Tra la Norvegia che esclude anche solo l’ergastolo per Andres Breivik e gli Usa che ipotizzano la pena di morte per James Holmes, ci sarà pure una via di mezzo? Nelle diverse reazioni di un Paese, di un popolo, di un sistema giudiziario alle tragedie causate da due folli massacratori (il primo, ad Utoya, il 22 luglio dell’anno scorso, ha ucciso 77 persone quasi tutti giovanissimi; il secondo poche settimane fa a Denver, Usa, ha tolto la vita a 12 spettatori in un cinema), ecco, nel modo in cui tutta una cultura reagisce alla più grave ed eclatante violazione della legge – la strage – sta proprio una diversa concezione dello Stato.
La prima, norvegese ma scandinava in generale, prevede uno Stato forte, che si assume le proprie responsabilità anche di fronte alle azioni pazzesche di un singolo individuo, che si chiede i perché, si interroga, si preoccupa di stabilire quali siano, sul piano etico e giudiziario, le scelte migliori per stabilire la pena giusta (per il folle stragista potrebbero essere al massimo 22 gli anni di detenzione), e realizzare così quell’obiettivo di recupero del condannato che ogni pena si dovrebbe prefiggere accanto a quello di sicurezza sociale.
L’altra reazione, quella della opinione statunitense, da secoli, forse dalla sua fondazione, vede lo Stato come minaccia alla personale autorealizzazione dell’individuo. E, di conseguenza, sente il bisogno di limitarlo al massimo, tagliargli le unghie, impedire che travalichi, fino a consentire, a chi può e vuole, l’acquisto di armi, in numero e potenza illimitata, e il loro uso per difesa e/o attacco. Nonostante le tragedie che abbiamo visto. Oltre 31mila morti nell’ultimo anno e altri settantamila colpiti da scriteriati cultori di questo principio di libertà di armamento personale, che vede il 45 per cento di cittadini dotarsi in maniera legale e facile di fucili, mitragliatori, pistole, bombe. Non che lo Stato non esista, ma viene dopo, molto dopo l’individuo. Con il paradosso, per dirla tutta, che allo stesso tempo lo Stato con la pena di morte si prende il diritto di decidere in modo irrevocabile sul futuro del bene più prezioso di un essere umano, benché criminale o presunto tale: la vita. Pare, invece, che non ci sia modo di mettere in discussione la posizione culturale e giuridica che impedisce una restrizione severa al possesso di armi, e questo a causa delle pressioni della lobby dei produttori, ma anche del modo di pensare dei cittadini statunitensi convinti che ognuno abbia il diritto inderogabile di difendersi come meglio può.
Ebbene, le due tragiche vicende tra loro simili e le reazioni che ne sono conseguite forse possono contribuire ad una riflessione che di questi tempi si va facendo anche nel nostro Paese e per altre situazioni. Meglio lo Stato minimo, dicono in molti; meglio ridurre il suo strapotere, il suo mettere bocca e mani su tutto, sanità, formazione, economia, beni pubblici, informazione, giustizia, pensioni, trasporti eccetera,e lasciare campo libero alla pluralità delle energie e delle forme autorganizzate di cittadini che sono meglio capaci di rispondere alle esigenze della collettività.
Idea che di certo non ha nulla che vedere con la violenza folle e omicida, né con la passione per l’autodifesa armata, per carità, ma che purtroppo spesso viene alimentata da un discredito pregiudiziale verso tutto ciò che appare statale e che, proprio per questo (ma chissà per quale ragione!), appare privo di reale vantaggio per la persona.
Sappiamo bene che i due modelli idealizzati, lo Stato forte del welfare nordeuropeo e lo Stato minimo del liberalismo anglosassone, sono entrambi giunti ad una fase critica in cui è necessaria una profonda revisione. Ma forse sono proprio le situazioni limite, di crisi, che impongono un approccio più attento, meno caratterizzato da facili condanne, più prudente e al tempo stesso più determinato nel costruire nuove linee di pensiero che dovrebbero caratterizzare progetti politici e azioni di governo.
Lo Stato, insomma, è proprio tutto da buttare? Il suo apparato di istituzioni ma prima ancora la sua filosofia di insieme, di architrave della comunità che nei fatti e nel diritto consente alla persona, alle persone, un equilibrato e reale compimento, può essere considerato, in questa nostra società sfilacciata e iperindividualista, un ostacolo da abbattere?
Negli Usa pare che gli anni di Obama e di un timido tentativo di introdurre quote di statualit,à dopo i danni del liberalismo sfrenato, stiano portando per paura gli statunitensi a cancellare quel tentativo. La destra torna a far sentire forte i suoi slogan liberisti.
Ma da noi è proprio ragionevole fare dei guasti della malapolitica il motivo per rigettare l’esigenza di uno Stato che sappia dare risposte corrette ai cittadini sempre più deboli nei confronti di una globalizzazione travolgente?
La passione triste per uno Stato debole
27 Luglio 2012 | 0 comments