A due anni pieni da quel conclave inatteso, papa Francesco ha ormai impostato una linea pastorale chiara e sempre più convincente. L’annuncio del Giubileo della Misericordia contribuisce a definire ancor meglio l’orizzonte fondamentale della sua proposta, che ha a che fare con i livelli profondi della concezione di Dio annunciata da Gesù Cristo, e quindi della fede e dell’esperienza cristiana. La ricchezza dell’appello alla misericordia di Dio, ovviamente, non va letta in contrapposizione con il richiamo alla verità dei suoi predecessori (quasi fosse un buonismo sterile), ma al contempo esprime una consapevolezza che ricolloca al suo proprio posto ogni concezione veritativa. La verità più profonda non è infatti una dottrina, una formula o una idea, ma è l’amore concreto e smisurato di Dio per l’umanità intera e per ogni essere umano, a partire dal più fragile e lontano: solo se si coglie questo apriori assoluto, allora la risposta umana può provare a mettersi sulla stessa lunghezza d’onda. Superando quindi ogni illusoria auto-centratura e ogni delirio d’onnipotenza, ogni egoismo e ogni pigrizia. Solo la misericordia del perdono ricevuto genera infatti la possibilità dell’impegno morale, permette la scelta del bene, apre la prospettiva della conversione, aiuta la buona esperienza delle relazioni d’amore.
In questa direzione, il papa si può permettere di proporre un modo convincente di ricentrare la Chiesa tutta e la sua missione, che deve divenire sempre più trasparente rispetto a questa immagine di Dio. Da qui tutti i suoi appelli alla conversione e al cambiamento di mentalità, di abitudini, di prassi organizzative, la lotta alla mondanità che si è infiltrata sottilmente nella Chiesa, la denuncia paterna delle malattie tipiche della mentalità religiosa, da cui dobbiamo guarire come credenti. Di qui anche la straordinaria profondità dei suoi appelli alla vita collettiva: la sua insistenza sulla vocazione cristiana come necessariamente comunitaria e sociale. Il suo spontaneo riferirsi alla vicenda della povertà e dell’emarginazione, nelle periferie della storia, come punto di riferimento di un ripensamento profondo dell’organizzazione sociale e politica.
Di fronte a questo magistero ormai strutturato e articolato, si rafforzano nella Chiesa le resistenze e le sofferenze di un’ampia area che non riconosce la verità profonda di questa proposta. E’ un’opposizione sorda, solo a tratti rivestita della protesta tradizionalista, ma più spesso intessuta di silenzi e distanze implicite quanto impegnative. Calati juncu ca passa la china… Ma c’è ormai di più. C’è anche lo sconcerto di chi, tra i credenti più sinceramente legati al rinnovamento conciliare della Chiesa, teme un rinnovamento che ancora una volta arrivi dall’alto, surrogando una presa di coscienza del popolo di Dio. Qualcuno parla ormai con sofferenza della centralità mediatica assunta dal papa. Ancora più sottile, è la sensazione che alcuni stanno ormai vivendo di una radicalità eccessiva di alcuni dei discorsi più implicitamente politici del papa. Quando si scaglia contro «l’idolatria del denaro», la «globalizzazione dell’indifferenza», l’«economia che uccide» oppure «l’inequità […] radice dei mali sociali». C’è chi comincia a pensare: ma questo papa non sta esagerando?
Penso in realtà che il papa non stia esagerando e non stia nemmeno debordando dalla sua missione di vescovo della Chiesa di Roma e punto di riferimento del servizio dell’unità della Chiesa universale. Abbiamo bisogno infatti di una Chiesa che parli, che sproni, che richiami la profondità delle questioni aperte e delle tendenze problematiche. Abbiamo bisogno di far risuonare la forza semplice del Vangelo come pietra di paragone delle scelte di ciascuno di noi. E quindi è fondamentale che un papa incarni la funzione di amplificatore forte del paradosso cristiano.
Ma è anche chiaro che questi appelli non risolvono da soli i problemi. Indicano una prospettiva, richiamano delle priorità, impostano un metodo. Da lì in avanti, tuttavia, si aprono autostrade di impegno e di ricerca, di lavoro e di progettazione che non possono che essere affidate ai credenti nel popolo di Dio, e in specifico ai laici impegnati nel mondo. Come costruire una società e un’economia che sfugga ai mali indicati dal papa non è compito semplice, né immediato. Chiede uno sforzo straordinario, che noi chiamiamo di mediazione di questi valori assoluti e di questi appelli forti nella storia, per renderli capaci da una parte di penetrare l’opacità delle strutture e delle istituzioni (che non dipendono soltanto dalla buona volontà dei singoli), e per incontrare dall’altra parte le coscienze di chi la pensa magari anche diversamente, per costruire accordi e incontri che permettano alla vita concreta e alla politica di produrre soluzioni un po’ più vicine a – o un po’ meno lontane da – quell’esigente appello. Ecco che allora papa Francesco non ci sta sottraendo il lavoro. Averne di guide come lui! Ma la sua voce alta e forte ci chiama all’impegno creativo e progettuale, non alla sterile ripetizione o alla banale divulgazione. Non fa che stimolare in modo sempre più profondo la nostra ineliminabile responsabilità. Su cui saremo alla fine giudicati.
Guido Formigoni
23 Marzo 2015 at 23:59
Compito del Papa è indurre alla riflessione,far risvegliare l’importanza di certi valori appannati ,riaprire le menti alla pratica del bene comune, dare l’esempio nel piccolo e nel grande,compito dei politici è attuare coi fatti e non proclamare colle parole.
25 Marzo 2015 at 22:23
Ho letto con interesse questo articolo e mi trovo in grande sintonia col pensiero e le valutazioni dell’autore. Non ho potuto evitare di ripensare al mio limitatissimo impegno civile di laico cristiano e ad alcuni dubbi al riguardo.
In particolare ho notato che, al di là delle dichiarazioni di principio, quando è tempo di attivarsi concretamente, di “sporcarsi le mani” o “metterci la faccia”, mi trovo spesso nella situazione, un po’ imbarazzante, di avere a fianco ben pochi amici di matrice cattolica, mentre sono circondato da molti amici di differente estrazione. Cerco di spiegarmi meglio.
Prendiamo ad esempio la manifestazione in piazza Duomo a Milano a gennaio, subito dopo il dramma del Charlie Hebdo. Ebbene, di cattolici manifestanti in piazza mi è sembrato essercene ben pochi rispetto ad altri movimenti, eppure l’evento era promosso anche da organizzazioni cattoliche. Come mai? La situazione poi peggiora quando l’evento nasce in settori non cattolici: prendiamo ad esempio la campagna Stop-TTIP, nata recentemente nell’ambito della sinistra per contrastare il predominio delle grandi aziende multinazionali. In questo caso, nell’attività pratica, mi trovo quasi solo in ambito cristiano: possibile che temi come la libertà, la democrazia, la difesa dei diritti civili vengano lasciati in mano soltanto a formazioni essenzialmente di “sinistra” (partiti, sindacati, gruppi d’acquisto, associazioni varie), come se ai cattolici importassero poco? E’ soltanto una mia impressione o è sentita da altri?
Ho anche cercato di darmi qualche motivazione, con scarso successo. Forse i movimenti cattolici sono troppo presi da altre attività, da altri ideali; o forse sono interessati, ma certe cose le lasciano fare agli altri. Ripeto: la mia esperienza è molto limitata e spero di sbagliarmi. Per questo esprimo questi dubbi: conto che Guido, o altri, possano presto smentirmi.
Grazie e cordiali saluti, Danilo Malaguti