Pubblichiamo il testo di una relazione tenuta alcuni giorni fa dall’autore, già dirigente della Cisl milanese e responsabile dell’associazione “Comunità e lavoro”
Per quasi due secoli, dalla rivoluzione industriale in poi, il lavoro è stato al centro della storia politica, economica, sociale, almeno in Occidente. Da qualche decennio non è più così.
Il tema sta qui: nella domanda essenziale se il lavoro possa ancora costituire un riferimento fondamentale per la politica della sinistra e se rimanga una questione “centrale” per la vita economica e sociale.
Sembra evidente che la perdita di importanza del lavoro porti con sé delle rilevanti conseguenze negative: declino del sindacato, scomparsa di un legame lavoro-politica-partito, approcci al lavoro sempre più soggettivi e differenziati, crisi del lavoro come legame sociale e fattore di identità.
Parto da K. Marx, non certo per svolgere un’analisi delle sue teorie, ma perché i temi del suo pensiero ci rimandano ai problemi attuali che ci interessano. Prendiamoli dunque come un elenco di punti su cui ragionare.
Le idee di Karl Marx sul lavoro
Come sapete, Marx ritiene che il lavoro sia nello stesso tempo processo lavorativo, produttore di beni d’uso, e processo di valorizzazione, cioè un processo che produce plusvalore, capitale. E’ lavoro produttivo quello che produce plusvalore, tutti gli altri sono improduttivi (ad esempio è da considerare improduttivo l’intero settore del commercio, dove non si produce capitale, ma lo si consuma).
Stando rigidamente a questa definizione dovremmo concludere che la maggior parte dei lavori attuali sono improduttivi.
Per calcolare il plusvalore Marx sostiene che il lavoro dell’operaio possa venire considerato come lavoro comune, generico, astratto.
Il lavoro dell’operaio è lavoro astratto.
La prestazione specifica, personale, professionale è irrilevante e pertanto si può assumere come misura del lavoro il tempo; l’ora di lavoro di un operaio equivale a quella di un altro (questa riduzione o omogeneizzazione si rende necessaria per effettuare calcoli quantitativi sul plusvalore).
La conseguenza di questa affermazione è che il lavoro ha rilievo perché produce plusvalore; la concreta attività lavorativa è sempre più povera e insignificante. Dunque il movimento dei lavoratori si interessa della condizione generale della classe operaia, non del lavoro concreto. Togliatti, al tempo della crisi sindacale alla FIAT degli anni ’50, dirà al sindacato di interessarsi del salario e di non occuparsi dell’organizzazione del lavoro, che non era suo compito. Su questo molto ha riflettuto e scritto, in modo convincente, Bruno Trentin.
Il lavoro è poi per Marx alienazione, in un duplice senso: perché il lavoratore è espropriato di una parte del proprio prodotto (la quota parte del plusvalore) e perché è espropriato della sua capacità lavorativa, della possibilità di decidere del proprio lavoro, della sua autonomia professionale. E’ totalmente dipendente, è asservimento del lavoro vivo al lavoro morto, subordinazione del lavoratore alle condizioni materiali del lavoro, rovesciamento del rapporto tra il soggetto e l’oggetto, per cui il destino individuale di colui che manovra la macchina sparisce come un nulla… E’ una merce. Si potrebbero elencare infinite citazioni di questo radicale annullamento dei lavoratori, come lavoratori e come persone (su questo tema Marx rimane sempre pessimista; per lui il lavoro rappresenta il regno della necessità, e la libertà si manifesta piuttosto fuori dal lavoro, con la riduzione dell’orario).
Da qui la critica di Simone Weil, ripresa più tardi da Hannah Arendt: come è possibile pensare che una massa di operai ridotta in queste condizioni possa ad un certo momento diventare improvvisamente la classe dirigente che trasforma la società e la governa? Come dice la Weil bisogna pensare alla liberazione degli uomini piuttosto che a quella delle forze produttive.
