E’ senz’altro difficile considerare in termini generali le lezioni politiche ricavabili dall’esito dell’importante votazione amministrativa dell’ultima tornata, per una serie di motivi credo comprensibili. Certo è un voto locale, come si è ben guardato di ripetere il presidente del Consiglio, sottraendosi in parte a una situazione difficile. Molto di più, è stato un voto condizionato da una notevole serie di liste civiche e di sigle curiose ed estemporanee, frutto in parte di una comprensibile dinamica locale della partecipazione, ma forse anche parzialmente dovuto a una sorta di operazione di camuffamento della classe politica, a fronte dei chiari di luna critici dilaganti nell’opinione pubblica. C’è poi il discorso ancor più complesso di valutare quanto siano pesati i singoli candidati presentati, che a volte hanno fatto la differenza, sia nel bene che nel male. L’aumento notevole dell’astensionismo è poi un ulteriore punto interrogativo: da dove viene questa tendenza? Se nei ballottaggi può esserci un fisiologico abbandono di chi non si riconosce nell’offerta così drasticamente limitata, in altri casi sono apparse probabilmente scelte di distacco dalla politica tutte da decifrare, per verificare se siano recuperabili in qualche modo. Quindi i conti sono complessi e i risultati difficili da analizzare. Soprattutto per chi scrive, che tenta di farlo senza apparati statistici e informativi generalizzati e solidi. Queste operazioni analitiche dovrebbero farle i partiti: forse se le fanno le tengono riservate, perché sui media ascoltiamo da parte dei massimi esponenti della lotta politica una serie piuttosto lunga di banalità scontate. Per cui, a banalità aggiungiamo qualche banalità che forse non è del tutto tale, in qualche caso mi pare anche in lieve controtendenza ai commenti finora letti. Pur con beneficio d’inventario.
La dinamica superficiale della domenica dei ballottaggi è segnata – inutile negarlo – dalle vicende delle cinque città più importanti, con la doppia vittoria delle candidate del M5S. Piuttosto scontata quella di Roma per il harakiri della classe politica locale che la buona volontà di alcuni non poteva sanare. Sorprendente quella di Torino dove forse rappresenta il segno di un lavoro amministrativo locale più solido o comunque di un logoramento dell’immagine del pur apprezzato sindaco Fassino. Al di là dei titoloni, peraltro, la vicenda elettorale è stata tutt’altro che un successo per il movimento, segnato in parecchi comuni da candidature estemporanee e fallimentari, e da una tendenza generale non certo all’espansione del pur rilevante consenso raccolto: tanto più che i pentastellati erano effettivamente l’unica lista sempre presente con la propria identità e senza alleanze. Resta quindi l’impressione di un bacino di voti polemici che il movimento continua a intercettare, ma in tendenziale contrazione: sarà ora da valutare come la scommessa di assumere il governo locale in punti ben più visibili dei precedenti aiuterà o renderà più complessa tale operazione di raccolta.
Nella performance complessivamente negativa della destra, Forza Italia partiva da previsioni così nere, nella prima occasione di voto in cui la presenza di Berlusconi è stata sostanzialmente irrilevante (nel bene e nel male). Su questo sfondo, ha quasi tamponato l’emorragia, coprendo con l’onesta sconfitta milanese e la (ri)conquista di qualche grosso comune lombardo o veneto il fallimento totale a Roma e soprattutto in molta parte del Sud. Spicca invece il cattivo risultato della Lega Nord e dell’alleanza con la Destra a livello nazionale: la scommessa di Salvini di alzare i toni del lepenismo ha reso molto poco (qualche centro come Novara o Savona), in una campagna dove i leghisti non solo non hanno sfondato sotto il Po, ma hanno dimostrato ancora una volta, nelle zone di proprio rilevante insediamento storico, di non essere ancora riusciti a formare una classe dirigente locale solida e duratura. La sconfitta di Varese è in questo del tutto simbolica.
