Televisione e giornali, ma anche le conversazioni tra amici, trasmettono sempre più spesso una sensazione di crisi imminente, anzi già in pieno sviluppo. Non appare come una crisi apocalittica, almeno per ora, ma come un’involuzione, un’incapacità ad uscire dai problemi. Certo: dei problemi, delle difficoltà si parla e si scrive; qualcuno avanza, o minaccia, soluzioni radicali. Ma c’è come una incomunicabilità che impedisce di parlare, costruire, approfondire, persuadere e condividere le vie d’uscita, le scelte positive. Le difficoltà ci sono, ma mancano diagnosi e soluzioni condivise; e il dibattito, la contrapposizione talora anche sleale, impediscono di affrontarle.
Anche sul versante politico, economico, sociale e culturale incertezze e tensioni appaiono in aumento. E spesso non sono tensioni di crescita, ma conflittuali e suscettibili di involuzione. Spesso sembra più importante riuscire ad attribuire la colpa delle difficoltà ai propri avversari piuttosto che cercare soluzioni praticabili e condivise. Il linguaggio si fa sempre più semplificato e polemico; i “ragionamenti” sono pieni di retorica, d’immagini ad effetto, di soluzioni costruite con parole di significato non univoco.
L’impressione, purtroppo, è che su questa strada non si costruisce granchè e si perdono anzi occasioni preziose di correggere gli errori, discernere le novità e costruire progetti nuovi, condivisi ed efficaci. Penso al nostro Paese, ma mi pare che la riflessione possa allargarsi anche ben oltre…
Papa Francesco, con una franchezza che ha sconcertato qualcuno, ha parlato della Chiesa “sballottata” dalle onde; ed ha offerto una proposta coraggiosa e impegnativa per tutti: “Remiamo insieme! Anche il Papa rema nella barca di Pietro, ma dobbiamo pregare tanto!”.
Il Suo invito riguarda certamente la chiesa; ma può essere esteso anche molti altri livelli della vita sociale; e non è del tutto una novità.
Già negli anni ottanta Giuseppe Dossetti avvertiva che in Italia “non c’era più la colla”. Voleva dire che stavano venendo meno le ragioni profonde della solidarietà, intesa non solo come generosità dell’animo individuale ma come contesto sociale e oggettivo nel quale ciascuno riconosce e vive un legame positivo e fiducioso con gli altri.
Nella generazione di Dossetti c’era il ricordo, e forse la nostalgia, della stagione della Resistenza e della Ricostruzione, quando il paese nel suo complesso, e moltissimi cittadini ciascuno per la sua parte, seppero trovare le ragioni e uno stile di convivenza, rispetto e collaborazione. Le tragedie vissute, le difficoltà da affrontare per assicurare ai figli un futuro migliore favorirono certamente questa solidarietà; ma essa fu possibile anche perché c’era un’idea di bene comune, cioè di un patrimonio e soprattutto di un progetto che si poteva realizzare soltanto insieme. La colla di una società non è infatti la nostalgia del passato, ma la volontà di realizzare un progetto comune, insieme. Non è un caso che nel 1981, nel documento “La chiesa italiana e le prospettive del paese”, i vescovi italiani ricordassero che “il Paese non si salverà se non insieme”. Aggiungendo: “…a partire dagli ultimi”.
La “colla” è quella che fa sentire uniti e solidali anche quando non si ha un interesse immediato da realizzare “per se stessi”; ma ci si sente parte di una comunità; e si è disposti a condividere i bisogni e i desideri; a sacrificare qualcosa di nostro per un futuro comune migliore, più giusto.
Adesso la colla sembra proprio scomparsa. Nel paese. Nelle città. Nei partiti; il Pd insegna. Spesso anche nelle famiglie e nella chiesa. Persino la nostra Costituzione è dimenticata e aggredita, e anche l’ideale europeistico è in crisi. L’idea di “bene comune” appare nebbiosa e retorica (quando non ingannatrice) anche a quelli che si sforzano di parlarne, com’è accaduto alla “settimana sociale dei cattolici italiani”, dalla quale non sono uscite cose significative.
Eppure, lo ricordava anni fa Ilvo Diamanti in un convegno in memoria di Vittorio Bachelet, “tanta gente fa del bene, ma non è disposta a dirlo”. Molti cittadini sono buoni e altruisti, fanno donazioni, volontariato, sono convinte in cuor loro che bisogna aiutare gli altri. Si fa. Ma non si dice. Quasi ne abbiamo vergogna. Nell’opinione pubblica esser buoni, generosi, fiduciosi, pagare le tasse equivale ad essere un po’ stupidi. Almeno a parole nessuno rinuncia a gareggiare in tema di successo, furbizia e guadagno.
