L’autrice è fra i fondatori del Movimento per L’Ulivo in Umbria e nella precedente legislatura è stata assessore regionale all’Istruzione. Insegna filosofia nei licei.
Da decenni si parla entusiasticamente dell’autonomia scolastica, così entusiasticamente da dimenticarsi di realizzarla, e anche di argomentare perché sarebbe auspicabile.
In una certa prospettiva, per così dire sociale, l’autonomia collega le scuole al territorio, potenzia le interconnessioni con le realtà istituzionali, sindacali, sociali. (Argomenti oggi fragilissimi, vista la scarsa fiducia di cui godono molti di tali attori della vita locale).
In una diversa sfumatura, più comunitaria, l’autonomia realizza pienamente quella intuizione partecipativa, quella corresponsabilità fra scuole e famiglie nell’educazione che aveva, immemorabili tempi addietro, introdotto gli organi collegiali partecipativi nella scuola. Oggi si guarda con molto disincanto a quella preziosa intuizione. In modo aggressivo o difensivo molte famiglie vedono la scuola come una controparte da cui proteggere i figli, o come un sostituto, spesso inadeguato, del proprio compito educativo.
In una concezione di mercato, invece, si vuole implementare l’autonomia come soggetto capace di assunzione di responsabilità e di poteri decisionali per competere con le altre scuole e vincere una specie di gara volta:
– ad una maggiore domanda da parte degli utenti, oppure:
– ad una premialità gestita da un decisore superiore.
Ovviamente si tratterebbe poi di discutere l’assunzione implicita su che tipo di obiettivi vanno raggiunti (occupabilità, cittadinanza, cultura umanistica, scientifica ecc…).
Una forte obiezione alla prima ipotesi è che in realtà le scuole hanno una dimensione territoriale in cui raramente, se non nelle grandi città, si realizza una vera possibilità di scelta per l’utente. In secondo luogo c’è una disparità cognitiva fra chi offre il servizio e chi lo sceglie. Molti genitori e studenti non sanno veramente valutare l’insegnamento ricevuto dai figli. Difatti le famiglie più sprovvedute scelgono spesso scuole o sezioni che le famiglie più avvedute evitano, con ovvie disequità.
Per la seconda ipotesi a oggi manca una strategia di valutazione dall’alto di scuole e dirigenti. Si possono evidenziare infrazioni formali, ma nella sostanza sono del tutto assenti strumenti di analisi e pesatura della efficacia ed efficienza educativa delle scuole. C’è chi enfatizza il ruolo delle così dette scuole di frontiera, chi elogia i licei dagli alti punteggi Pisa o Invalsi. Si legge qualche chiassoso intervento folcloristico sui giornali di elogio o per lo più di biasimo di alcune scuole in occasione di fatti specifici. Ma il problema è valutare il valore aggiunto, sia cognitivo, sia creativo e critico, sia comportamentale, nei percorsi degli studenti, dell’operato delle scuole. Dovrebbe essere una pesatura differenziale molto complessa sui risultati degli studenti. E non solo sui test!
Mi vorrei soffermare sul modello dell’autonomia competitiva in modo più articolato.
Effettivamente un’autonomia senza un nucleo stabile e riconoscibile, senza una fisionomia peculiare non è realizzata. Chi è una scuola? Cosa sceglie chi la sceglie?
Le scuole oggi si differenziano moltissimo fra di loro per la leggibilissima stratificazione sociale e vocazionale, fra licei, tecnici, professionali (chi esalta la scuola statale dovrebbe porsi il problema di quanta poca mobilità sociale produca e di come la distribuzione delle iscrizioni sia il riflesso e il consolidamento delle differenze negli status familiari di origine).
Ma sono molto poco individuabili fra di loro per progetto educativo. Sfido chiunque ad affermare, fra due licei analoghi, quali siano le differenze sostanziali. Oggi gli insegnanti capitano in una scuola o in un’altra per punteggi, anzianità, sostituzioni, per cui sono una variabile aleatoria. Si segnalano alcune scuole perché ricevono in partenza studenti selezionati, di provenienze elitarie e riescono così ad aumentare gli standard (per es. i classici, le scuole dei quartieri bene..).
La pubblicità che le scuole si fanno si basa su una serie di progetti e progettini, per lo più laterali e poco incisivi sui percorsi disciplinari.