La sinistra al di là del Pd, salvo esperienze specifiche e in fondo modeste, ha confermato che da sola non riesce ad andare molto lontano. Anche se – al di là del caso localissimo di Napoli – vicende interessanti sono state quelle dove si è salvata l’operazione di accordo tra Pd e sinistra che aveva segnato la piccola ondata «arancione» del 2012 (come Cagliari e parecchi altri comuni del Nord, del Centro ex «rosso» e anche del Sud). A conferma che si tratta di un’opzione non da abbandonare a cuor leggero.
Quanto al Pd, il risultato non brillante mi sembra legato in parte alla deriva personalizzante di Renzi, che ha accentrato su di sé ormai amori e odi, e in parecchie situazioni, enfatizzate dalla logica propria dei ballottaggi, ha causato un preoccupante riflesso di fusione in negativo di un elettorato ormai polarizzato da diverse parti convergenti contro la sua immagine ingombrante. Se si consolida una dinamica a tre poli e due mezzi poli (centro-destra/centro-sinistra/cinquestelle, più destra-destra e sinistra-sinistra), un centro-sinistra solo contro tutti rischia molto in un eventuale ballottaggio secco. A me pare anche che non abbia giovato la mancanza di un segnale politico comune e identificabile: si è scelto di sperimentare il cosiddetto schema del «partito della nazione» aperto al centro e chiuso a sinistra in alcuni grossi centri come Milano (dove ha funzionato per l’alone Expo che Sala ha capitalizzato) e a Roma, senza farlo diventare scelta generale, probabilmente per molteplici resistenze e incertezze. E questa ambiguità non pare giovi. Comunque, se grattiamo sotto l’inevitabile visibilità delle cinque maggiori città, il Pd si conferma incomparabilmente più solido come classe dirigente amministrativa capillarmente presente sul territorio, conquistando ancora molti comuni medi e medio-grandi. Ma in qualche caso questo non basta più, come si è visto a Torino o Trieste (non cito i due casi-limite troppo disomogenei di Napoli o Roma). Occorre probabilmente quindi innestare le virtù civiche su un disegno politico più articolato e allargato.
Guido Formigoni
28 Giugno 2016 at 11:25
“si è scelto di sperimentare il cosiddetto schema del «partito della nazione» aperto al centro e chiuso a sinistra in alcuni grossi centri come Milano”: santo cielo, ma dove si trovava il professor Formigoni durante le amministrative di Milano? Si è accorto che della coalizione pro Sala ha fatto parte una lista chiamata Sinistra per Milano, comprendente tra l’altro gli arancioni e tutti coloro che avevano appoggiato Pisapia? Ha dato un’occhiata al programma elettorale di Sala, e al suo continuo insistere sulla necessità di chiudere il divario tra “le due città”? E ora, a giunta fatta, come commenterebbe la presenza di sei assessori già presenti nella giunta Pisapia (cosa peraltro prevedibile, a chi seguisse con attenzione l’evolversi della campagna elettorale)? Sarebbe bene che le analisi politiche, sempre rispettabili, avessero possibilmente dei riscontri oggettivi, altrimenti si finisce come un indimenticabile articolo di Franco Monaco sul Fatto, in cui si presentava Balzani come l’unico baluardo contro una presunta liaison CL-Sala. Risultato: di Balzani si sono perse le tracce, della liaison CL-Sala pure.
30 Giugno 2016 at 23:41
Vedo che lei non trascura di sentenziare animose verità. Il punto è che la candidatura di Sala ha assunto un significato politico che apriva di per sé a sinistra uno spazio, nonostante tutti gli sforzi del candidato. Infatti, si è presentata la candidatura alternativa di Basilio Rizzo (che nel 2011 aveva sostenuto Pisapia). Il che significa che non è vero che “tutti coloro che avevano appoggiato Pisapia” stavano nella coalizione con Sala. Tutte le altre osservazioni (Lista Sinistra per Milano, programma, assessori, ….capolista, che c’entra!), non smentiscono questo semplice “riscontro oggettivo”.
28 Giugno 2016 at 11:36
Si potrebbe aggiungere che il capolista della lista pd in appoggio a Sala era un certo Pierfrancesco Majorino, e che negli ambienti del pd milanese si parla con un certo orgoglio di “modello Milano” appunto a indicare un partito più coeso e con un rapporto più collaborativo e meno conflittuale con la sinistra interna.