Peccato e perdono

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Una breve e stimolante riflessione di Piero Stefani (in “il pensiero della settimana” n. 381 del 7 aprile 2012 – http://pierostefani.myblog.it/)  su come la caduta della concezione espiatoria della morte in croce di Gesù abbia lasciato un vuoto che non sappiamo riempire. Non comprendiamo più – dice Stefani – il senso teologico del peccato. Ma sentiamo ugualmente il bisogno di perdono. Alla riflessione di Piero Stefani fa seguito un “approfondimento” di Enrico Peyretti del 7 aprile 120407peyretti 

 

«A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che ho anch’io ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). In uno degli scritti più antichi della fede cristiana, si trova un rimando a qualcosa di ancora precedente: Paolo trasmette quello che lui stesso aveva ricevuto. Fin dall’inizio si afferma che Gesù morì per i nostri peccati, ma noi non sappiamo più come riempire di contenuti questa formulazione. La giusta caduta di una concezione puramente sacrificale-espiatoria-riparativa collegata alla croce (Gesù con la sua morte ha pagato il prezzo del nostro riscatto attraverso un’espiazione vicaria) ha lasciato dietro di sé il vuoto. Sappiamo riempirlo in termini di solidarietà, resta non colmato in riferimento al peccato. Il peso ossessionante posto sul peccato in secoli di esposizione catechistica si è dissolto senza lasciare eredi. Nelle nostre società e in noi stessi domina il senso psicologico di colpa e latita quello teologico di peccato. Forse anche per questo è difficile vivere con intensità il «triduo pasquale».

Gli stessi Vangeli non indicano una sola via per la remissione dei peccati. Ogni volta che recitiamo il Padre nostro chiediamo che ci siano rimessi i peccati in riferimento al nostro modo di rapportarci agli altri senza alcun richiamo alla croce. All’inizio della sua vita pubblica, Gesù risana per dimostrare che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra (Mc 2,4-12 ) senza compiere alcuna allusione alla propria morte. Nell’inno (anch’esso prepaolino) contenuto nella lettera ai Filippesi ci si sprofonda nel mistero della croce parlando di obbedienza, ma tacendo ogni riferimento al peccato (Fil 2,5- 11). Fin dall’inizio la fede non volle parlare una sola lingua. Non sappiamo più bene cosa sia il peccato, ma siamo consapevoli di aver bisogno di perdono. Forse il segreto sta qui. La fede è la certezza che Dio ci perdona a prescindere dalle vie in cui giunge a farlo. Venanzio Reali, il frate cappuccino poeta, scrisse sul letto di morte alcuni frammenti posti sotto il titolo di Paglie. Uno di essi si intitola Carico: Mio Dio sono pieno di peccati come un carro di fieno di un tempo. Ma so che basta. Una goccia del tuo sudore per tutto incenerire Quel ch’è mio. Nell’immagine campestre di un carro stracolmo di fieno odoroso è già detta la speranza che il peccato possa venir trasformato in qualcos’altro, che il bruciare quel che è mio (il peccato) non annichilisca tutto, ma riveli quello che di «tuo» c’è già oggi in me.

 

Peccato e perdono. Un approfondimento

di Enrico Peyretti

Provo (a rischio di imprecisione) a proseguire lo stimolante suggerimento di Piero Stefani. “Gesù morì per i nostri peccati” significa 1) “a causa dei nostri peccati”, oppure 2) “per ripagare con la sua morte un prezzo adeguato all’offesa da noi inflitta a Dio coi nostri peccati”? Sempre meno il senso cristiano accetta la seconda spiegazione (di lunga tradizione), per cui un meschino dio si fa ripagare l’offesa infinita dei nostri miseri peccati con la vendetta sul figlio uomo-dio, unica vittima adeguata alla infinita dignità dell’offeso. Invece, Gesù è morto “a causa dei nostri peccati” perché il mondo, sia il popolo sia i potenti, lo ha rifiutato e condannato, e noi, coi nostri peccati, siamo corresponsabili di questo mondo che lo rifiuta.

Ma Gesù ci perdonava anche prima di morire, anche senza morire. Chi ci perdona e risana non è la sua macellazione religiosa sacrificale, ma la sua presenza santa nella nostra carne umana, la sua vita che risponde al male con il bene. Anche se fosse morto nel suo letto, Gesù, il santo, sarebbe il redentore della nostra umanità con la sua santa umanità. Ci salva il suo Spirito infuso da lui in noi. Il bene, l’amore coraggioso, e non la morte sacra, tolgono il male. Gesù ha accettato quella morte per non tirarsi indietro, nello scontro fattosi estremo, che avrebbe evitato, se ascoltato. La sua croce è stata “necessaria” di fatto, a posteriori, non in assoluto. Il bene salvatore è il suo amore fedele e coraggioso, non la sua morte, se non come segno di un amore così grande. Ora per noi la croce è questo segno. Dio non ha voluto l’assassinio di Gesù, altrimenti dovremmo disprezzarlo. Se proviamo a pensare così, non possiamo più pensare la violenza sacra che la dottrina sacrificale attribuisce a Dio e perciò ai suoi “fedeli” autorizzati al “malicidio”, e a fare vittime in suo onore. E dovremmo smettere di chiamare “sacrificio” soddisfa torio  la memoria di Gesù nella Cena in cui si è dato a tutti per amarci “fino in fondo”, ponendo fine a tutti i sacrifici religiosi e vittime sacre, con una vita così viva fin dentro la morte da romperne il potere.

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