I genitori più avveduti cercano di scegliere le scuole in cui ci sono “insegnanti bravi”. E hanno ragione. Perché una buona docenza, anche se i mezzi sono scarsi, educa molto di più di insegnanti incapaci, anche se con ottimi mezzi. Oltre alla ragionevole intuizione questo corrisponde a numerose ricerche di psicologi e pedagogisti: nulla come un bravo insegnate favorisce il successo formativo.
Allora ha ragione il governo Renzi a esigere che le scuole scelgano gli insegnanti?
Siccome la politica non si misura sulle buone intenzioni, ma sulla effettività dei risultati, bisogna capire come si fa.
- La valutazione dei docenti è molto difficile. Un buon insegnante deve essere un serio conoscitore della sua disciplina e assieme un bravo didatta (oltre che educatore attendibile). La competenza va pesata nel merito, la didattica formata sul campo. Ci sono paesi che prevedono esami e concorsi che segnano la carriera del docente, ci sono paesi con un forte ispettorato specializzato nelle diverse discipline. Solo sulla base di un processo di valutazione su basi oggettive e scientifiche un insegnante potrebbe essere “pesato” e quindi scelto da una scuola. A oggi, mancando il metro, non si capisce cosa il preside possa misurare. Simpatia? Disponibilità? Capacità di promuoversi? Nella peggiore delle ipotesi, se le virtù civiche nel nostro paese fossero un poco appannate, potrebbe aprirsi una deriva pericolosissima. Nella sua intrinseca stupidità il metodo della anzianità e dei punteggi ha salvato fino a ora la scuola italiana da piaggerie, favoritismi, clientelismi. E’ totalmente falso che in una scuola si sappia chi è bravo e chi no. Si conoscono di solito i casi eclatanti di palese inadeguatezza. Ma cosa faccia la maggior parte dei docenti è abbastanza misterioso. Nella legge si parla di curriculum trasparente e pubblico dei docenti. Ma nulla di essenziale viene oggi certificato nella carriera di un insegnante. Si possono fare mille progetti e corsi di aggiornamento ed essere pessimi docenti, o viceversa.
- I bravi insegnanti si selezionano prima di assumerli. In Finlandia uno su dieci degli aspiranti insegnanti entra nei corsi che li preparano. Non bastano gli incentivi per diventare capaci. Potrebbero pagarmi miliardi e io non giocherei mai bene a calcio, e scommetto che pochi calciatori anche se premiati insegnerebbero bene filosofia. Una distribuzione di incentivi percepita come ingiusta fra l’altro scontenta più di una mancata distribuzione. Oltre che umiliante per la sua aleatorietà il premio in denaro per gli insegnanti migliori è inutile. Ci sono ottimi insegnanti a stipendi normali, e nessuno dei peggiori migliorerà per quello. Gli incentivi servono quando si sceglie; se si rinuncia a scegliere non serve a nulla pagare meglio. Da decenni si è rinunciato a fare concorsi, anche per opposizione dei sindacati. Gli ultimi ministri hanno fatto a gara nel cambiare ogni volta le carte in tavola con enormi danni per i giovani aspiranti all’insegnamento messi su tanti binari morti. Questa volta si annuncia che si faranno concorsi, ma si satura, con assunzioni sostanzialmente ope legis, senza selezioni, la scuola per i prossimi anni.
- Non si insegna bene da soli. E’ necessario coordinamento, collaborazione, aiuto reciproco fra insegnanti, interdisciplinarietà. I più esperti devono essere generosi con i più giovani, condividere, sostenere. La competizione fra insegnanti per restare nella scuola, per ottenere un Piano Formativo favorevole alle proprie materie o competenze, per avere gli incentivi in denaro rischia di far saltare i rapporti e gli equilibri interni al corpo docente. Si potrebbero premiare gli insegnanti che svolgono ruoli specifici di tipo organizzativo, e sarebbe giusto. Ma questo non ha nulla a che fare con il miglioramento degli insegnamenti disciplinari.
- I sindaci si eleggono, i rettori si eleggono, i capidipartimento di eleggono. Perché gli insegnanti sarebbero intrinsecamente minorenni? Perché un potere così forte come quello dei presidi è affidato sulla base di selezioni burocratiche? Perché un preside podestà? Fra l’altro i concorsi per presidi sono stati decisamente poco limpidi negli ultimi anni. Chi controllerebbe i controllori? Per ora le risposte sono poco adeguate. E inoltre: che attendibilità hanno di fronte alla società e ai ragazzi figure di educatori ritenute incapaci di governarsi? E di esprimere una professionalità alta senza essere minacciati o premiati? Molti cittadini prendono posizione contro gli insegnanti in questi giorni affermando che ce ne sono di pessimi. Certo. Ce ne sono di pessimi. E molti di mediocri. La risposta giusta sarebbe di scegliere meglio, regolarmente, con selezioni rigorose, gli insegnanti da assumere. E di permettere loro di formarsi, studiare, mantenersi intellettualmente vivi. Ma un preside intelligente ed in buona fede (e ce ne sono anche di pessimi, come ce ne sono fra gli insegnanti) sa che non può dare le pagelle ai suoi insegnanti se una struttura di valutazione seria non è stata messa in atto.
