Amici e colleghi mi chiedono un’opinione sulla polemica relativa alla cosiddetta lista degli impresentabili diffusa dalla Commissione parlamentare antimafia a ridosso delle recenti elezioni regionali. La riassumo telegraficamente qui di seguito.
Primo. Sulla congruità dello strumento ho una precisa e, se si vuole, un po’ radicale opinione: penso che l’Antimafia sia strumento inadatto a operare un tale vaglio. È organo politico e, come tale, realisticamente inidoneo ad assicurare imparzialità e, nei cruciali passaggi procedurali e ricognitivi, quella misura di riservatezza che essa comporta. Le divisioni e le polemiche erano prevedibili e previste. Non a caso non vi sono precedenti di un tale vaglio a monte delle elezioni.
Sul punto, ripeto, ho un’idea netta: tale vaglio compete alla legge che stabilisce i casi di incandidabilità e ineleggibilità formale. Vi è poi, distinta, l’autonoma responsabilità dei partiti che dovrebbero essi stessi, se credono, adottare parametri più severi di quelli fissati dalla legge. Saranno infine gli elettori a sanzionare, nel caso, chi non ottemperasse a criteri di pulizia e moralità politica. Del resto, non a caso, nel linguaggio giornalistico si è fatto ricorso alla nozione oscura e scivolosa di “impresentabili”.
Secondo. Tuttavia, partiti e gruppi parlamentari hanno deciso diversamente: sia, in forma allusiva, nella legge istitutiva della bicamerale, sia, più esplicitamente, nel varo, all’unanimità, di un codice di autoregolamentazione che contemplava una precisa, puntuale casistica. Relativa alla posizione processuale dei soggetti e a definite fattispecie di reato. Specie i cosiddetti reati-spia, ove cioè la criminalità organizzata può interagire con la “politica sporca”. Partiti e gruppi, dunque, si sono solennemente impegnati a rispettare quel codice. Se esso si è rivelato discutibile, essi devono prendersela con se stessi. Non con chi doverosamente lo ha poi applicato erga omnes.
Terzo. L’operazione-screening era oggettivamente lunga e impegnativa. Ne ha risentito la tempistica e forse – ma su questo le versioni divergono – la collegialità del lavoro in Commissione. Di sicuro la circostanza della diffusione della lista a quarantotto ore dal voto ha rappresentato un problema, perché non ha dato modo a persone e partiti di fare le loro eventuali controdeduzioni. Ci è stato spiegato, tuttavia, che ci si è posti il problema di rinunciare a diramare la lista prima del voto e che la Commissione tutta avrebbe deciso di procedere. Dunque, si può discutere, ma non mi pare questo il punto decisivo.
Quarto. È stato strumentale e sconcertante il can can polemico che si è fatto sulla immissione di De Luca nella lista. Ma nessuno ha potuto eccepire sulla circostanza che il suo caso, forse esiguo quanto al merito, tuttavia rientrasse a pieno nella casistica contemplata (un vecchio processo per concussione). Che si pretendeva? Una sua esclusione ad personam o ad partitum? Essa sì avrebbe rappresentato una violazione dei doveri istituzionali della Bicamerale e della sua presidente.
Quinto. Davvero sconcertante e censurabile l’aggressione dei vertici del PD alla Bindi, accusata addirittura di agire per vendetta personale e politica. Una calunnia, un esorcismo, la ricerca di un capro espiatorio. A monte, toccava al PD rispondere politicamente di un candidato che chiarissimamente non doveva essere candidato, perché destinato alla sospensione, a norma della legge Severino, voluta e votata dal PD. Con un danno conseguente per la governabilità della regione Campania. Questo sì un grave vulnus al senso delle istituzioni! Del resto, è cosa nota che il PD non ha avuto l’autorevolezza e la forza di costringere De Luca a un passo indietro, sin dalle primarie, rinviate ben quattro volte, esattamente a questo fine. Ma vanamente. I bene informati sostengono che, se il PD avesse mollato De Luca, egli comunque si sarebbe candidato con una sua lista, facendo plausibilmente perdere le elezioni al PD. Non esattamente un esempio di moralità politica né di lealtà al partito. E, reciprocamente, non un comportamento responsabile da parte dei vertici del PD renziano, debole con i forti e forte con i deboli.
Sesto. Alla luce di questa vicenda, difficile sottrarsi all’impressione che un po’ tutti i partiti brillino per ipocrisia: sotto la pressione del pubblico discredito, sottoscrivono regole che, all’atto pratico, si rifiutano di applicare, cercando pretesti, alibi, sofismi. E levano alte grida per occultare il proprio stomaco forte e la propria politica debole. In particolare, con disappunto, abbiamo sentito risuonare a sinistra due argomenti genuinamente berlusconiani: le regole non sono uguali per tutti e il voto popolare (primarie comprese) è un lavacro che esonererebbe dal rispetto delle regole.
Franco Monaco
4 Giugno 2015 at 13:36
Sono d’accordo con Franco sul punto 1 del suo discorso. e a mio parere bisognerebbe fermarsi lì. L’elenco delle persone 48 ore prima del voto cosa significa? Un invito a non votarle? Sarebbe molto discutibile. Una loro improponibilità, vagamente illegale in quanto comunque legata a questioni di giustizia?
Il messaggio andava piuttosto rivolto ai partiti.
Mi sembra che si sia fatto un pasticcio, che si poteva evitare.
Mi sembra che in questo la posizione della Bindi poteva essere più attenta e riflessiva, al di là delle accuse e dei sospetti che purtroppo sono diventati pane quotidiano tra i politici e che certamente non migliora il quadro che si ha della politica.
Sandro Antoniazzi
4 Giugno 2015 at 14:01
condivido appieno!
17 Giugno 2015 at 15:35
Per quello che vale condivido in toto l’opinione di Antoniazzi