Dal concetto di plusvalore deriva poi per Marx l’idea di classe operaia (anche se su questo punto la sua elaborazione è rimasta purtroppo incompiuta). La produzione industriale è da attribuire sostanzialmente agli operai e Marx ha in mente uno sviluppo come diffusione della grande fabbrica e delle masse operaie (E’ sufficiente leggere il Manifesto: la borghesia ha il merito di aver semplificato le classi riducendole a due; la borghesia sopprime il frazionamento dei mezzi di produzione e centralizza i mezzi di produzione; i piccoli ceti medi, negozianti, artigiani e agricoltori sprofondano nel proletariato; con lo sviluppo dell’industria il proletariato si addensa in grandi masse – e ivi prende forza e coscienza -, le altre classi decadono e periscono con la grande industria).
La realtà si è sviluppata diversamente – pur tenendo conto dello sviluppo industriale in altri continenti – e nei paesi occidentali non si parla più di classe operaia (più facilmente si parla di declino del sindacato, di addio al proletariato, di fine del lavoro, ecc. ). Come dice bene Axel Honneth, l’erede della Scuola di Francoforte, da quando gli studiosi del lavoro hanno ritenuto che non esisteva più una classe operaia quale soggetto del cambiamento della società, lo studio del lavoro è stato abbandonato. Già questo è molto grave e non è l’ultimo dei motivi della nostra impreparazione ad affrontare i problemi attuali, ma il problema maggiore è evidentemente un altro. La classe operaia costituiva il soggetto deputato a trasformare la società e a realizzare un nuovo sistema sociale. La fine della classe operaia significa che non esiste più un soggetto? Non si tratta solo di abbandonare un’ideologia (comunista e socialista), ma di sostenere che non esiste un soggetto sociale interessato strutturalmente al cambiamento sociale. In questo caso il partito della sinistra rimarrebbe esclusivamente un partito d’opinione. (Oppure potrebbe esserci un partito del lavoro, come esiste un partito verde dell’ambiente: in questo caso il lavoro non è il soggetto del cambiamento, ma l’oggetto di cui ci si occupa).
Infine è opportuno aggiungere una parola sulla struttura delle organizzazioni operaie, da Marx in poi (le tre Internazionali). La I^ Internazionale era un organismo molto composito, di cui facevano parte le organizzazioni più varie, politiche, sindacali, sociali, miste, e aveva come motto “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”. Nella II^ Internazionale si afferma l’idea del partito, il cui prototipo è il possente partito socialdemocratico tedesco. Vengono allontanati gli anarchici e le altre tendenze e sono sospinti fuori anche i sindacati, che formano una internazionale propria. La I^ Internazionale era un’associazione di lavoratori (Associazione Internazionale dei lavoratori), la II^ è un’associazione di partiti. Prevale l’idea della conquista del potere politico come condizione prima per cambiare il sistema. La III^, quella bolscevica, porta all’esasperazione questo orientamento, contrastando e condannando la via democratica.
In questo processo, sommariamente richiamato, è evidente che il ruolo del lavoro e del sindacato non solo risulta marginalizzato, ma spesso strumentalizzato e finalizzato ai superiori scopi politici del partito guida.
Veniamo all’oggi
Ritorniamo sui temi richiamati per venire ai problemi attuali e per esprimere delle indicazioni di lavoro (chiamo indicazioni di lavoro delle considerazioni che solo il lavoro di migliaia e migliaia di lavoratori, studiosi, imprenditori potranno nel tempo verificare e eventualmente trasformare in risposte compiute).
Il lavoro concreto
Il primo problema è l’impegno da assumere nei confronti del lavoro concreto.
Nel lavoro di oggi emergono due tendenze significative (non certo esclusive e scontando che rimane tanta parte di lavoro di routine o arretrato), tendenze che consistono nel lavoro cognitivo e nel lavoro relazionale. Il lavoro cognitivo non è concentrato in qualche punto a sé stante, è piuttosto una dimensione diffusa e che va estendendosi. Può sembrare strano, ma lo World Class Manufacturing applicato interamente a Pomigliano e in via di instaurazione negli altri stabilimenti FIAT, richiede un notevole lavoro cognitivo e i lavoratori più soddisfatti sono quelli maggiormente coinvolti.
