Una trentina di partecipanti. Cinque amici impegnati attivamente nella vita politica invitati a dire la loro. Una breve introduzione del coordinatore di c3dem, Vittorio Sammarco. Poi, poiché il Seminario è nato da uno spunto di Franco Monaco, già presidente dell’Azione cattolica ambrosiana e da parecchi anni parlamentare del Pd (si veda il suo articolo sul sito di c3dem, “A proposito di una ipotizzata componente catto-renziana nel Pd”, dello scorso 26 febbraio, e il dibattito che ne è scaturito), è a lui che viene data la parola per iniziare.
Franco Monaco, dopo aver di provare una forte nostalgia per la “stagione eroica” dell’Ulivo, ha osservato che, paradossalmente, i cattolici democratici, che oggi gravitano quasi tutti nel Pd, sono tra loro più divisi, nel giudicare le vicende politiche attuali, di quanto non fossero ai tempi dell’Ulivo, quando militavano in forze politiche distinte benché convergenti. Monaco ha detto che il nuovo corso politico introdotto dalla vittoria di Renzi ha prodotto una forte novità e, più ancora, una “rupture” rispetto alla precedente stagione politica. E ha aggiunto di cogliere una distanza, più che non una consonanza, tra il nuovo corso politico e i cattolici democratici. Monaco, che però si è detto pronto a correggere questa sua opinione sulla base di un confronto argomentato, ha indicato cinque o sei elementi cruciali su cui ritiene di riscontrare questa distanza: le riforme costituzionali, verso le quali una parte cospicua dei costituzionalisti di riferimento dei cattolici democratici è molto critica; le politiche sociali e del lavoro, e in particolare la riforma del Jobs act che viene esibita dal governo come una riforma di sinistra mentre, semmai, si sarebbe dovuto avere il coraggio di dire che è il frutto di una situazione socio-economica in cui certi diritti conquistati in passato non sono oggi più sostenibili; la caduta della visione del partito come organismo collettivo vivente, effettivo strumento di partecipazione democratica; un metodo di governo che non valorizza le mediazioni sociali e che sembra aver messo definitivamente in cantina quel dialogo sociale che è stato così caro, in particolare, alla cultura della Cisl; un approccio superficiale e di bassa soglia sui diritti civili (ad esempio le unioni gay), proprio oggi che, liberati dalla pressione ruiniana, i cattolici democratici avrebbero la responsabilità di tenere quella soglia alta, animando un dibattito serio ed esigente; infine, la messa fuori gioco del bipolarismo grazie a una proposta di riforma elettorale, l’Italicum, che fa spazio al discutibile partito della nazione.
Dopo Franco Monaco, è intervenuto Paolo Corsini, più volte sindaco di Brescia e parlamentare nel Pds e oggi senatore del Pd, docente di storia moderna. La sua è stata una requisitoria, e insieme una sorta di “divertissement”, del renzismo e della “renzizzazione” del Pd. Ha iniziato dal partito della nazione, che nell’impostazione di Renzi non è né il partito di cui aveva parlato lo storico Agostino Giovagnoli riferendosi alla Dc ai tempi del bipartitismo imperfetto né il partito della nazione di cui più recentemente ha parlato l’anziano esponente del Pd (ex Pci) Alfredo Reichlin riferendosi a un partito che faccia proprio l’interesse generale; c’è dentro, invece, secondo Corsini, un’idea cervellotica di palingenesi. Il Pd modellato da Renzi fa della velocità e del movimento la bussola che orienta la propria iniziativa politica. E’ una “narrazione dissimulatoria”, quella di Renzi, come ha osservato Marco Damilano nel suo ultimo libro (più volte citato da Corsini). Dissimulatoria sulle riforme costituzionali come sulle politiche economiche (in economia sono Juncker e Draghi a decidere, nota Corsini, non certo Renzi). Nella narrazione renziana c’è l’idea del principe azzurro che arriva e che risolve gli incantamenti malefici di cui è prigioniera l’Italia.
