“Avete facce di figli di papà”

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Questo intervento, dedicato agli scritti corsari di Pasolini a 40 anni dalla morte del poeta friulano, è stato pubblicato sull’ultimo numero di “Via Po”, inserto culturale del giornale della Cisl “Conquiste del lavoro”. L’autore è il responsabile del Centro Mounier di Genova

 

Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo borghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

 

Sono le parole di Pasolini che caddero come un macigno sui giovani del nascente movimento studentesco. Era il primo marzo del 1968 quando a Roma,  nei pressi della facoltà di architettura, si verificava il primo scontro violento durato oltre due ore tra la polizia e gli studenti. Il settimanale “L’Espresso”, diretto da Nello Ajello, pubblicò questa poesia, oggetto di forti contestazioni negli ambienti di sinistra. Pasolini dovette precisare che il vero bersaglio non erano tanto i giovani (che ha voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno) quanto quegli adulti, suoi coetanei, che, adulando i ragazzi, pensavano di ricrearsi una specie di verginità ideologica. La critica a certi comportamenti giovanili, ritenuti omologanti, si estendeva alla moda dei capelli lunghi: il loro modo di acconciarsi è orribile perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda. Negli “scritti corsari” (articoli e interventi pubblicati in giornali e riviste, in particolare sul “Corriere della sera”) Pier Paolo Pasolini invitava il lettore a rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta.

Seguirò questo consiglio concentrandomi su due temi: l’aborto e il consumismo. L’interruzione volontaria della gravidanza era considerata un reato dal codice penale italiano punibile con la reclusione da uno a cinque anni. Gli oltranzisti dell’aborto (cioè quasi tutti gli intellettuali illuminati e le femministe), affermava Pasolini, parlano come se si trattasse di una tragedia femminile, in cui la donna è sola con un suo terribile problema, quasi che in quel punto il mondo l’avesse abbandonata, ma, quando la donna era a letto non era sola. Per il maschio l’aborto ha assunto un significato simbolico di liberazione. Se la prassi consiglia giustamente a depenalizzare l’aborto non per questo l’aborto cessa di essere, per la coscienza, una colpa, un vero e proprio omicidio. Essere incondizionatamente abortisti garantiva ai suoi sostenitori una patente di razionalità e di  modernità, mentre in realtà trasformava il rapporto sessuale in una delle tante esperienze consumistiche. L’aborto legalizzato è infatti un’enorme comodità, una libertà del coito della coppia eterosessuale; diventa una convenzione, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore. Tutto ciò che è sessualmente “diverso” è invece ignorato e respinto. Occorreva, secondo Pasolini, lottare sul piano delle cause dell’aborto e per la diffusione della conoscenza dei mezzi di un “amore non procreante” (anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell’onore sessuale). La lotta per la non procreazione deve avvenire nello stadio del coito, non nello stadio del parto. Su questo punto Pasolini era d’accordo con le posizioni più moderate sostenute dai comunisti; scriveva infatti la deputata del Pci Adriana Seroni: bisogna evitare prima l’aborto, e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi responsabilmente valutati perché qui c’è di mezzo la vita umana, la sacralità della vita.

Sulla società dei consumi la critica di Pasolini non lasciava scampo. Gli slogan “Jeans Jesus, non avrai altri jeans all’infuori di me” e “Chi mi ami, mi segua”, stravolgevano il messaggio evangelico; rappresentavano il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori. Il consumismo consiste in un vero e proprio cataclisma antropologico, esso non è altro che una nuova forma totalitaria, la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini. D’altra parte la tolleranza concede la libertà ai “diversi” a patto che essi rimangano minoranze chiuse nei ghetti. La permissività è la peggiore delle forme di repressione. Nel passato il cattolicesimo era formalmente l’unico fenomeno culturale che omologava gli italiani, ora questo ruolo viene svolto dall’edonismo di massa. L’omologazione culturale riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sotto proletari. Il contesto sociale si è estremamente unificato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. In queste parole pasolineane sembra leggere analoghe considerazioni di Herbert Marcuse e della sua critica alla tolleranza repressiva, ma si tratta di un confronto tutto da approfondire.

Salvatore Vento

 

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