Il mutualismo per un nuovo stato sociale

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E’ uscito in questi giorni, per i tipi della Jaca Book, nella collana “Città possibile”, Il mutualismo. Per un nuovo stato sociale, un piccolo libro di 130 pagine, scritto a tre mani: quelle di Sandro Antoniazzi, storico sindacalista della Cisl, di Marco Carcano, docente di Sociologia del lavoro a Parma e alla Università Cattolica di Milano, e di Sergio Zaninelli, già docente di Storia del movimento sindacale alla Cattolica e poi Rettore della stessa. Pubblichiamo qui la Prefazione di Tiziano Treu, professore di Diritto del lavoro, ex ministro del Lavoro nel primo governo Prodi e più volte senatore.

 

Questo volume è un contributo ricco di informazioni e di riflessioni su un tema antico, ma oggetto di un revival di studi e di nuove prospettive di attività: quello delle azioni che i privati organizzati autonomamente possono intraprendere nei diversi ambiti dell’assistenza e della previdenza sociale.

I saggi del volume illustrano bene l’iter storico e la complessità attuale dell’associazionismo mutualistico. Mostrano non solo la ricchezza della prospettiva storica, ma le diverse modalità con cui questa forma associativa ha risposto ai bisogni di cura e di assistenza delle persone nei diversi periodi: alle condizioni di povertà estrema delle origini di cui scrive Zaninelli, a quelle riprodottesi nell’immediato dopoguerra di cui si occupa Antoniazzi, ai bisogni non solo materiali della società affluente fino alle nuove povertà aggravate dalla crisi economica.

Le vicende storiche presentate nel volume confermano che le radici del mutualismo e della solidarietà sono più stabili delle forme in cui si manifestano e che persistono in contesti sociali diversissimi, quelli di crisi e di povertà e quelli di sviluppo economico-sociale.

Quello che oggi si chiama, con formula riassuntiva, welfare sussidiario ha avuto origini lontane nella beneficenza privata, individuale e associativa. Nei primi secoli esso si basava sulla carità delle strutture religiose e sui contributi delle classi abbienti. In periodi successivi, in particolare a partire dal ‘700, il periodo considerato nel saggio di Zaninelli, le iniziative si sono sviluppate e diversificate sia nei protagonisti sia nelle forme raggiungendo consistenti dimensioni anche patrimoniali così da abbracciare un ambito crescente di attività assistenziali, a cominciare dall’assistenza sanitaria che resterà sempre il settore di maggiore impegno dell’associazionismo mutualistico.

Il saggio di Zaninelli ripercorre le vicende storiche di questo associazionismo, le dimensioni e i caratteri della sua crescita, i motivi della sua crescente rilevanza sociale, le forme e le implicazioni del riconoscimento giuridico ottenuto dalla legge del 1886, i rapporti con il movimento sindacale, le relazioni con il movimento cattolico in campo sociale, i punti deboli dell’esperienza e i fattori del suo declino manifestatosi a partire dalla metà degli anni Venti. Le indicazioni conclusive del saggio di Zaninelli segnalano elementi di debolezza dell’associazionismo che costituiscono ancor oggi motivo di riflessione critica: in primis la difficoltà di dotarsi di basi contributive stabili in grado di sostenere iniziative non episodiche e non limitate ad aree ristrette di soggetti lavoratori; inoltre le inadeguatezze gestionali e la frammentazione delle strutture, che pregiudicano la solidità e la continuità degli interventi.

Quello che oggi si chiama , con formula riassuntiva, welfare sussidiario.

Questo insegnamento storico richiama la necessità di guardare alle organizzazioni della solidarietà al di fuori da schematismi non solo ideologici ma anche istituzionali, e ci ricorda  che la diversità di queste esperienze è un tratto essenziale della loro  vitalità e della crescita della società civile. Le lezioni del passato ricordate dal libro hanno implicazioni ancora attuali e orientano in duplice senso il rapporto dell’associazionismo con lo Stato del benessere e con gli interventi pubblici in genere.

