I tratti della nuova “forma” della Chiesa nel mondo. Un libro di don Severino Dianich

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di Giampiero Forcesi

“Se c’è un testo del concilio Vaticano II che ha bisogno più di altri di essere ancora approfondito e portato costantemente all’ordine del giorno che ‘Che fare?’ della Chiesa, questo è la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”. Con quest’affermazione, in un certo senso insolita, si apre un bel libro di don Severino Dianich (Chiesa e laicità dello Stato, Edizioni San Paolo 2011). La preoccupazione di Dianich, da qualche anno responsabile della pastorale della cultura e dell’università nella diocesi di Pisa, dopo tanto insegnamento teologico e tanti libri di gran valore, è che il fossato fra la Chiesa cattolica e la cultura della società moderna, creatosi negli ultimi secoli e riassorbitosi con il Vaticano II, si è di nuovo aperto da qualche decennio. Quando si vede la Chiesa radicalizzare i toni verso le tendenze della cultura contemporanea e ricercare la disciplina al suo interno, ricentrandosi sulla propria identità, si ha la sensazione che “la lezione della Gaudium et spes non è stata sufficientemente assimilata”.

Dianich pone la questione dell’esigenza, per la Chiesa, di darsi una nuova “forma”, un nuovo modo di stare al mondo, che sia più adeguato al compito che le viene richiesto dalla nuova situazione in cui viviamo, quella di una società secolarizzata, democratica, pluralista, strutturata in uno stato laico, e nella quale molti oramai sono i non credenti.

E qui c’è una prima distinzione che la riflessione di Dianich pone rispetto al discorso prevalente oggi nella Chiesa. Quando si parla di “nuova evangelizzazione”, nel contesto occidentale (e se ne parla dal 1979, con Giovanni Paolo II, anche se è da poco tempo che papa Benedetto XVI ha istituito un apposito “consiglio pontificio”), si intende porre la necessità di rievangelizzare popolazioni considerate ancora culturalmente cristiane e composte per lo più da battezzati anche se non praticanti. Ma questo modo di porre il problema tende a far assumere alla Chiesa un atteggiamento di difesa di quella cultura europea che ha assorbito principi e valori evangelici. Atteggiamento che suona come un rimprovero e che non viene accettato. Viceversa – sostiene Dianich – è bene prendere atto che la popolazione europea, di qui a poco tempo, non risulterà più composta, nella sua maggioranza, da cristiani, e che dunque è bene “abbandonare le nostalgie delle situazioni antiche e l’illusione che si possano restaurare i precedenti costumi…”, e rimeditare piuttosto l’esperienza della Chiesa dei primi secoli, così da orientarsi a proporre puramente e semplicemente la fede, con “un atteggiamento di amorevole attenzione alle persone”.

Dianich prova a indicare i “tratti” che dovrebbero caratterizzare il nuovo modo di essere della Chiesa oggi, la “forma nuova”, in questo scenario così mutato.

Primo. Assoluta preminenza dell’impegno della comunicazione della fede su ogni altro aspetto della sua missione. Che non significa trascurare il tratto della responsabilità anche sociale e politica, ma questa verrebbe ad essere non già un’istanza etica, un dovere morale, quanto invece un qualcosa “derivato dalla natura stessa del Vangelo” e proposto alla libertà della singola persona.

Secondo. Servizio al bene comune, come servizio alla pace e all’unità, dunque alla riconciliazione. Qui si sottoliena che se l’evangelizzazione, in prima battuta, “produce” discepoli in certo senso separati dal resto della società e uniti in una comunità nuova, questo è solo un passaggio che conduce discepoli e nuova comunità a farsi dinamica di riconciliazione per tutta la comunità umana.

Terzo. Rinuncia ad esercitare l’egemonia morale sulla società, e assunzione di un profilo modesto di fronte allo Stato e alle altre agenzie sociali. Nel proporre, in una società pluralista, il Vangelo a tutti, non spetta alla Chiesa (anzi le è di ostacolo) attribuirsi un compito di legittimazione della legislazione civile. Ciò che è bene che la Chiesa faccia è di presentarsi al mondo con il volto del suo messia, e pronta sempre a convertirsi essa stessa, e a riformarsi. Con l’intento non di condannare il mondo, ma di salvarlo.

Quarto. Una più forte identità cristiana, cercata non nella contrapposizione alle altre visioni, ma stando nel mondo in una forma “antimondana”. Antimondana anche nelle forme esteriori, che hanno il loro peso. Dianich immagina una istituzione ecclesiale in costante revisione critica della propria forma, perché sia meno lontana possibile dalla “forma Christi”.

Quinto. Una modalità di vita all’insegna della povertà. Come chiesero in Concilio ben 500 vescovi. Nelle insegne, nelle vesti, nei titoli… Senza di ciò, infatti, la dinamica stessa dell’evangelizzazione finisce per essere bloccata.

Sesto. Una fondamentale laicità. E’ in particolare dall’atteggiamento dei pastori che deve apparire chiaro che la proccupazione principale della Chiesa è la proposta della fede, “più che di questo o di quel programma politico” e “la cura di un rapporto fraterno e amorevole con tutti, al di sopra di tutti gli schieramenti politici”. Di fronte alla Stato e alle istituzioni civili non deve essere in primo piano il protagonismo dei pastori della Chiesa – scrive Dianich -, ma quello dei laici, “i quali agiscono nella società come tutti gli altri cittadini” e che sono la stragrande maggioranza del popolo di Dio, popolo tutto sacerdotale.

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