L’allarmante quadro delineato dalla Svimez ci dà ulteriori spunti per riflettere, discutere e avanzare proposte nel nostro Convegno di settembre a Paestum
Di Vittorio Sammarco
Non c’è un dato positivo che sia uno. Il Sud è alla deriva, lo afferma, confermando ciò che in molte occasioni è stato detto, la Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) nel Rapporto presentato in questi giorni. Sono il tono e le parole dell’allarme lanciato che fanno impressione. “Un Paese diviso e disuguale, dove il Sud scivola sempre più nell’arretramento”, “a forte rischio di desertificazione industriale con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente”. Permanente. Irreversibile. In realtà, alla fine, uno spiraglio di speranza i ricercatori lo aprono. Ma è importante partire da qualche dato per capire (per la completezza del quadro vedi questo link)
Per il settimo anno consecutivo nel 2014 il Pil del Mezzogiorno è stato negativo: -1,3% (al Centro-Nord 0,2); e mentre altrove si vedono cenni di ripresa, al Sud, no. Il divario Pil-pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2014 ha toccato il punto più basso degli ultimi 15 anni, (il 53,7%) riportandolo ai livelli del 2000. D’accordo, per molti il Pil non è più un indicatore esaustivo. E allora parliamo dei consumi delle famiglie: tra il 2008-2014 quelle meridionali hanno ridotto i propri del 13,2%; dato accompagnato anche dalla caduta degli investimenti dell’industria, dal calo delle esportazioni, dalla riduzione della spesa pubblica in conto capitale della PA. Un generale impoverimento che non poteva non riprodursi sull’occupazione e sul livello di povertà.
Nel 2014 gli occupati nel Sud sono come nel 1997. Il Mezzogiorno registra, dopo la crisi del 2008, una caduta dell’occupazione del 9% (-1,4 nel Centro Nord). “Delle 811mila persone che in Italia hanno perso il lavoro nel periodo in questione, ben 576mila sono residenti nel Sud”, che – inoltre – ha appena un quarto del bacino occupazionale del paese. I giovani: una frattura senza paragoni con il resto dell’Europa. Il Sud negli anni 2008-2014 perde 622mila posti di lavoro tra gli under 34 (-31%) e ne guadagna 239mila negli over 55. Il tasso di disoccupazione italiana è al 12,7%, come media tra il 9,5 nel Centro-Nord e il 20,5 del Sud. Con un elemento sociale in più assai triste e preoccupante: “S’inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando così una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata”. Aumentano perciò i famosi Neet (dall’acronimo inglese che definisce coloro che né studiano, né lavorano, né si formano per lavorare): sono aumentati in prevalenza al Sud e complessivamente hanno toccato la cifra allarmante di 3milioni e mezzo.
Povertà, un dato su tutti: guadagna meno di 12mila euro annui quasi il 62% dei meridionali, contro il 28,5% del centro-Nord, e non sempre il più basso costo della vita riequilibra il differenziale. La percentuale di famiglie in povertà assoluta, infatti, sul totale delle famiglie è aumentata al Sud passando dal 6,4% del 2011 all’8,6 del 2014 (dal 3,3 al 4,4% nel Centro Nord).
Le conclusioni che il presidente Adriano Giannola avanza sono non poco provocatorie: “Di fronte ad uno scenario del genere – dice – è curioso che contemporaneamente le politiche siano totalmente incoerenti con i fenomeni che si denunciano. La contraddizione nasce dall’incapacità dell’analisi o dalla scarsa volontà di rovesciare i parametri della crisi?”. “Nel dibattito corrente di quale politica economica si parla?”, aggiunge. “La nostra Grecia è il Sud, che con un intreccio pesante condiziona tutto il Paese. Eppure non è assolutamente all’ordine del giorno”.
Poi la conclusione che riguarda tutti. E noi, che stiamo cominciando un percorso che ci porterà al convegno di Paestum, ne facciamo uno spunto di partenza importante: “Emerge il ruolo fondamentale dello Stato, che deve tornare ad essere regista e non solo l’arbitro che punta a fare applicare regole esistenti. I risultati positivi di uno sviluppo e non solo della crescita di cui si parla, non verranno da sé, è una grande illusione. Lo Stato deve intervenire, in un modo diverso dagli anni ’50, certo, ma con una strategia politica di coordinamento di funzioni, obiettivi, soggetti, e risorse”. “Sono tendenze invertibili se si attuano strategie di sviluppo in forte discontinuità con le politiche adottate finora” osserva il Direttore della Svimez, Riccardo Padovani. E Giannola aggiunge: “Ci sono spazi per invertire le tendenze devastanti di questi dati. Non sono irreversibili. Ma solo una visione nazionale può rendere coerente e praticabile questo percorso. Senza politiche speciali, senza una vera scelta politica di cambiare verso, come si dice oggi, il Sud precipiterà sempre di più”.
Ossia: senza la forza della politica, della ‘Buona politica’, sarà impossibile invertire l’ordine dei fattori perchè il risultato cambi. E se la politica vuole davvero tornare a essere il volano di ogni ripresa occorre che i soggetti che sono in campo – al Sud e non solo – la ritengano ancora determinante. Nonostante le forze – legali o illegali – che giocano per conto proprio. Partiti, uomini e donne delle istituzioni, scuola e università, imprenditori, innanzi tutto, ma ci vuole anche quel grande, enorme, capitale sociale fatto di volontariato, associazionismo, impresa sociale, cooperazione, parrocchie, eccetera che vivifica molti territori del nostro Sud, sebbene a macchia di leopardo.
Per il nostro convegno del 25-27 settembre questo capitale sociale lo abbiamo chiamato genericamente “Cittadinanza attiva”, per identificarlo con un modo di intendere la propria presenza e attività nell’interesse generale e non particolare. Questo mondo ha maturato negli anni una certa avversione per la politica, partitica e istituzionale, bollandola come irrecuperabile e improduttiva (avvicinandosi in alcuni casi solo per interessi di mera sopravvivenza economica). E non sempre a torto. Eppure quel grande progetto politico di cui parla la Svimez, che senz’altro nasce innanzi tutto da una regia nazionale e dalle competenze idonee, non può mancare di un concreto, costante e proficuo rapporto con chi il territorio lo vive nelle quotidianità delle esperienze con le persone. Un progetto con due coordinate, unite dalla stessa direzione: lo sviluppo di un Sud che non può più attendere, pena la deriva.
Proveremo a discutere nei nostri lavori di settembre di come fare per riattivare un possibile circuito virtuoso. Proveremo a lanciare anche qualche proposta. Senza pregiudizi e senza pretese. Sapendo però che il perdurare del disinteresse nazionale sulla “Questione meridionale” sarebbe, questo sì, letale per tutto il Paese.
Vittorio Sammarco
31 Luglio 2015 at 10:07
Non solo per il Sud, occorre saper indicare le risorse da usare e i mezzi più adeguati per renderle produttive e redditive.
Le risorse sono quelle dei segni d’arte e di storia coestesi all’ambiente, che va accostato quale “territorio storico”, nel quale va evidenziata l’intrinseca musealità.
I territori storici chiedono processi di coltivazione delle risorse di cultura in essi diffuse. Coltivazioni che li rendano vivibili e salubri, soprattutto mediante la cura delle risorse d’arte.
Sono le produzioni di cultura che valorizzano (salvandole) le risorse d’arte e danno nuove e innovanti potenzialità di lavoro per nuove imprese di “coltivatori delle risorse di cultura: i paidecoltori”.
Mi permetto di rinviare al mio ebook edito da Nardini lo scorso Novembre: “Inseguitor di fantasmi”.