Il cattolicesimo di Renzi, dice Corsini, non è né quello della presenza né quello della mediazione. Corsini ci vede solo il movimentismo ciellino, fatto di affari e potere. Renzi – dice Corsini – è la fine della questione cattolica. Si passa dal family day al family gay, dalla cultura dell’intimità alla cultura della “estimità”. Non il lapirismo, ma lo scoutismo. Con Renzi le assemblee parlamentari sono ridotte a organi di acclamazione. Il meccanismo della mediazione è azzerato. Le forze sociali sono emarginate, i corpi intermedi non esistono più. E’ la democrazia del pubblico. La democrazia dell’autorappresentazione (Damilano). E’ la smentita di ciò che era stato l’Ulivo. Il Pd diventa un partito osmotico, in cui opera il trasformismo consociativo (Corsini cita il caso di Gennaro Migliore, passato da Sel al Pd e ora primo difensore della riforma elettorale fino a ieri criticata). Anche sul tema della legalità il criterio che prevale, dice Corsini, è quello dell’audience, è la discrezionalità. Nel giovanilismo renziano è in primo piano la categoria della bellezza, non quella della riforma morale. Dalle barzellette di Berlusconi si è passati alle battute di Renzi. Il suo italiano “novo” è l’italiano del tweet. Il Pd di Renzi è un partito pubblicitario, che comunica ma non argomenta, un partito del comando, mono-personalizzato. Un partito che non ha più nelle sue corde la dimensione critica dell’anti-italiano, che era stata di Moro come di Berlinguer, e che recupera invece quella dell’arci-italiano, che degli italiani riproduce i vizi invece di correggerli. Un partito che ha satellizzato gli alleati. Che esige fedeltà e obbedienza. Un partito disintermediato. Un partito immediato.
Passaggio brusco è quello da Paolo Corsini a Michele Nicoletti (già fucino, già presidente della Rosa Bianca, docente di filosofia politica a Trento, deputato del Pd dal 2013 e presidente della delegazione parlamentare italiana al Consiglio d’Europa), il quale esordisce dicendo di voler ragionare “come se Renzi non esistesse”, prescindendone. Inizia descrivendo uno scenario internazionale che definisce molto molto difficile: l’Ucraina a Est, i drammi del Mediterraneo, la competizione portata agli Usa dalla Cina, i movimenti antieuropei e la prevalenza dei conservatori in Europa. La diseguaglianza economica crescente. Prosegue indicando i maggiori mali italiani: il debito pubblico spaventoso, le riforme bloccate, il quarto di produttività industriale perduto, la criminalità. Accenna alla difficile eredità ecclesiale che porta il segno di Wojtyla e di Ruini (un cristianesimo solo occidentale), e alle tragedie dei cristiani di Oriente (che non abbiamo difeso). Ricorda, poi, il fallimento politico nelle elezioni del 2013: il fallimento della lista “Italia bene comune” guidata da Bersani (dentro la quale c’era tutto il cattolicesimo democratico), incapace di offrire al paese un’alternativa vincente. Oggi, invece, nota Michele Nicoletti, siamo con il Pd al 40 per cento; c’è un recupero di credibilità del governo italiano in Europa. E c’è papa Francesco.
Come cattolici democratici – si chiede Nicoletti – che cosa diciamo, come valutiamo la situazione attuale? Nicoletti osserva che, quanto al Jobs act, si tratta di una politica del lavoro migliore della precedente; i cattolici della Lega democratica – fa rilevare – non hanno mai dato, infatti, un giudizio molto positivo della linea dominante nei sindacati nei decenni scorsi. Quanto alle questioni istituzionali, le politiche seguite oggi dal governo Renzi sono in realtà coerenti con le idee di Scoppola e di Ruffilli. Anche il Senato delle autonomie sta nelle tesi dell’Ulivo. E la riforma elettorale che rafforza l’Esecutivo è in consonanza con le posizioni di Scoppola del 1990 (abbiamo avuto 63 governi in 70 anni, ricorda Nicoletti: troppi). Gustavo Zagrebelsky parla di un potere legislativo espugnato dalla riforma dell’Italicum, ma a me, dice Nicoletti, quando vado a Stasburgo come capo della delegazione parlamentare italiana, mi chiedono quanto durerà il governo italiano… La questione cruciale, secondo lui, è quella di rendere il Pd e il governo più forti a livello internazionale. E usare questa forza per fare le battaglie che sono necessarie per rafforzare politicamente l’Unione europea. A suo avviso è gravissimo parlare, come alcuni fanno, di deriva autoritaria. Torna a dire che è stato Roberto Ruffilli a parlare di premierato rafforzato. Se si vuole dare più forza al potere dei cittadini, le vie sono due: o si rafforza il presidente o si rafforza il premier. Altrimenti a decidere sono i partiti. Quanto a chi critica l’Italicum e propone che tutti i parlamentari siano eletti con le preferenze, Nicoletti fa osservare che il Pd non ha nessun organismo eletto con le preferenze. Piuttosto, dice, il problema è la capacità del partito di selezionare la classe dirigente. Infine, quanto al premio di maggioranza che la minoranza Pd chiede sia dato alla coalizione invece che al partito, per Nicoletti questo vorrebbe dire aprire la strada ai ricatti delle forze minori; mentre il premio al partito è la soluzione più limpida.