Così molto lavoro oggi non è più produzione di oggetti, ma è lavoro di comunicazione, informazione, relazione. Relazione è una parola neutra: se però in questa relazione (allo sportello, nel rapporto col cliente, nel prestare un servizio) ci si mette un po’ di attenzione, di responsabilità, potremmo parlare di lavoro di “cura”. Da qui l’emergere del tema della femminilizzazione del lavoro (Deleuze e Guattari parlano del “devenir femme du travail”). Alcune considerazioni:
- Va sottolineato che sia il lavoro cognitivo che il lavoro relazionale mettono le donne e gli uomini su un piano di partenza oggettivamente, strutturalmente egualitario. Le donne non hanno qui nessuna condizione di inferiorità e spesso riescono meglio degli uomini.
- Questi lavori richiedono un’espressione della persona, una decisione, una partecipazione. Il modello non è più il lavoro produttivo, il fare, il produrre cose; il modello è piuttosto, con tutti i limiti del caso, quello dell’espressione e della responsabilità personale. Se il lavoro produttivo non è più il modello centrale, dobbiamo saper affermare una nuova idea del lavoro. (Da qui anche l’affermazione orgogliosa dei lavoratori indipendenti, alcuni dei quali si definiscono “Quinto Stato”)
- Questo lavoro è un lavoro partecipato, ma non si può partecipare da soli. Se nel lavoro astratto il ruolo del lavoratore era insignificante, ora invece diventa prioritario e ciò comporta sia la cooperazione cogli altri lavoratori, sia l’accordo a livello di impresa tra imprenditori e lavoratori per poter esprimere al meglio queste possibilità. Il problema oggi delle fabbriche italiane non è tanto un problema di tecnologie, quanto di organizzazione del lavoro (del miglior utilizzo delle persone). Corollario indispensabile è l’investimento sia delle imprese che del sindacato nell’accrescimento costante della conoscenza dei lavoratori.
Lavoro improduttivo e plusvalore
Una quota di lavoro produttivo rimane, ma non è più così estesa e rilevante come una volta e come si pensava. Tanto lavoro viene svolto dalla macchine, riducendo i lavoratori a una funzione di custodia (pastore di macchine, li definiva Heidegger). D’altra parte il lavoro diventa sempre più cognitivo, immateriale, relazionale apportando un valore vero, ma non misurabile in termini quantitativi. Claudio Napoleoni, che aveva studiato tutta la vita il problema, era giunto alla conclusione che il concetto di valore e di plusvalore poteva essere conservato, ma in senso qualitativo, essendone impossibile la misurazione. E’ il sistema economico nel suo complesso che produce valore e dunque tutto il lavoro produce valore.
Questo significa far cadere la distinzione, che tanto ha pesato negativamente, tra lavori produttivi e lavori improduttivi. Ogni lavoro è importante, anche quello domestico o, per riferirsi alla realtà odierna, i molti lavori indipendenti e precari, e cade dunque una distinzione tra lavoratori più importanti e meno importanti, di serie A o di serie B.
Il prestigioso Istituto di Amsterdam, che conserva gli scritti originali di Marx oltre che una mole imponente di documentazione storica sul movimento operaio, ha deciso qualche anno fa di allargare la propria visuale, decidendo di studiare ogni tipo di lavoro, di ogni epoca e di ogni sistema economico-sociale.
Questa è un’acquisizione che il sindacato dovrebbe evidenziare maggiormente.
La classe operaia come soggetto
Per quanto è stato detto, ritengo che si debba rinunciare all’idea della classe operaia come soggetto rivoluzionario cui spetta il compito di cambiare il mondo e ciò non tanto, naturalmente, per una questione statistica di peso della categoria, ma per la debolezza dell’intero impianto sul plusvalore e perché dall’oppressione non nasce automaticamente una volontà e capacità di essere portatori di una politica alternativa. Ma nell’accantonare questa visione, si è purtroppo accantonato del tutto anche il problema e questo invece non è assolutamente condivisibile.