Anzitutto sconsigliano misure dirette a irrigidire le forme organizzate di solidarietà entro schemi imposti dall’alto. La tentazione è tuttora presente da parte dello Stato e delle regioni, che hanno assunto, non solo in Italia, competenze crescenti nelle organizzazioni del welfare.

Il rispetto dell’autonomia dei corpi sociali è una condizione imprescindibile affinché essi possano orientare la loro attività verso obiettivi di interesse comune liberamente definiti.

Il contributo delle organizzazioni di solidarietà al benessere sociale non può restare confinato ai rapporti privatistici, ma va riconosciuto all’interno della sfera pubblica. Questa indicazione è presente nella nostra Costituzione, sia nella formula generale dell’art.2, che riconosce le associazioni di persone come enti preesistenti e intermedi rispetto allo Stato e come parte integrante della Repubblica, sia specificamente nell’art. 38 che legittima l’apporto della società civile allo svolgimento di attività di assistenza e di interesse sociale.

 

Le vicende più recenti dell’associazionismo mutualistico in tutti i settori, a cominciare da quello storicamente prevalente della assistenza sanitaria, si collocano in un contesto  profondamente mutato da quello delle origini che oggi è caratterizzato dallo sviluppo dei vari capitoli del welfare pubblico.

Le trasformazioni rilevanti toccano tutti i fondamentali del nostro sistema, come mostra bene il saggio di Carcano, dai caratteri della domanda e dell’offerta di lavoro, ai mutamenti demografici e della composizione familiare. Molti dei nuovi bisogni conseguenti a queste trasformazioni sono lasciati scoperti, in particolare dal sistema di welfare italiano. Il saggio di Antoniazzi ne indica alcuni dei più significativi, dalla long term care, all’assistenza domiciliare alle persone ora svolta in forma anomala e distorta dalle cd. badanti.

In realtà le trasformazioni sociali sono così profonde da richiedere non meri aggiustamenti, ma una profonda innovazione di obiettivi per il welfare pubblico come per il privato. Entrambi possono contribuire al superamento della concezione solo risarcitoria del welfare per farlo evolvere verso funzioni più complesse, di promozione alle capacità delle persone, di investimento sociale, o come scrive Carcano, di “tipo generativo”.

La diffusione dell’intervento pubblico nella sicurezza sociale, anche se in Italia non è mai arrivato ad assumere i caratteri universalistici propri di altri sistemi europei, incide inevitabilmente sulla funzione dell’associazionismo  mutualistico, e in generale delle forme di welfare societario.

L’esperienza non solo italiana smentisce l’ ipotesi che tale funzione sia diventata marginale o sia svuotata di significato; tant’è che neppure i più strenui sostenitori del welfare pubblico ritengono di escludere un welfare integrativo.

Ma i motivi e i contenuti dell’intervento mutualistico e sociale in questi ambiti devono essere ripensati, in relazione agli interventi delle istituzioni pubbliche, statali e locali sviluppatesi negli anni recenti.

Il carattere di supplenza delle iniziative private si è ridotto nelle aree dove il legislatore è intervenuto con misure obbligatorie a soddisfare gli essenziali bisogni sociali: la previdenza di base, la sanità e in misura diversa la assistenza alle persone e il sostegno alla povertà. Qui il welfare privato ha assunto un ruolo complementare di integrazione e di arricchimento dell’intervento pubblico.

L’integrazione non ha assunto solo carattere quantitativo, cioè consistente nella maggiorazione delle prestazioni garantite dallo Stato, ma anche qualitativo in quanto espressa in misure diverse da quelle garantite dal sistema pubblico: si pensi al vasto campo delle misure di prevenzione e di cura della salute, di assistenza alle persone e alle famiglie, che costituiscono una delle aree di maggiore sviluppo del welfare integrativo, aziendale e territoriale.

