di Alberto Melloni in “Corriere della Sera” del 12 febbraio 2012
Al cuore del Vaticano II stava la convinzione che il dinamismo profondo della Chiesa — la communio — non potesse che discendere dal dono di Dio. E che dunque il fissarsi in inutili condanne andasse arrestato, non per coniglismo, ma per evitare che una ideologia del bastone isterilisse la communio che il vescovo tramite l’Eucarestia continuamente alimenta nella carità. In questo disegno riformatore, di rango non inferiore a quello del secolo XI, aveva un ruolo centrale la collegialità episcopale (cioè la potestà sulla chiesa universale che compete, con e sotto il vescovo di Roma, anche a tutti i vescovi) così che l’obbedienza al Vangelo nel tempo e la visibilità della communio stessa non fosse regolata solo da una struttura di potere, ma continuamente riformata dal mistero celebrato e ricevuto. La collegialità episcopale per realizzarsi aveva bisogno di riforme istituzionali puntualmente mancate. La riforma della Curia di Paolo VI del 1967 si connotò per alcuni atti simbolici (l’abolizione del Sant’Ufficio). Quella di Giovanni Paolo II del 1988 per pochi ritocchi cosmetici. Nessun Papa s’è chiesto come guarire il sinodo dei vescovi dalla impotentia deliberandi. Così il centro del governo della Chiesa romana, con una collegialità rata et non consummata, è rimasto il terreno di lotta di una Curia il cui stato è quello che vediamo. Uno stato desolante.
Il perché di questo spettacolo va colto spersonalizzando le questioni. Alla testa della Curia non c’è «Bertone». C’è un segretario di Stato immerso nella contraddizione fra tre ruoli: quelli di primo ministro collocato fra «ministri» che ne invidiano o insidiano o blandiscono il potere, quello di capo d’una diplomazia tanto vasta quanto inascoltata, quello di parafulmine delle insoddisfazioni afone che covano sotto ognuna delle infinite adulazioni del Papa. Di sotto non pochi ecclesiastici di valore: alcuni dei quali credono però di dover dimostrare la loro fedeltà tramite progressi di carriera protratti fino ad età superadulte, in aperta competizione con le non meno lunghe carriere dei vescovi e l’ormai cospicuo «medagliere» episcopale dei movimenti. In mezzo, una macchina istituzionale che non da oggi è tentata dalla politica italiana sulla cui scacchiera cerca di giocare coi soli pezzi del lato destro.
Che in questa situazione divampino conflitti di potere segnati dalla «mondanità» e dal «carrierismo» che il Papa deplora regolarmente è ovvio. E desolante. Gli eclatanti episodi delle ultime settimane vanno dunque inseriti in questo contesto. Che qualcuno rubi una lettera di un vescovo al Papa per eccitare il disordine, non richiede una querela, ma l’applicazione severa del canone 1373. E le denunce di un vescovo possono certo non aver corso anche se diffuse (purché non diventino capo d’accusa contro il denunziante). Che qualcuno infine trasformi confidenze false e sciocche sulla prossima morte di Benedetto XVI (una voce che normalmente occupa per intero gli ultimi dieci-dodici anni di ogni papato…) in un appunto per lui, scritto in tedesco come fosse un ignorante, fa sorridere tutte le persone serie quanto il destinatario. Se questi episodi miserabili diventano «fattoidi» è perché sono la spia di una prolungata indulgenza verso la menzogna. Una spia desolante.
La verità infatti è diventata quasi un retroscena. Ragioni anche anagrafiche fanno presagire l’avvicendamento del segretario di Stato: due anni fa le sue dimissioni furono però respinte dal Papa, restio a privarsi di un amico di cui apprezza gli exploit (l’uscita dal ruinismo, ad esempio), di cui conosce l’obbedienza (per fermare l’acquisto del San Raffaele è bastato un fiat) e di cui conosce i limiti (nel Sacro Collegio il clero di Genova ha gli stessi cardinali dell’Argentina e i salesiani superano di slancio i domenicani). Ma il Papa conosce anche gli antagonisti di Tarcisio Bertone. E gli antagonisti degli antagonisti. E ora sa anche che per il cappello rosso più importante della Curia si sono alzati polveroni che danno della Chiesa cattolica e degli italiani — questa è tutta roba italiana, di cui si pagherà dazio — una immagine tremenda. E desolante.
Una desolazione che va comunque contestualizzata. Le carriere dei mediocri, la libidine del potere, l’arroganza di chi pensa di pensarla come il Papa, non sono insoliti nella Chiesa di Roma. Senza disturbare il X o il XVI secolo, si può ancor parlare con chi ricorda la condanna di padre De Lubac firmata da tre asterischi, la “cacciata” di Montini a Milano, il veto per omessa omissione posto in capo a Nino Andreatta. Certo oggi nessun dotto ironizzerebbe citando, come Paolo Sarpi pugnalato: «Agnosco stilum romanae Curiae». Manca un Sarpi, manca lo stiletto e manca lo stile. Ma oggi come allora bisogna sapere che ciò che tiene in equilibrio la Chiesa è solo quel tesoro di misericordia balsamica, di santità dimentica di sé, di amore tangibile e di libertà interiore che sono sostanza della communio e dono dall’Alto.
Se oggi la desolazione prevale anche nei più puri bisogna chiedersi non quando è iniziato il degrado (credo all’ultima cena), ma cosa rende insufficiente oggi quel tesoro che c’è. E questo devono chiederselo i vescovi: lo storico può solo dire che forse un eccesso di confidenza nel conservatorismo di moda, l’impunito vezzo di umiliare il Vaticano II al rango di un concili etto «disciplinare», non sono senza responsabilità in questo inverno desolante, di cui solo la collegialità potrà essere la primavera.