Rinunciando alla classe operaia soggetto rivoluzionario, si dovrebbe però convenire – questa almeno è la mia convinzione – sull’idea del movimento dei lavoratori come un soggetto essenziale, irrinunciabile, della trasformazione sociale: uno dei soggetti, non il soggetto, però indispensabile.
E ciò per due motivi evidenti:
1) Il lavoro è una cosa sola con l’economia e la società. Non si dà una società che vada bene con un lavoro che vada male e viceversa. E poi la trasformazione sociale di cui parliamo è il bene comune di milioni e milioni di lavoratori, miliardi oggi, che aspirano a una condizione civile e non si capisce come si potrebbe realizzare questo senza il loro apporto, di diretti interessati.
2) Il lavoro è cambiato e almeno tendenzialmente nei suoi punti più sviluppati richiede una maggiore partecipazione personale dei lavoratori, mentre d’altra parte si è esaurito il ruolo dei partiti guida. Siamo così di fronte oggi ad un’espressione diretta di soggettività, il che fa pensare che la trasformazione sociale non possa che essere opera delle persone stesse. Il movimento dei lavoratori ritorna così al suo programma iniziale “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”. Non del sindacato, ma dei lavoratori e dunque di un sindacato rovesciato dove i protagonisti sono i lavoratori e l’organizzazione fornisce loro la cultura e i mezzi per esprimersi.
Il compito fondamentale del sindacato, forse anche più importante del salario, è cambiare il lavoro, perché in esso il lavoratore possa esprimersi più liberamente, consapevolmente, responsabilmente. E’ questa una condizione della democrazia: l’esperienza negativa, passiva la potremmo definire, del lavoro è causa di infinite rivalse e risentimenti.
Certo il lavoro non è tutto: parlare dell’impegno per un lavoro cosciente e responsabile è parlare di uno dei fattori essenziali di un sistema democratico. Ma molta vita è oggi fuori dal lavoro e noi chiediamo che questa liberazione dal lavoro aumenti: non come fuga, perché il lavoro è pura necessità, ma perché si sviluppino altre possibilità e dimensioni umane, che fra l’altro spesso ritornano oggi in vario modo sul lavoro.
Nella situazione attuale – dove la conoscenza tende ad avere una parte sempre maggiore e dove ormai la dimensione dei problemi è quella del mondo – sarebbe ora di rilanciare un obiettivo, una speranza storica del movimento operaio: quella di associare alla riduzione dell’orario di lavoro (obiettivo che rimane una priorità) un grande programma di diffusione della cultura: cultura del lavoro, cultura sociale, politica, internazionale.
I lavoratori (ma così i sindacati e i partiti) si sono invece dedicati ai consumi.
Il risultato è che 40 anni fa la cultura di un sindacalista era pari a quella di un imprenditore medio; oggi abbiamo un dislivello negativo impressionante, un vero baratro. Per questo oggi il sindacato deve decidere un grande, massiccio programma culturale, partendo da alcune prime essenziali condizioni di base: non assumere più sindacalisti se non conoscono perfettamente l’inglese e l’informatica; Erasmus sindacale; 150 ore di massa dedicate all’informatica; educare i lavoratori a girare il mondo non solo per fare le vacanze alle Seychelles, ma per conoscere le condizioni dei lavoratori negli altri paesi; e così via.
Per risalire la grande difficoltà in cui ci troviamo, occorre rilanciare una grande prospettiva al cui centro ci sia l’iniziativa cosciente di milioni e milioni di lavoratori, impresa gigantesca quanto necessaria.
Una breve postilla, sul pensiero cattolico-sociale
Come è noto la Chiesa ha affrontato in ritardo la questione sociale. Era parte integrante dell’Ancien Régime e dunque l’opera di distacco dal vecchio mondo per collocarsi in quello nuovo è stata lunga e complessa. Al di là delle critiche, che riguardano ormai la storia, vorrei qui limitarmi a richiamare due caratteri propri del pensiero cattolico, che considero positivi e tuttora validi.