A me sembra che quanti hanno a cuore il futuro e il bene comune (penso che i cattolici, e i cattolici democratici specialmente, dovrebbero essere in prima fila; ma credo che l’impegno possa interessare tutti gli uomini di buona volontà, pur se appartengono a culture, partiti, schieramenti, tradizioni diverse) dovrebbero oggi fare uno sforzo di dialogo per raggiungere, se possibile, un livello di comprensione reciproca, di collaborazione e di progettazione sociale e politica comune o comunque coordinata. Non sarà cosa facile né di immediata realizzazione. Certo: sembra di disegnare uno scenario opposto a questo che vediamo ogni giorno, ma si potrebbe cominciare.
E potrebbero, possono (e forse in parte già lo stanno facendo) cominciare proprio quelle realtà sociali, culturali, etiche che più sentono il disagio e che ogni mattina, leggendo i giornali, si domandano perché, infine, debbano aver voce e potere e spazio nella comunicazione quasi soltanto i “soliti noti” (opinionisti, politici, protagonisti della scena…), con i loro linguaggi cifrati e abusati, coi loro interessi, con la loro ignoranza di ciò che vale veramente e serve a costruire il futuro.
Intendiamoci: io non credo affatto che siamo alla vigilia di una possibile rivoluzione che mandi a casa tutto un mondo che spadroneggia così in borsa come su giornali e Tv e magari anche in Parlamento. Si tratta invece di immettere nel “sistema” delle idee e dei comportamenti diversi; un fermento di cultura, di rispetto del diritto dei deboli, di corresponsabilità.
Questo potrebbe essere il nostro modo di “remare” come Francesco invita a fare nella chiesa: riscoprire che la società civile è anche una comunità di uomini (non solo un campo di battaglia tra bande che vogliono aggiudicarsi la maggior parte del bottino); una comunità di uomini che hanno voglia e capacità di vivere insieme, gli uni accanto agli altri, mettendo in comune le loro capacità, risorse ed anche speranze. Interessati a dialogare per cercare ciò che è il meglio per ciascuno, ciò che è più vero e capace di fondare una vita comune, un progetto di giustizia e di benessere per tutti.
Gli uomini di buona volontà (che vivono nella chiesa, nel nostro paese, nell’Europa ed oltre… ) hanno oggi l’occasione propizia di sviluppare un impegno comune per cercare e trovare le ragioni di una vita civile comunitaria e dialogica, laboriosa e utile, aperta a sperimentare e valutare novità specialmente per le nuove generazioni, cercando un’etica civile (e personale) all’altezza … un progetto di società che possa aprirsi al mondo, evitare la fame, le violenze e le guerre; offrire ai giovani speranze e fiducia.
Certo bisogna fare scelte, e quasi fatalmente su di esse ci si divide. Ma anzichè sviluppare mediocri polemiche sulle parole e su dati incompleti, meglio sarebbe spiegarsi, verificare insieme, togliere le finte ragioni polemiche e cercare un’obbiettiva e seria verità (storica, certo) e prospettive condivisibili da tutti (o almeno da molti) verso il futuro. Mi sembra che ciò valga (e manchi!) nella vita politica, sociale, nel dibattito culturale e talora persino nel campo ecclesiale. Quasi ovunque prevale la semplificazione, la personalizzazione delle contrapposizioni, il semplicismo degli slogan, il protagonismo e l’aggressione nei riguardi di quelli che hanno idee o progetti differenti (tanto o poco…).
Bisogna ricordare che non c’è progetto che non nasca dal confronto e dal dialogo; e, insieme, dalla razionalità e da un ethos, una moralità; nella convinzione che su tutto ciò si può confrontarsi e crescere assieme. Soprattutto non c’è progetto che, in un contesto di contrapposizione (delle idee e delle energie), possa realizzarsi in maniera positiva, armonica, sollecita.
In fondo si tratta di ritrovare coscienza e senso di essere una comunità, magari complessa e difficile; ma non un campo di battaglia ove mors tua vita mea. Questo principio infatti è quanto di più irrazionale possiamo dire. I morti, le vittime ingiuste rendono lenta e penosa la realizzazione del presente e avvelenano il futuro.
Insomma: è urgente ritrovare la coscienza di essere una comunità, anzi una comunità di comunità. Che i progetti, le finalità e persino gli strumenti debbono essere condivisi, consapevolmente: nel dialogo, nel rispetto e nella collaborazione anche quando è faticosa.
Ma per camminare su questa strada (che ad alcuni appare innaturale perché ferisce il principio della priorità dell’interesse egoistico e della convinzione di ciascuno di “essere nella verità”) bisogna riguadagnare la consapevolezza di “essere insieme”: una comunità, una realtà interconnessa. Bisogna lavorare insieme, capire insieme, sperare insieme… Bisogna ripartire, rafforzandole e moltiplicandole, dalle esperienze del volontariato, delle comunità di accoglienza, delle iniziative di dialogo e di riconciliazione, dagli uomini e dalle idee di pace, di pazienza, di coraggio, di ricerca di ciò che è nuovo e meritevole di impegno e di fiducia.
Senza un progetto condiviso, senza un contesto e una pratica quotidiana del rispetto e della collaborazione,resteremo nell’attuale disordine; o forse sarà anche peggio.
Angelo Bertani