- In ogni provincia ci sono ogni anno molti docenti trasferiti. Tutti confluiranno, assieme ai nuovi stabilizzati, negli albi provinciali da cui i presidi sceglieranno. Se una provincia ha un centinaio di scuole e nell’albo ci sono parecchie decine di insegnanti che possono ambire a coprire la propria disciplina o quelle affini (cadono le separazioni nette), un preside che non voglia essere accusato di parzialità dovrà accordare almeno un colloquio con ogni docente interessato alla sua scuola. Quindi potrebbe trovarsi a intervistare decine e forse centinaia di persone. E viceversa gli insegnanti farebbero infiniti pellegrinaggi per raccattare un posto. Oppure il preside può scegliere semplicemente chi conosce già. O chi gli viene presentato da qualcuno. E, nel merito, un preside laureato in agraria farà colloqui per scegliere fra le decine di laureati in lettere che l’albo gli propone? Quanti ricorsi faranno gli insegnanti scartati su basi arbitrarie? Quante denunce?
- La possibilità di fare colloqui è stata una modifica introdotta alla Camera. Molte delle attenuazioni introdotte sono altrettanto astratte quanto le proposte originali. Sulla scuola si tende a riproporre sempre un dibattito molto ideologizzato. Per esempio la dicotomia pubblico-privato in Italia è fuorviante: le scuole superiori private-paritarie sono in numero irrisorio e il peso finanziario sullo stato irrilevante, anche se è opportuno valutarle attentamente (ma questo vale anche per le scuole statali). Viceversa le scuole materne private forniscono un servizio che lo stato non è in grado di erogare, e pesano comunque pochissimo sulle risorse pubbliche e molto sulle famiglie. Altrettanto irreale la paura che contributi privati alle scuole possano distorcere l’uguaglianza fra scuole: la propensione al mecenatismo in Italia non è certo sviluppata. Inoltre le scuole sono profondamente disuguali, e lo sanno tutti, per motivi ben più profondi: nei profili sociali dei ragazzi che le frequentano, con enormi esiti di segregazione.
Nel disegno di legge si enunciano moltissimi temi da affidare alla autonomia scolastica, in una logica addizionale, e mai sottrattiva. Ciò viene giustificato dal fatto che saranno le scuole a scegliere il loro “menù” formativo. Posto che le disponibilità degli studenti all’apprendimento non sono infinite, e che le discipline attualmente previste non vengono eliminate, bisogna capire se la direzione auspicata da tante riflessioni sulla scuola che invitavano a studiare meno discipline e più approfonditamente, a produrre non teste piene ma teste ben fatte, sia ancora valida. Si auspicava di salvare la scuola dal “progettificio”. Ma non rischiamo di istituzionalizzarlo?
Insomma: non si può fare niente? Si può fare moltissimo. Ma bisogna con umiltà capire, studiare, analizzare la concretezza del sistema scolastico italiano e di come le cose funzionano altrove e fare scelte sulla cui implementazione e sui cui risultati per gli anni a venire si possa garantire. Non ci sono riforme magiche nella scuola. Di solito l’istruzione è oggetto di ambizioni forti e di grandi delusioni e perdite di consenso da parte dei governi. La peggiore delle ipotesi è che la scuola diventi ostaggio di una prova di forza puramente politica fra maggioranza e minoranza Pd. Molti di coloro che oggi dichiarano quotidianamente sulla scuola non se ne sono mai occupati prima e ne sanno pochissimo.
La buona amministrazione non fa notizia, ma sarebbe una grande novità. Molti degli obiettivi che oggi si sbandierano sarebbero stati raggiunti da tempo per esempio con un buon ispettorato, dei concorsi regolari, una formazione continua di livello, la sperimentazione di valutazioni serie per docenti, dirigenti e scuole. Solo assestando positivamente questi prerequisiti si possono sperimentare ulteriori livelli di autonomia. E solo dopo averla sperimentata si può generalizzare una riforma a tutte le scuole.
Maria Prodi