di Nicola Cacace
Ormai è evidente che i tassi di crescita dell’economia dei “vecchi” paesi industriali sono molto più bassi di quelli dei “giovani” paesi emergenti. E poiché la produttività da rivoluzione digitale cresce allo stesso modo in quasi tutti i paesi, difendere i livelli occupazionali dei paesi industriali in queste condizioni di bassa crescita, è possibile solo con politiche di sviluppo speciali che, più che sull’alta crescita, puntino sulla qualità delle produzioni, sui servizi e sulla redistribuzione del lavoro. Questa sfida è stata raccolta nei paesi del Nord Europa e con successo.
Infatti, negli ultimi anni, di fronte alle difficoltà crescenti per difendere i livelli occupazionali in anni difficili, di crescita bassa o addirittura negativa, alcuni paesi, Germania in testa, hanno ben studiato il problema sviluppando speciali politiche del lavoro che hanno avuto successo.
Con la globalizzazione, infatti, la crescita mondiale del 3-4% l’anno si realizza con tassi di crescita dei paesi emergenti del 6% e dei paesi industriali intorno all’1%. Con questi tassi di crescita della produzione, la produttività, che con la rivoluzione elettronica taglia più posti di lavoro di quanti ne crei, è più alta e questo ha effetti negativi sul lavoro, a parità di politiche. Si aggiunga il fatto che la deindustrializzazione è un fenomeno inarrestabile – in 30 anni il peso del manifatturiero su occupazione e Pil nei paesi industriali si è dimezzato al 15%, oggi solo Germania, Giappone e Italia sono al 17, ma sempre in calo- e quindi solo crescendo nei servizi e facendo speciali politiche pro-labor è possibile difendere i livelli occupazionali. La Germania è l’esempio più riuscito di queste nuove politiche, come la Kurzarbeit, orario corto, sostituzione degli straordinari con la borsa delle ore, contratti di solidarietà difensivi per evitare licenziamenti ed offensivi per aumentare l’occupazione, indennità di disoccupazione legate al reimpiego obbligatorio, pensionamento progressivo, part time incentivato, politiche introdotte in Germania dal governo Schroeder col pacchetto Hartz 2003-2005 e che hanno consentito al paese di difendere l’occupazione anche in periodi di crescita negativa. Sintomatico il 2009 quando con un PIL negativo del 5,5% il monte ore calò da 60 a 58 miliardi ma l’occupazione non calò perché si operò una redistribuzione del lavoro.
Nel periodo 2000-2013 la Germania con una crescita inferiore all’1,5% annuo ha addirittura aumentato l’occupazione ed il suo tasso di occupazione è andato oltre il 70%. Altri paesi hanno adottato con successo politiche occupazionali speciali, adatte ad anni difficili. Tra questi ci sono Austria, Olanda, Finlandia, Svezia, Norvegia, G.B. ed anche Francia, che pur tra tante difficoltà ha un tasso di occupazione del 70%. Sono tutti paesi che, pur con una crescita media intorno all’1-1,5 per cento nel decennio 2003-2013 adottando specifiche politiche del lavoro, sono riusciti a difendere i tassi di occupazione, talvolta aumentandoli. A differenza dell’Italia, che nel periodo 2000-2013, con lo stesso basso tasso annuo di crescita del Pil intorno all’1%, otteneva risultati opposti, riducendo l’occupazione e aumentando la disoccupazione, soprattutto quella giovanile e, quel che è più grave, ha un tasso di occupazione di 10 punti inferiore al tasso medio europeo, che significano 4 milioni di posti mancanti per essere europei. Perché? Perché l’Italia ha fatto politiche sbagliate puntando sulle quantità e non sulla qualità, agevolando gli straordinari, facendoli pagare di meno, finanziando col contagocce i contratti di solidarietà, aumentando l’età pensionabile a 67 anni, rifiutando la pensione progressiva (chi può e vuole si ritira prima con pensione ridotta), non sviluppando i servizi, Turismo, Cultura, Servizi per le imprese, etc., che è l’unico grande settore con cui tutti i paesi industriali compensano i buchi della deindustrializzazione, abbastanza inevitabile nel mondo globalizzato dove i maggiori centri manifatturieri sono ormai la Cina, l’India, il Brasile, il Sud Est asiatico. L’Italia ha invece un peso dei servizi inferiore di 5 punti a quello dei maggiori paesi industriali (68% contro73%) e ha una durata annua del lavoro di 1800 ore contro le 1500 dei paesi citati (dati Ocse), che significa il 20% di orario in più, che significa 4 milioni di potenziali occupati in meno.
Questo non vuol dire rinunciare alla crescita, ma non illudersi che la ripresa possibile dello zero virgola, possa produrre gli effetti occupazionali che servono all’Italia per tornare in Europa.
Ci sono poi gli effetti della bassa natalità italiana e conseguente invecchiamento, elementi in se contrari alla crescita economica. Infatti, domanda e investimenti languono sempre in paesi vecchi. Non è un caso che nel decennio 2003-2013 Italia e Giappone, i paesi a più bassa natalità e quindi più vecchi del mondo – 45 anni di età media contro i 35 del mondo ed i 25 dei paesi emergenti- siano stati anche quelli col più basso tasso medio di crescita del Pil e col record negativo degli Ide-in, in vestimenti diretti esteri, intorno allo 0% del Pil. Tra i problemi che l’Italia ha di fronte – riforme istituzionali e della P.A., ristrutturazione dell’industria, forte rilancio dei servizi, turismo e cultura in testa- la denatalità resta il problema numero uno, anche per l’economia, e, purtroppo, gli economisti ed i politici lo ignorano!
Per rilanciare la natalità, dall’attuale 1,3 figli per donna almeno all’1,8 francese, olandese e svedese, occorre creare molti posti di lavoro (milioni non migliaia per essere in media europea) e combattere la precarietà (non la flessibilità che è altra cosa, ma in Italia le due cose si sono sovrapposte) che impedisce ogni progetto di futuro. Per far tutto questo occorre puntare sui servizi, sull’intelligenza delle produzioni e sulla redistribuzione del lavoro; che, come anticipava il futurologo Alvin Toffler decenni fa (The third wave, la terza ondata) e l’economista Jhon Maynard Keynes un secolo fa (con la previsione che i nipoti avrebbero lavorato non più di 20 ore a settimana), avrebbe caratterizzato la società post-industriale del XXI secolo. Ma che in Italia, invece, in pochi considerano. Sono tutti segnali di un dibattito culturale e politico colpevolmente assente nel paese e che ha fatto e fa molti danni.
Renzi ha reagito a questa situazione col Jobs Act, che contiene una misura “rivoluzionaria”: per 3 anni, 2015, 2016 e 2017, per gli assunti a tempo indeterminato nel 2015 le imprese non pagheranno i contributi sociali, risparmiando ben 8mila euro l’anno. La misura è importante e sicuramente favorirà un certo numero di assunzioni a tempo indeterminato nel 2015, ma ha due “inconvenienti”, uno grave, la non aggiuntività dei livelli occupazionali, col rischio di favorire cancellazioni di precedenti rapporti di lavoro per sostituirli col nuovo contratto agevolato; il secondo inconveniente è che la misura agevolativa è prevista solo per gli assunti nel 2015. Ammettiamo che un certo rilancio della domanda interverrà nel 2016 e nel 2017, la misura agevolativa non operante per quegli anni, non avrà alcun effetto su eventuali nuove assunzioni. E questo è sbagliato, perché risponde solo al desiderio di Renzi di dare una “scossa” subito, senza considerare gli effetti positivi su un periodo più lungo. Cui prodest? Non certo al paese.