Ringrazio gli amici di c3dem per il lavoro già fatto che sanziona alcuni dei dati di fondo della crisi, ogni giorno più drammatica che il mondo attraversa. La mia generazione, che aveva assaporato nella sua adolescenza e giovinezza all’indomani della seconda guerra mondiale le speranze di una nuova fase storica, vi assiste come sbigottita dalla sua stessa impotenza.
Vorrei sottolineare, come mio contributo al vostro dibattito, due punti.
Il primo riguarda la sottolineatura dello stretto nesso fra tre aspetti della crisi. Voi stessi ne richiamate con molte forza due, quello costituzionale e quello economico; ma mi pare inevitabile richiamarne un terzo cui pure alludete con la parola globalizzazione, e cioè il tragico ritorno di una situazione internazionale segnata da un ricorso alla violenza, fra stati e interstatuale, in forme difficilmente riducibili nei relativi confini, che è il segno della impotenza cui sono state ormai ridotte le scelte e le strutture di pace nate alla metà del secolo scorso.
La crisi del progetto costituzionale democratico proprio dell’Italia, l’inadeguatezza dell’adeguamento istituzionale ad esso, suggerisce anche il progressivo decadere del disegno internazionale di pace e di confronto democratico fra gli Stati che vi era intrinsecamente connesso. Ho già avuto l’occasione di sottolineare lo stallo di un’Europa che non solo non sa costruire sé stessa come soggetto unitario, ma non ha nemmeno una visione strategica comune di cosa fare dell’ONU, limitandosi ad usarne sporadicamente il nome. E intanto parallelamente si è andata affermando la prassi degli incontri fra governi che contano nella forma dei G8, G10, G20, di fatto sulla base di logiche nazionali: una prassi che immagino non estranea all’affermarsi della prevalenza della finanza sull’economia reale, che è alla base della vostra denuncia.
Dietro questo decadere delle speranze non c’è solo lo stallo dovuto alla guerra fredda: c’è anche l’illusione che ha fatto vivere la caduta del muro di Berlino più come una vittoria dei paesi dell’ Occidente, ma pensati entro le categorie della svolta di destra degli anni 70-80, che una vittoria della libertà.
Lo squilibrio fra finanza e economia reale deve essere giustamente un punto chiave della comune riflessione e produrre risposte specifiche. Non sono una specialista. Ma mi domando se possa essere usato come anticorpo al prevalere della prima un rafforzamento nelle strategie industriali non tanto dello Stato (anche se in parte, sì, anche questo è utile) quanto degli interessi sociali legati ad esso. Penso in particolare alla rappresentanza nei consigli di amministrazione degli operai o comunque dei dipendenti, al fine di evitare gestioni attente solo all’incremento di capitale proprietario. Molti decenni fa se ne parlò molto e la Germania seguì questa via. Renderla obbligatoria o favorirne la facoltatività con vantaggi adeguati non potrebbe essere una strada? Questo potrebbe ridurre sia delocalizzazioni sia calcoli di interesse ristretti e esageratamente privatistici. Lascio ai competenti in materia di darcene un’idea.
Paola Gaiotti de Biase