Nella discussione sui temi che riguardano la famiglia e che accompagna il Sinodo in corso voluto da Papa Francesco, pur con la prudenza necessaria che molti temi, tra l’etica e la pastorale, l’ecclesiologia e la biologia, richiedono, mi permetto di far rilevare un elemento. Mi pare che sia sottotraccia l’esperienza, la vita, i fatti che concretamente incidono sulle scelte.
Mi spiego. Quando si parla di fallimento del matrimonio con conseguente secondo matrimonio, e quindi dell’ammissibilità dei coniugi di seconde nozze al Sacramento dell’Eucarestia, credo che non andrebbe trascurata una domanda: perché il primo matrimonio è fallito? Non per attribuire colpe o responsabilità, ma per capire, sapendo bene che spesso le situazioni sono intricate, e con cause molteplici ed equamente divise.
Penso, però, che non sia normale equiparare situazioni diversissime che, come molti di noi ormai conoscono nella cerchia di propri amici e conoscenti, vedono spesso un “abbandonato” e un “abbandonatore”.
Ripeto, non è questione di valutare colpe o peccati, ma la vita e la famiglia distrutta da chi è vittima di un partner che (non indagando sul come e perché) decide di lasciare compagno o (più di frequente) compagna perché si è innamorato di una persona più giovane e bella, magari dopo anni di solido matrimonio, può essere messa sullo stesso piano di un fallimento voluto e provocato? Se chi subisce il “torto” di un fallimento e magari dopo anni o (perché no) dopo mesi, decide di rifarsi una vita, a prescindere dalle decisioni generali dottrinali, quale giudizio può dare la comunità ecclesiale su quella storia? Laddove il giudizio non è una sentenza, ma una parola di accoglimento proprio in vista di quel consenso alla condivisione dell’Eucarestia che non è un regalo del celebrante, ma una piena e sostanziale compartecipazione dell’intera comunità dei fedeli.
Ecco allora che entrano in gioco due grandi capisaldi che il Concilio ha introdotto in maniera decisiva: la coscienza dell’individuo, e la piena realizzazione della Chiesa universale nella Chiesa particolare. Sul primo, credo che non ci siano tante parole da spendere, soprattutto in quest’epoca di grande attenzione all’individuo e alle sue potenzialità espresse in toto nel pensiero, negli atti, nelle intenzioni e nelle relazioni umane.
Il secondo aspetto è a mio avviso ugualmente importante. Al di là, o al di qua, delle dichiarazioni di principio e di morale non possono non avere un peso di rilievo la vita, la storia, e quindi le ferite e le gioie, delle persone vere. E queste possono essere conosciute veramente solo da chi si “fa” vicino. Ecco la Chiesa particolare: le parrocchie (e i sacerdoti che le guidano), ma anche le associazioni, i gruppi, gli ordini religiosi. In una parola: le comunità. Che insieme vaglia (e veglia…), accompagna, decifra, aiuta a interpretare, suggerisce (ricordiamoci il famoso “70 volte 7”)’ a volte anche impone, che quella coscienza si comporti correttamente.
Se parliamo di comunione ai divorziati risposati è, appunto, perché parliamo di “comunione”, ma non solo con Dio, non solo verticale, anche e soprattutto orizzontale.
Se si bada bene è un problema che riguarda tante scelte di vita che non possono essere in maniera omogenea valutate tutte con lo stesso criterio in punta di morale come fa il diritto – necessariamente – perché la società non può prendere in considerazione la molteplicità potenzialmente sconfinata delle situazioni specifiche.
Esempio: come si fa a giudicare volontà di suicidio un paziente che dopo anni di anni di lotta con la sofferenza e la malattia incurabile decide di non fare più ricorso a farmaci che non danno comunque speranza di completa guarigione e decidesse di smettere per andare pacificamente verso la morte?
Oppure valutare allo stesso modo la coppia che, reddito casa e opportunità garantite, decide di non stringere relazione stabile sacramentata, al pari di quella che con lavoro precario, magari lontano da casa e con altri tipi di problemi, decidesse di cominciare un’esperienza di convivenza che non convince i detrattori moralisti pronti a condannare?
Non è “solo” questione di misericordia divina o pastorale, e non è neppure in discussione la legittimità delle scelte individuali: figuriamoci, chi oggi si può permettere di dire che non hanno ugual diritto di cittadinanza?!
Qui è in gioco, a mio modesto avviso, proprio la fondatezza di tante interpretazioni morali e dottrinali.
La via dell’inferno non è lastricata soltanto di buone intenzioni, spesso anche di buoni principi che, rimasti sulla carta, finiscono soltanto per assolvere e “affrancare” chi non vuole assumersi la responsabilità di entrare nel cuore e nella carne delle “gioie e delle speranze, delle tristezze delle angosce, degli uomini e delle donne di oggi.
Vittorio Sammarco