 

Il ripensamento delle funzioni del welfare privato è in atto, ma non sempre con scelte univoche.

Una indicazione fondamentale per impostare correttamente i rapporti fra welfare pubblico e solidarietà privata si ricava dalla nostra Costituzione. La norma principale, già richiamata, è l’art.38 che assegna (co 19) alle istituzioni pubbliche il compito fondamentale di garantire a tutti i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, il diritto all’assistenza sociale e di assicurare ai lavoratori “mezzi adeguati  alle loro esigenze di vita nei casi più gravi di bisogno/infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione” (co 2). Questo secondo coma è stato specificato nel tempo con un’ampia, e non sempre ordinata, legislazione sociale, che ha portato allo sviluppo  dei vari settori del welfare  e che ha identificato, sia pure in modo ancora provvisorio, i servizi essenziali da garantire ai lavoratori secondo il dettato costituzionale.

Meno sviluppata è stata invece la strumentazione legislativa per dare concretezza al 1° co, cioè al diritto al mantenimento e all’assistenza a tutti i cittadini sprovvisti di mezzi. Siamo il paese europeo più in ritardo nella predisposizione di un sistema universale di garanzia del reddito, cui solo di recente si sta dando avvio, con esperimenti parziali di reddito di inclusione sociale.

Nello stesso art. 38 della Costituzione, al 4° co, c’è il riconoscimento della libertà dei privati di organizzarsi per finalità legittime e specificamente per finalità di interesse comune come quelle previdenziali, assistenziali e, per altro verso, culturali e di istruzione (artt.18,33,38,39 Cost.).

Un tale riconoscimento costituzionale ha implicazioni di rilievo, in quanto indica che il contributo dei privati al benessere sociale non è questione esclusivamente privatistica, ma assume rilevanza generale all’interno della sfera pubblica. Per altro verso comporta un superamento della concezione statalistica del welfare e pone le basi per il suo passaggio dalla esclusiva organizzazione pubblicistica a una gestione anche privata e comunitaria. Questo è un aspetto essenziale del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 della Costituzione ed è conforme alla indicazione dell’art. 2 che riconosce le associazioni come enti intermedi preesistenti allo Stato e come parte integrante della Repubblica.

Tali norme costituzionali fondano il ruolo insostituibile delle organizzazioni del terzo settore nelle politiche sociali e ne legittimano sia il riconoscimento giuridico sia le agevolazioni pubbliche.

I rapporti fra welfare pubblico e mutualistico privato richiedono una seconda precisazione desunta dall’esperienza. Lo sviluppo del welfare privato non è legato, come spesso si sostiene, al declino o allo smantellamento del sistema pubblico. Pure nelle ristrettezze delle risorse disponibili il compito delle istituzioni pubbliche va mantenuto. Il nuovo contesto economico richiede però una selettività più rigorosa delle funzioni da mantenere sotto la responsabilità pubblica e del loro peso.

 

In realtà lo spazio aperto alle iniziative del privato sociale è destinato a svilupparsi, perché le grandi trasformazioni socio economiche degli ultimi decenni hanno determinato un progressivo aumento dei bisogni sociali e una loro crescente differenziazione.

Si è creata una domanda sociale più ampia di quella considerata dal welfare storico, in quanto estesa  a soggetti non beneficiari dei sistemi tradizionali che erano centrati sul maschio adulto, dai bambini, dalle famiglie, ai grandi anziani, e diversa nei contenuti in quanto bisognosa di risposte personalizzate, non solo di prestazioni monetarie o di servizi standard come quelle tradizionali dello stato sociale.

La evoluzione qualitativa dei bisogni tende a richiedere, oltre a prestazioni monetarie e a servizi erogabili in forma standard, prestazioni personalizzate che richiedono specificità di intervento, nonché maggiore libertà e partecipazione da parte dei singoli. Anche prestazioni personalizzate possono essere garantite da parte di un welfare pubblico che sappia rinnovarsi e diversificarsi specie in forme decentrate. Ma costituiscono l’ambito ideale per interventi di welfare privato, tanto più efficaci se aperti alla partecipazione dei soggetti beneficiari.

