Quando il minimo è il massimo

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 Nel n. 382 del suo “pensiero della settimana” Piero Stefani si chiede se sia giusto che in Italia il minimo di decoro nazionale, il minimo di decenza nella vita sociale, debba essere considerato il massimo possibile degli obiettivi da raggiungere. “Questa massimalizzazione del “minimo”  – dice Stefani – racchiude insidie gravi.  Essa schiaccia la prospettiva su obiettivi immediati, negando spessore al passato e vere aperture verso il futuro. In altre parole, esso nega il ruolo fondamentale che per ogni popolo e per ogni convivenza civile ha la cultura”. Invece, l’Italia, anche – anzi proprio – nei momenti in cui è più fragile, come capita oggi, dovrebbe “guardare a orizzonti più vasti”. Il monito è a tutti noi, e in primo luogo al governo di Mario Monti. Del resto, era questo anche il senso della proposta di una “costituente per la cultura” avanzata lo scorso febbraio da “Il sole 24ore”

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-02-18/niente-cultura-niente-sviluppo-141457.shtml?uuid=AaCqMotE

Che i politici siano onesti e i parlamentare scrupolosi nell’adempimento del loro ufficio dovrebbe essere richiesta minima, ma in Italia è già titolo di merito eccezionale. Che i conti dello stato siano in ordine dovrebbe essere la norma e non già un’acquisizione straordinaria. Che i cittadini paghino le tasse dovrebbe essere  dato per scontato e non già considerata conquista pressoché irraggiungibile. Che i giovani volenterosi abbiano accesso al lavoro dovrebbe rappresentare un normale ricambio generazionale e non già precaria conquista pagata con “lacrime e sangue”. Che la giustizia compia il proprio corso in tempi ragionevoli dovrebbe essere una semplice manifestazione di civiltà giuridica e non già un’utopia. Che i vescovi siano persone perbene che credono in Dio dovrebbe essere un requisito base e non già quasi il massimo conseguibile dalla gran parte dell’attuale classe episcopale italiana. Che ai figli nati in Italia da coppie di immigrati stabilitisi da anni nel nostro paese sia concessa la cittadinanza dovrebbe essere un’applicazione consueta del diritto e non oggetto di irrisolti dibattiti. Che un paese come il nostro tuteli i propri inestimabili beni culturali ed ambientali dovrebbe essere un obbligo evidente e non oggetto di perenni, inascoltate denunce. Considerazioni simili alle precedenti valgono per il funzionamento degli ospedali e per l’effettuazione di esami clinici, per la scuola, per l’università, per i treni e gli uffici pubblici e per una gran copia di altri casi.

 L’Italia è il paese in cui il minimo è già il massimo. Un limite dell’attuale cultura politica e civile del nostro paese sta nella teorizzazione di questa equivalenza. Perciò si è circondato a priori di alone di “salvatore della patria” un capo dell’esecutivo che doveva  conseguire solo una piccola parte di quei “minimi” sopraelencati. Settimana dopo settimana, si constata che si continua a essere ben al di sotto di essi. Perciò, nonostante l’impressionante sostegno mass-mediatico di cui gode, Mario Monti comincia a mostrare il fiato grosso.

In realtà il conseguimento di quei “minimi” dovrebbe essere presentato per quel che effettivamente è: il puro raggiungimento dell’accettabilità e del decoro, della sufficienza e non del 110 e lode. Questa massimalizzazione del “minimo” racchiude insidie gravi.  Essa schiaccia la prospettiva su obiettivi immediati, negando spessore al passato e vere aperture verso il futuro. In altre parole, esso nega il ruolo fondamentale che per ogni popolo e per ogni convivenza civile ha la cultura.

L’Italia è stata culturalmente grande quando era politicamente fragile. Ci sono pochi dubbi che i massimi conseguimenti della civiltà italiana, quelli grazie ai quali gode di un indiscusso riconoscimento mondiale, abbiano preceduto la conquista dello stato unitario (di passaggio, uno dei limiti più vistosi delle concluse celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia è stato di non riflettere su questa sproporzione). Ciò dovrebbe indurre, proprio nei momenti di emergenza, a guardare a orizzonti più vasti. È scontato che di per sé questo sguardo non fa quadrare  i conti né pubblici né privati e, nell’uno e nell’altro caso, il dissesto può avere, alla lettera, effetti drammatici. Tuttavia ciò non esonera né dal cercare di trasmettere i significati alti legati alla civiltà del nostro paese, né dall’affermare concretamente che il suo patrimonio culturale, artistico, urbanistico e paesaggistico può contribuire a dar senso al vivere collettivo e personale (la sua tutela è dotata, tra l’altro, di ricadute tutt’altro che marginali anche sul piano economico). La pressione tutta rivolta sul presente, vale a dire la scelta di rendere il “minimo” “massimo”, alla lunga garantisce assai poco; anzi rischia di contribuire a dilapidare un’inestimabile eredità.  Non è peregrino affermare che se l’Italia nella sua storia è stata capace di uscire da momenti tragici ciò è avvenuto anche per la presenza di un “fondo” plurisecolare (più importante di ogni “fondo di investimento”).

L’attuale angustia di orizzonti si vede anche nella mancanza di un’autentica politica estera (che non può ridursi alla faccenda dei due marò). Ma qui si tratta dell’intera Europa e  non già solo dell’Italia.  Per certi aspetti la contestazione più sconcertante riguarda la Grecia. Quel paese è stato sottoposto a una “resa dei conti” (nel senso letterale del termine) pagata a prezzo di un vero e proprio commissionariamento. Facendo ciò ci si è del tutto dimenticati del valore simbolico che la Grecia ha per l’intera civiltà occidentale. Non era chiedere troppo ricordarsi di quanto Atene ha significato per la nostra cultura. Va da sé che gli attuali governanti greci stanno al mondo classico né più né meno di quanto il governo Monti sta all’Impero romano. Nessuna reviviscenza è possibile se non si vuole ricadere nella tragica farsa fascista. Tuttavia non andrebbe mai dimenticato che un paese è qualcosa di più del suo governo, della sua attuale classe politica e imprenditoriale e del suo spread. Ciò vale per la Grecia, ciò vale  per l’Italia.

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