Giorgio Tonini (presidente Fuci e vicepresidente Meic negli anni ’80, tra i fondatori dei cristiano-sociali, in segreteria con Veltroni nel 1999, senatore dal 2001) premette di essere in tutto e per tutto d’accordo con Michele Nicoletti. Inizia soffermandosi sul rapporto tra la figura di Matteo Renzi e la tradizione dei cattolici democratici. Ricorda un’osservazione di Paolo Giuntella: il cattolicesimo democratico non è mai stato un sistema di pensiero ma una costellazione di biografie. Per Tonini anche Matteo Renzi è una biografia che fa parte di questa tradizione. E’ da valorizzare, questa appartenenza, più che respingerla. Dice, poi, di aver sostenuto Renzi perché convinto che la linea politica di Pierluigi Bersani fosse sbagliata. Di fronte alla crisi di Berlusconi, il Pd di Bersani si stava arroccando invece di guardare al centro per cercare di portarlo a sinistra. Tonini aveva parlato, allora, di “balena spiaggiata”. C’era un mare aperto e il Pd, invece di cercare di conquistare i pezzi di società che stavano abbandonando Berlusconi, si era alleato con Vendola. Matteo Renzi era, invece, il tentativo di conquistare quel mare aperto. Una ricerca di Itanes ha messo a confronto il voto al Pd nelle elezioni politiche del 2013 e il voto al Pd delle europee nel 2014. Nel 2013 il voto degli operai aveva premiato il M5S, in seconda battuta il Pdl, e solo al terzo posto aveva scelto il Pd. Nel 2014 il Pd raddoppia il voto degli operai, e ne diventa il primo partito. Dice Tonini: gli operai sono diventati di destra? Da anni, prosegue, la società è polarizzata tra coloro che vivono di spesa pubblica e coloro che vivono di mercato. Il Pd è stato prevalentemente il partito di coloro che vivono di spesa pubblica (pensionati, studenti, dipendenti pubblici). Questo bipolarismo sociale spiega il successo di Berlusconi. Renzi ha spezzato questa situazione. Ha realizzato quello che Veltroni aveva indicato (nel discorso del Lingotto a Torino), ma senza riuscire a tradurlo in pratica. Riarticolare le classi sociali, fare riforme interclassiste, arrivare a un patto sociale tra i ceti produttivi sull’innovazione: è questo, secondo Giorgio Tonini, il tema cruciale per il Paese. Tema, aggiunge, che dovrebbe essere cruciale anche per la nostra sensibilità cattolico democratica.
Tonini sostiene che il Pd non solo è ora il primo partito d’Europa, ma ha anche saputo sviluppare un’altissima cultura della mediazione, muovendosi tra l’Europa della conservazione e quella dell’antieuropeismo. Draghi, secondo Tonini, deve ringraziare Renzi e le sue scelte (qui Tonini rovescia l’osservazione di Paolo Corsini), Infatti Renzi si è convinto a fare la battaglia del Jobs act, in cui inizialmente non credeva molto (se la sarebbe risparmiata, dice Tonini, perché a Renzi piace piacere, non ama il conflitto) solo perché Draghi glielo ha chiesto. Prima dell’estate e dell’incontro con Draghi, la legge-delega di riforma del lavoro era una minestrina (come l’aveva giudicata Pietro Ichino); solo dopo l’incontro con Draghi, il quale aveva bisogno del sì dei tedeschi più ragionevoli e della Merkel per far passare la sua linea alla Bce, Renzi si convince a dare maggior peso al Jobs act, inserendovi anche l’attacco all’art. 18. Per Tonini è stato un capolavoro storico-politico, che ha permesso di far vincere in Europa la posizione riformista.
Quanto alle riforme costituzionali, Tonini ribadisce, con Nicoletti, che la linea del Pd è in continuità con le tesi dell’Ulivo (sia sul Senato sia sul premierato), e aggiunge che quando nel 2007 un gruppo di parlamentari ulivisti guidato da Arturo Parisi presentò una proposta di referendum per l’abolizione del premio di coalizione per darlo invece alla lista, cioè al partito, la proposta ebbe la firma di Rosy Bindi (che però oggi ha cambiato idea). Quanto, infine, al partito della nazione, dice di preferire l’espressione “partito del Paese”, usato già da Veltroni, cioè un partito a vocazione maggioritaria, un partito che non assegna all’altra parte, come invece faceva il Pci, la guida del Paese, riservando a sé un ruolo permanente di opposizione. Tonini dice che si è trattato di superare l’idea, tipica del Pci, dell’“altra Italia”, il suo sentirsi un’Italia a parte: il Pd, invece, dice “noi siamo l’Italia”, o meglio “questa è l’Italia come la vediamo noi”. La fine del complesso di essere italiani – dice Tonini – è stato l’apporto dei cattolici democratici al Pds, prima, e al Pd, poi. Per questo è nato il Pd. Semmai, il vero centrismo, conclude Tonini, è il proporzionale, ed è ancora oggi un rischio altissimo quello di andare al voto con il consultellum.