Che si tratti di un rapporto di complementarietà e non di sostituzione lo mostrano le migliori esperienze europee, che hanno visto crescere gli interventi di welfare integrativo, pur in presenza di sistemi di previdenza pubblica consolidati e più ricchi del nostro.

La ridefinizione del rapporto fra i servizi essenziali, da garantirsi con risorse e sotto la responsabilità pubblica (anche se con gestione operativa delegata ai privati), e le attività di welfare integrativo richiede una attenta valutazione da parte delle istituzioni e di tutti gli attori sociali, sindacati, istituzioni del terzo settore, ONG, etc.

Tale ridefinizione dipende da variabili complesse sia economiche sia politico-sociali; in primis dalle riforme dello stesso welfare pubblico necessarie per adeguarlo ai nuovi equilibri sociali, dalle forme di sostegno e di indirizzo (non di vincolo) che lo Stato deve attuare per ottimizzare il contributo dell’associazionismo privato al benessere delle persone; e, last but non least, dalla capacità degli attori sociali di dare risposte rispondenti ai bisogni delle persone e dei territori. Questo è del resto il senso corretto della sussidiarietà orizzontale, che non implica una distribuzione meccanica di competenze fra tipi e livelli diversi di intervento, bensì un riposizionamento di entrambi gli interventi – pubblici e privati – alla ricerca di un nuovo equilibrio ove ogni attore possa contribuire meglio al benessere comune.

Per questo la realizzazione di una complementarietà virtuosa fra pubblico e privato nei vari settori del welfare postula un equilibrio difficile fra le varie forze economiche e istituzionali. In primo luogo richiede orientamenti convergenti fra il sistema istituzionale e gli attori sociali interessati: imprese, sindacati, organizzazioni del terzo settore.

Le prospettive al riguardo sono in evoluzione. Ma conferme significative sulla possibilità di una sinergia fra pubblico e privato si desumono dal fatto che le forme di welfare integrativo e dei benefits hanno raggiunto un alto tasso di sviluppo e di diversificazione anche in paesi come quelli del centro-nord Europa, dotati di un diffuso welfare pubblico di carattere universalistico. D’altra parte l’esperienza italiana ha registrato un significativo sviluppo di forme integrative nei settori della previdenza e della sanità, caratterizzati da una consistente (e costosa)  presenza pubblica. La diffusione delle pensioni e della sanità integrativa negli anni recenti è correlata alla crescita e alla diversificazione della domanda sociale piuttosto, e prima ancora, che alla riduzione delle prestazioni pubbliche, le quali sono aumentate e comunque restano consistenti anche nelle difficoltà del contesto economico e della limitatezza, a fronte delle risorse complessive disponibili.

 

Il rapporto fra pubblico e privato nell’organizzazione del welfare solleva questioni delicate.

Anche chi non condivide un giudizio pregiudizialmente negativo circa le potenzialità del welfare privato, rileva una serie di criticità per una sua utile integrazione con il sistema pubblico. Anzitutto sono importanti le regole che definiscano gli spazi reciproci e le modalità  dell’integrazione, evitando di irrigidire le forme di espressione dell’autonomia associativa. In secondo luogo è necessaria una responsabilità delle istituzioni pubbliche nella regia del sistema; e servono controlli per garantire il rispetto degli standard di qualità da garantire  a beneficio  dei soggetti beneficiari.

Tali condizioni hanno rilevanza particolare per quei servizi specie assistenziali, che sono svolti  dai privati in convenzione con gli enti pubblici e con finanziamento da parte degli stessi.

Nel caso in cui il welfare privato è organizzato e opera autonomamente, non si pongono le stesse esigenze di controllo.

