesa stava imparando a rispettare altre luci per vivere, nelle altre religioni, nelle culture ad essa esterne, e in ogni cammino umano sincero, sicché giunse a capire che non ci sono diritti della verità sull’errore (anche diritti penali, fino al rogo purificatore), ma ci sono diritti della persona umana che cerca, cammina, un po’ trovando, un po’ errando, un po’ donando e ricevendo nella «fecondazione reciproca» (Panikkar), che è la regola del crescere nella verità. Insomma, la Chiesa scopriva la libertà religiosa, facendo implicita penitenza della propria secolare occupazione coloniale dell’isola della verità, una roccaforte armata, una verità rocciosa, non un prato fiorente scaldato dalla luce viva, dai molti raggi.
Tutto ciò ed altro, è stata una rivoluzione. Nulla di meno. Strana rivoluzione, quella che non coltiva un progetto utopico, ma ritrova la genuinità attingendo di nuovo alla fonte originaria. La rivoluzione fu il lungo movimento, sfociato nel Concilio, di ritorno dal cristianesimo ecclesiastico alla fede biblica evangelica. Come rimuovere un pietrame che otturava la sorgente. L’antico nativo era il vero nuovo futuro. Naturale che ciò abbia terrorizzato i pavidi e allarmato i padroni custodi del sistema precedente, amante di se stesso, più che dell’umanità assetata. Naturale che, rispettando e omaggiando lo forme, questi abbiano cercato di svuotarne la viva novità. Il cardinale Siri profetizzò che sarebbero occorsi 40 anni per rimediare ai danni del Concilio. Ci siamo, e oltre. In buona parte si è rimediato, con una potente azione congelatrice.
Ma il seme evangelico non è morto. Ora, dal congelatore monumentale portiamolo di nuovo a fecondare il terreno caldo e umido della vita quotidiana personale, delle piccole Chiese fraterne senza potere sociale. Il nostro disagio e lo scontento sano e impegnato che in questi anni, in tanti modi e in tante reti, ha preso liberamente la parola, esercitando la propria responsabile funzione nella intera Chiesa, hanno l’occasione, in questo cinquantennio, dal 2012 al 2015, di ri-accogliere il dono del Concilio, di raccontarlo ai giovani, di realizzarlo in tutti i luoghi della Chiesa “in stato di concilio” (come si diceva allora), di proseguire un riesame teso solo alla forma evangelica.
Anche perché ci sono questioni lasciate aperte dal Concilio di allora: i ministeri ecclesiali ancora sacrali e maschili, perciò ridotti senza motivo; i rapporti della Chiesa coi poteri sociali e politici, di convivenza più che di profezia; l’etica, fissata su alcuni punti certamente importanti del rispetto della vita, ma troppo poco annunciatrice e liberatrice sulle sistematiche offese delle potenze contro la vita, nel dominio economico e culturale, nelle guerre strumentali, nell’economia dell’ingiustizia, della fame e della rapina. La Chiesa parla e si impegna, a vari livelli, per correggere il costume banalizzante, nichilista, che corrode la solidarietà sociale e universale, ma è credibile solo dove si svincola, fisicamente e spiritualmente, dall’abbraccio interessato dei potenti. Il cappellano di corte, di palazzo, di banca e di caserma, predica un vangelo falso, tanto per i ricchi come per i poveri, se non riparte dal vangelo di giustizia del Battista e di Gesù. Non ci è facile dare questo avviso, perché sappiamo che riguarda anzitutto ciascuno di noi, in prima persona.