Traggo il primo dal pensiero di Fanfani di replica al famoso libro di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Dice Fanfani che il capitalismo c’è stato anche in Italia, in un ambito cattolico, ma, a differenza dei paesi protestanti, non ha avuto un’autonomia assoluta, dovendo fare i conti coll’idea del bene comune; questo è il principio superiore, il profitto viene riconosciuto, ma subordinato. E forse non è molto conosciuto che in fatto di proprietà il principio primo cattolico (tomista) è la destinazione universale dei beni, di cui la proprietà privata è solo una declinazione possibile. Fanfani concludeva, sconsolato: ha prevalso l’impostazione protestante. Per la visione cattolica sono dunque accettabili il profitto, la proprietà privata, il mercato, la concorrenza, ma essi non sono mai assoluti, devono rispondere all’obiettivo del bene comune.
Un discorso analogo merita un altro principio fondamentale, quello della persona umana. Prendiamo il lavoro di cui stiamo parlando; leggendo la “Laborem exercens” si vede che il Papa più che parlare di lavoro, parla della persona che lavora. Non esiste il lavoro in sé, il lavoro è l’atto di una persona; esiste dunque la persona che lavora. Ecco perché il lavoro deve essere dignitoso, equo, rispettoso dei diritti, perché riguarda la persona, creatura voluta da Dio e fatta a sua immagine. Ecco perché la condizione di miliardi di lavoratori oggi nel mondo è per il pensiero cattolico ingiusta e perché Papa Francesco afferma che “questa economia uccide”.
C’è un limite evidente nel pensiero sociale cattolico, di essere molto generale, di riguardare principi etici universali, e di non essere una dottrina storica concreta (come sono stati invece il comunismo e il socialismo, che per questo hanno costituito una speranza per milioni e milioni di persone). Quelle dottrine – che hanno costituito un grave ostacolo ideologico per i cattolici – sono in larga misura esaurite. C’è oggi bisogno di ricostruire un pensiero e un movimento sociale di dimensione mondiale, all’altezza dei tempi e dei problemi, a cui i cattolici possono e devono partecipare a pieno titolo e con un impegno senza riserve.
A livello internazionale si gioca una partita che è persa in partenza, perché è presente una squadra sola, quella liberista e dei grandi poteri economico-finanziari; sono assenti le forze riformiste, perché esse dovrebbero essere costituite da movimenti di lavoratori, di realtà sociali, democratiche e popolari operanti a livello mondiale. Questo è il grande movimento da costituire; ma un grande movimento con questi orizzonti, che voglia incidere sul piano mondiale necessita di una grande forza morale, non minore di quella che per oltre un secolo ha sorretto il movimento operaio. Se grande è l’obiettivo, grande deve essere la forza spirituale che lo sorregge.
Sandro Antoniazzi
12 Luglio 2014 at 15:07
Vedo in questa relazione una grande capacità di analisi e di sintesi dell’Autore e sono in sintonia con quanto da lui descritto e proposto per “ricostruire un pensiero e un movimento sociale di dimensione mondiale, all’altezza dei tempi e dei problemi”. Il compito è certamente impegnativo e grave, ma, secondo me, andrebbe intrapreso e proseguito con determinazione da molte persone di buona volontà (e sono certo che ci sono, basta ricordare, solo a titolo d’esempio, quali e quante risorse umane si sono attivate e coagulate attorno ai movimenti dell’acqua bene comune al tempo del referendum) fin da ora.
Riguardo al sindacato, sono ovviamente d’accordo col suo progressivo declino e sulla necessità di una sua evoluzione (o magari rifondazione?). Bella e significativa è l’espressione “sindacato rovesciato, dove i protagonisti sono i lavoratori e l’organizzazione fornisce loro la cultura e i mezzi per esprimersi”. Infatti, mentre è giusto che all’inizio il sindacato sia nato per guidare e rendere visibili le masse operaie, ora è opportuno che il suo ruolo cambi per rendere protagonisti i lavoratori stessi, nessuno escluso; ma occorre certamente una cultura che generi obiettivi comuni e iniziative coscienti – fra l’altro a livello mondiale! – e chi, se non un rinnovato sindacato, lo potrebbe e dovrebbe fare?
Cordialmente, Danilo Malaguti