Giovanni Bianchi (classe 1939, fondatore a Milano negli anni ’70 del Centro operaio con Antoniazzi e Manghi, poi presidente delle Acli dal 1987, parlamentare dal 1994 nelle file del Ppi fino allo scioglimento, segretario del Pd milanese per qualche tempo, dal 2000 presidente dei Comitati Dossetti di cultura e formazione politica) ha osservato che Renzi, a suo avviso, appartiene senza dubbio alla tradizione cattolico-democratica. Per questo lo ha sostenuto e fatto votare, anche se non tutte le sue scelte gli piacciono. L’opzione di Bianchi è di essere dentro, anche se criticamente, al Pd guidato da Renzi.
Bianchi ha insistito sul fatto che al cattolicesimo democratico sta a cuore la realtà del partito politico. Il suo richiamo è a don Sturzo, che un partito lo ha fondato. E anche a Giuseppe Dossetti, che aveva in mente l’idea di un partito educatore della masse, e su questo si scontrò con De Gasperi. Il partito, per Bianchi, è necessario. Ed è necessario il “fare”, tanto che Renzi ha vinto anche perché ha messo fine a quello che Bianchi ha chiamato “l’eccesso diagnostico” nel Pd, cioè l’eccessivo spazio dato alla riflessione a discapito dell’azione. “Finalmente si fa!”, dice Bianchi. Sui limiti della classe dirigente nel Pd, e di Renzi stesso, Bianchi osserva che il problema della classe dirigente è assai vecchio nel nostro Paese: ne parlava già Giacomo Leopardi! La rottamazione renziana è stata una scelta giusta, per Bianchi; si tratta ora di ricostruire il partito, il quale per ora è un cantiere aperto. Fare educazione politica, e farla dentro il Pd, è l’impegno di Giovanni Bianchi: “il mio dossettismo”, come ha detto.
Quanto al cattolicesimo democratico, è difficile dire se oggi esso sia ancora vivo … Bianchi fa parte di un raggruppamento che si chiama “Cattolici democratici lombardi”, ma – dice – si tratta di un contenitore che è tutto da riempire, e la cosa va fatta anche insieme ad altri. Ad esempio a Milano è avviata una collaborazione con l’associazione Libertà Eguale e con Michele Salvati, cioè con la tradizione di quella componente dell’ex Pci che una volta si chiamava “migliorista”
Ai cinque interventi (al Seminario non ha potuto essere presente Lucia Fronza Crepaz) è seguito un dibattito cui hanno partecipato una decina di persone (tra esse Rossella Verri, Lorenzo Gaiani, Grazia Villa, Maria Pia Bozzo, Luigi Franco Pizzolato, Ferdinando Mandara, Angelo Levati, Andrea Michieli). Grazia Villa ha ricordato che tra le anime della Lega democratica c’è certo Pietro Scoppola ma c’è anche Achille Ardigò; e le tematiche su cui si era in disaccordo con Scoppola (cultura della pace, giustizia sociale, partecipazione democratica) restano vive, e non è solo dentro il Pd che vanno portate avanti. “Volevamo governare, ma con idee diverse”, ha detto Grazia Villa. Maria Pia Bozzo ha messo in evidenza come ci sia un enorme differenza tra il Pd di oggi e l’Ulivo: oggi nel Pd il dibattito interno è pressoché scomparso. Per Maria Pia Bozzo il tema cruciale per i cattolici democratici è il rapporto tra capitalismo e diritti umani. Luigi Franco Pizzolato ha avuto accenti particolarmente critici su alcune scelte di Renzi, e a Tonini e Nicoletti ha ricordato che va svolta una funzione di coscienza critica e che non va bene limitarsi solo a gestire meglio la degenerazione … Ha criticato in particolare la delegittimazione dei corpi intermedi, la rinuncia a comunicare la complessità, la limitazione del ruolo del parlamento. Ferdinando Mandara ha dato atto a Renzi che, sebbene abbia forse scarsa cultura storico-politica, ha però capacità di interpretazione della realtà e capacità di azione politica; ed è questo che più conta in un uomo politico. Angelo Levati ha lamentato che Renzi abbia messo ai margini i sindacati, che pure hanno dimostrato tanti limiti, e ha denunciato che oggi in fabbrica i datori di lavoro sono tornati a fare i padroni. Andrea Michieli, della Fuci, ha rilevato che i cattolici democratici non sanno comunicare con i giovani, e ha osservato che il cattolicesimo democratico, se non riesce a incidere sulla cultura del Pd, allora merita di estinguersi.
