Massimo Faggioli su “Europa” del 5 aprile 2012 fa una sintetica ma sfaccettata analisi del rapporto tra questione religiosa e politica americana. Lo fa a partire dalla lettura che Andrew Sullivan, giornalista e blogger tra i più letti d’America, cattolico, repubblicano e gay, ha dato dell’immagine pubblica della Chiesa negli Usa su un recente numero della rivista Newsweek.
Sulla copertina di Newsweek, ad occupare Times Square nel centro di New York non è il movimento Occupy Wall Street, bensì un Gesù coronato di spine ma vestito come un Mark Zuckerberg qualsiasi. L’America fa i conti col peso degli scandali che hanno sfigurato l’immagine pubblica della chiesa cattolica negli ultimi dieci anni, e con lo sfarinamento del cristianesimo protestante, una volta il collante dell’anima Wasp dell’America bianca. A gridare “il re è nudo” è Andrew Sullivan, giornalista e blogger tra i più letti d’America. Sullivan riassume in sé una trinità eterodossa – cattolico, repubblicano e gay (nel 2007 ha legalmente sposato al suo partner in Massachusetts) – che è rappresentativa della questione del ruolo pubblico delle chiese e della religione in un paese, l’America, “nazione-chiesa” che include le diversità in nome di una libertà che è sempre intesa teologicamente perché deriva direttamente dalla libertà di religione. Il primo problema che Sullivan identifica come cruciale per la perdita di credibilità delle chiese in America è la politicizzazione della fede, che ha portato ad una migrazione semantica del termine “secolarismo”: da “separazione delle sfere della fede e della politica”, oggi significa “ateismo” nel senso del solo modo di limitare l’influenza delle chiese nello spazio pubblico.
Un secondo problema è il declino della religione e delle chiese come fenomeno organizzato, anche a causa della perdita di credibilità della chiesa cattolica dopo l’enciclica Humanae Vitae del 1968 che condannava l’uso dei metodi contraccettivi; ma Sullivan ricorda che il declino delle chiese protestanti è molto più grave di quello della chiesa cattolica (basti ricordare le recenti dimissioni, due settimane fa, del capo della comunione anglicana, Rowan Williams). La soluzione che il cattolico, gay e repubblicano Sullivan offre è un ritorno a Gesù di Nazareth e al suo insegnamento: un insegnamento non ossessionato dalla sessualità umana, politicamente e socialmente più radicale di quanto non lo siano le chiese, e orientato alla “santità” più che alla purezza intesa come mantenimento dei confini tra classi ed etnie.
Sullivan cita Francesco d’Assisi come l’esempio perfetto di sequela di Gesù, e Thomas Jefferson come il migliore teologo americano: non è un caso che a Jefferson si deve la definizione del primo emendamento alla Costituzione come «muro di separazione tra Chiesa e Stato». All’inizio del Novecento il teologo francese Alfred Loisy ricordò a tutti che «Gesù ha annunciato il Regno, ma poi è arrivata la chiesa» (Loisy fu poi scomunicato). Non ci voleva quindi Sullivan per sapere che Gesù, cristianesimo e chiesa sono grandezze incommensurabili tra loro. Ma Sullivan ci parla di un’America alle prese con una questione religiosa che ha minato il cammino verso le urne del novembre prossimo: il presidente Obama accusato di cripto-islamismo dalla destra cospiratrice; Rick Santorum cattolico ultra-tradizionalista più gradito ai fondamentalisti e agli evangelicali che ai cattolici; Mitt Romney che si trova a giocare nello scomodo ruolo del “Kennedy dei mormoni” e infatti raccoglie più voti cattolici di quanti non ne raccolga il suo contendente ultra-cattolico. Questo fenomeno di ideologizzazione dell’appartenenza religiosa in America nasce negli anni Ottanta, con la “culture war” iniziata con la pubblicazione nel 1987 del saggio di Allan Bloom The Closing of the American Mind (sottotitolo: “Come l’università ha svuotato la democrazia e impoverito le anime degli studenti”). Da allora in poi “culture war” e dibattito teologico si sono intrecciati sempre di più, conducendo ad un mix tossico che vede gli anni Sessanta (Concilio Vaticano II compreso) all’origine di ogni male morale e sociale, e le “questioni della vita” non semplicemente prevalere, ma monopolizzare ogni dibattito politico. L’ideologizzazione della fede cristiana in America ha toccato dapprima, negli anni Settanta-Ottanta, le chiese evangelical, ma poi la chiesa cattolica, la chiesa più grande e in certo modo l’erede unica (almeno sociologicamente) del patrimonio Wasp di guida morale della nazione. Dal punto di vista ecclesiale, questo ha portato i cattolici liberal e molti giovani al disgusto verso un’istituzione disponibile a dimenticare tutti i peccati sociali dei repubblicani, e con questo anche a dimenticare la tradizione del magistero sociale della chiesa in difesa del welfare e del ruolo dello stato come regolatore.
Dal punto di vista politico, l’ideologizzazione della religione ha fatto aumentare il “God gap” tra un Partito repubblicano sempre più preda dell’elettorato religioso intransigente (quando non fondamentalista) e un Partito democratico in cui le tendenze secolariste hanno portato i cattolici fuori dal Congresso e dal partito. Finora la politicizzazione della religione è costata più alle chiese che alla politica: non conosciamo ancora il conto che dovrà pagare la politica.