Anzi la possibilità di organizzarsi autonomamente è essenziale affinché si realizzi un obiettivo importante di queste esperienze, quello di permettere un ampio coinvolgimento e una maggiore libertà di scelta dei beneficiari.

Una regolazione delle attività è necessaria solo nella misura in cui serve a tutelare gli interessi coinvolti, patrimoniali e personali, dei beneficiari (assistiti, pensionati, ecc.) e a giustificare l’esistenza di incentivi e di agevolazioni pubbliche al loro svolgimento.

Il rapporto fra intervento pubblico e autonomia privata, per essere virtuoso, richiede un equilibrio reciproco. La sussidiarietà non può essere invocata per esentare lo Stato e le istituzioni pubbliche dalle loro responsabilità per il benessere dei cittadini, scaricando compiti indebiti di supplenza sulla società civile, per ridurre la spesa pubblica. Né è sufficiente che l’associazionismo privato sia coinvolto nella mera esecuzione di compiti delegati dal pubblico. La capacità dimostrata dall’associazionismo di rispondere in modo creativo a bisogni sociali, sia tradizionali sia inediti, lo legittima a partecipare, insieme con le istituzioni, non solo all’esecuzione ma alla individuazione degli obiettivi e alla progettazione delle politiche sociali.

Queste capacità della società organizzata sono una risorsa essenziale per il rinnovamento del welfare. Servono a sostenere gli stessi diritti sociali, riducendo la forbice fra la loro  proclamazione giuridica e la loro effettiva fruibilità e producendo quei beni sociali che ora sono largamente carenti.

D’altra parte contribuiscono a costruire elementi di coesione e di fiducia reciproca che sono particolarmente importanti nell’attuale contesto di alta turbolenza economica e sociale.

Per contribuire in tale direzione il mondo dell’associazionismo deve perfezionare e migliorare la propria organizzazione e la qualità degli interventi.

I servizi che è chiamato a svolgere, quelli di cura e di assistenza alle persone, ma anche nelle attività culturali e sociali in cui è impegnato, fino alla formazione professionale e alle forme di assistenza sul mercato del lavoro, richiedono un alto grado di professionalità di tutti gli operatori, anche di quelli che agiscono su base volontaria e non continuativa.

In questa direzione c’è molto da fare per essere all’altezza delle aspettative.

Tale esigenza richiama un altro aspetto del mondo dell’associazionismo. In molti settori esso costituisce ancora una realtà fortemente atomizzata e localistica, come rileva Antoniazzi, che se favorisce una partecipazione diffusa di persone volenterose, spesso è di ostacolo all’efficacia degli interventi e alla capacità di come un sistema coerente e con obiettivi comuni.

Il cambiamento richiesto su questi versanti non è solo organizzativo e tecnico. Rinvia a esigenze di rinnovamento più ampie, che sono insieme culturali e politiche e che riguardano anche altri movimenti sociali, a cominciare dal sindacato.

Uno sviluppo del mutualismo verso obiettivi di solidarietà generale all’altezza dei bisogni di welfare vecchi e nuovi della nostra società richiede un rinnovamento interno delle proprie pratiche, della propria cultura, delle istituzioni e delle persone che l’hanno fin qui sostenute. Tale impegno non può procedere in isolamento, ma deve raccordarsi con un impegno parallelo delle altre formazioni intermedie che costituiscono la ricchezza della nostra società e, secondo la Costituzione, una componente essenziale della Repubblica.

Al sindacato si richiede, in particolare, per usare ancora le parole di Antoniazzi, di passare da una tendenza prevalentemente rivendicativa/autocentrata a una prospettiva “costruttiva e cooperante” dove si tratta non di chiedere ma di autogestire collettivamente. Un mutualismo rinnovato può essere, oggi più che mai, uno strumento di partecipazione sociale utile non solo per migliorare la qualità dei servizi ai cittadini ma anche per arricchire la cittadinanza attiva e quindi per rivitalizzare la democrazia.

 

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