Nelle sue conclusioni Guido Formigoni ha rilevato che Matteo Renzi esprime un’indubbia forza di iniziativa politica, e quindi suscita sia forti critiche sia forti consensi. Ha convenuto con Franco Monaco che si può percepire una netta discontinuità tra la politica di Renzi e la sensibilità cattolico democratica, e ha osservato che le questioni di stile, messe in evidenza da Paolo Corsini, rinviano a problemi di sostanza. Ma ha detto di ritenere che Renzi stia dando compimento a un iter che era già in corso. Questo vale sia per il leaderismo sia per le soluzioni date alle riforme costituzionali, le quali in effetti confermano scelte che sono state, come altri hanno rilevato, dallo stesso Scoppola. Ed è così anche per il Jobs act che in un certo senso fa seguito a scelte di politica del lavoro che furono di Tiziano Treu. Del resto il tentativo arduo e non sempre efficace di governare la globalizzazione finanziaria (cosa di cui dovremmo a un certo punto, tirare le somme critiche) è stata una deriva che tutte le sinistre europee hanno percorso da parecchio tempo; e con loro le ha percorse anche la stessa cultura cattolico-democratica.
Sul tema controverso delle riforme costituzionali ed elettorali Guido Formigoni si è limitato a rilevare come sia difficile, in realtà, trovare un equilibrio tra la rappresentanza e il premierato forte. Sul cosiddetto partito della nazione, ha osservato che il problema è di sostanza: si tratta di vedere quali posizioni il partito assume. Un punto è dirimente per i cattolici democratici: che il Pd non imbocchi la strada dello Stato minimo.
Per cattolicesimo democratico, osserva Formigoni, noi oggi intendiamo una sensibilità plurale, che non esclude qualcuno piuttosto che un altro (come è sembrato di cogliere nell’intervento ad esempio di Lorenzo Gaiani a proposito delle posizioni di Raniero La Valle). Si tratta di tenere aperto l’orizzonte delle diverse sensibilità che hanno un comune retroterra. I percorsi politici saranno poi necessariamente diversificati. Il portale di c3dem è costruito con questo approccio. Centrale nella sensibilità cattolico-democratica è certamente la cultura della mediazione, ha detto ancora Guido Formigoni, che però non significa rinunciare ad affrontare temi forti, come quelli suggeriti da papa Francesco. La sfida è esserne capaci. La sfida – al di là di essere a favore o contro Renzi – è di allargare lo spazio del confronto dialettico e della coscienza critica.
Giampiero Forcesi
28 Aprile 2015 at 18:39
A proposito di cattolicesimo democratico. Mi associo alle conclusioni di Formigoni: tenere aperto l’orizzonte delle sensibilità comuni. Ci accorgiamo tutti del cumulo di malintesi, stravolgimenti e ripensamenti nel dibattito politico di questi giorni praticate da tutte le parti.Vengono allo scoperto in questi giorni dolorosamente mancanze gravi in tema di convivenza politica denunciate abbondantemente in varie sedi, mai prese in considerazione. Ma questa è oggi la realtà. Mi pare che l’unica possibilità di uscire dal guado sia prima di tutto abolire l’idea che ci siano realtà positive in lotta tra loro. Se è vero che le idee sono le mandanti della pratica dovremmo cercarle tutti insieme queste idee e non è vero che il cattolicesimo democratico, come pure dice Formigoni, ne sia oggi il gestore, se mai lo è stato in passato. La ricetta sarebbe semplice: tornare alle idee fondanti del cattolicesimo per percorrere nella politica e nelle decisioni vie veramente nuove di solidarietà e di convivenza, confrontandosi senza pregiudizi fra diversi scegliendo insieme vie possibili, rinunciando tutti e una volta per tutte a supremazie ideologiche. I temi sono semplici: riconoscimento vero dei diritti (e dei doveri) di tutti, spartizione delle risorse, coppie di fatto, difesa di un femminismo nuovo, scuola a servizio dei ragazzi, ecc… Mi rendo perfettamente conto comunque che la ricerca del consenso elettorale (pure necessaria) e molto altro accennato da Formigoni fa apparire tutto questo forse una pura utopia.