Quale è la vostra posizione sulla riforma della Costituzione e sul relativo referendum, e come la motivate?
Non so ancora precisamente cosa voterò al referendum. E se anche lo sapessi non ve lo direi, frenato fino all’ultimo dalla complessità della scelta. Certo, in Occidente ci sono stati passaggi ben più drammatici negli ultimi mesi, ma si tratterà comunque di un complesso prendere o lasciare. Da un lato le riforme in oggetto mi sembrano fiorite da una cultura istituzionale molto bipartisan e diffusa, che condivido poco e che, esagerando un po’, potrei semplificare così: meglio ridurre il numero di persone implicate nelle scelte; quando uno vince decide e fa filare le cose; siccome non sono possibili, non sono neppure necessarie reali mediazioni sociali, né territoriali, né tra chi la pensa diversamente; il rapporto del cittadino può essere esercitato direttamente con il capo mediante il potere taumaturgico del voto, nel quale di fatto consiste la democrazia stessa. D’altra parte l’alternativa appare ancora più temibile: immobilismo, ulteriore inadeguatezza delle istituzioni, strumentalizzazione da parte dei populismi. E, in ultima istanza, il rischio paradossale che gli stessi tratti di quella cultura istituzionale che non condivido si ritrovino ancora più urlati e sbandierati senza alcuna opposizione.
Secondo voi, è oggi più importante garantire una maggiore governabilità, cioè stabilità dei governi, oppure è più importante assicurare un’ampia e equilibrata rappresentanza alle diverse forze politiche? Ritenete la legge elettorale detta Italicum una legge soddisfacente oppure no, e perché?
A ben vedere il tema della legge elettorale non è altro rispetto alle scelte costituzionali. Su questo punto sarebbe fondamentale non scindere governabilità e rappresentanza. Spesso infatti ci viene detto che se il sistema non decide perde legittimazione. Ma d’altra parte si dimentica troppo spesso che la capacità di decidere non può prescindere dalla comprensione e dalla condivisione delle scelte, da una reale vicinanza degli eletti alle istanze degli elettori. Bisogna che le forze maggiori abbiano una rappresentanza accentuata, per favorire il più possibile la coagulazione del consenso attorno a pochi progetti chiari di governo, ma questa non può essere del tutto sproporzionata rispetto alla reale composizione del corpo elettorale. E soprattutto bisognerebbe ricondurre l’elezione ad un territorio e a volti chiari. Temo che i cittadini si stancherebbero presto di una democrazia che nutre l’illusione di un rapporto diretto tra cittadino e capo che salta tutte le mediazioni, affidando agli eletti il mero compito di fornire tecnicamente una maggioranza praticamente irrevocabile al capo di turno. In questo senso meglio un ‘Mattarellum’ che un ‘Italicum’.
Ritenete che Matteo Renzi, come segretario del Pd e come capo del Governo, si muova in un solco in linea di massima corrispondente con la vostra cultura politica, oppure ritenete che presenti dei caratteri che con essa sono scarsamente compatibili o addirittura configgenti? (e, in questo secondo caso, quali in particolare?).
In questi tempi difficili l’atteggiamento di Renzi mi appare a volte poco condivisibile, quando comunica l’impressione di fondo che l’azione del governare sia minata dal dialogo con chi non la pensa come lui, dalla necessità di una mediazione continua, dalla complessità del corpo elettorale, persino in alcuni casi dall’autonomia dei territori. Tutte queste cose sono invece inscindibili dall’efficacia stessa delle decisioni. Tuttavia, non penso che si possa attribuire agli attuali governanti una carica di ideologia autoritaria contraria alla democrazia parlamentare. Più semplicemente molte scelte sono motivate da una visione dei fatti che ai loro occhi non lascia alternative: il mondo è più veloce, i barbari sono alle porte, il sistema è inadeguato. Tutto vero. Ma la risposta che si dà a questi incalzanti problemi è spesso poco coraggiosa, di fatto poco fiduciosa nella capacità di dialogare, condividere, trovare mediazioni superiori rispetto alla somma delle posizioni di parte. L’abilità politica di Renzi è rara e preziosa, ma se un giorno non si dovesse sentire capace di tanto coraggio non rinunci a questa sfida, piuttosto si faccia da parte e lasci provare altri.
I percorsi di maturazione e condivisione del consenso sembrano essere sempre più condizionati da meccanismi che poco hanno a che fare con la conoscenza dei temi in discussione, con il confronto, con la comune appartenenza ad aggregazioni capaci di fare nascere visioni e progetti: è una situazione irrimediabile? Come recuperare il terreno perso in questi ultimi anni?
Ecco la domanda giusta: che fare? Il compito è arduo. Ciò che però sicuramente non ci mancherà sarà la possibilità di fare esercizio della democrazia in contesti diversi, più o meno istituzionali e formali. Potremo così ancora comprenderne i limiti e le risorse e formare le coscienze a ripetere questo esercizio per farne tesoro. Ad una comunicazione che procede per slogan occorrerà imporre la responsabilità di argomentare. Al progressivo sequestro del discorso politico confinato in schegge autoreferenziali di comunità che progressivamente estremizzano le proprie posizioni, favorite da network informatici più o meno social, si proverà ad opporre l’incontro reale tra parti reciprocamente sconosciute, che non possono più viaggiare su binari paralleli. Alla prepotenza di interessi di parte che preferiscono far finta di stare scientificamente sopra le parti, proporremo di scendere sulla terra di chi non riesce a farsi ascoltare. Ma soprattutto proveremo a tenere viva la fiducia nella democrazia anche quando faticheremo a riconoscere in chi ci sta accanto un compagno di strada, qualcuno con cui condividere la stessa meta. Il rischio vero oggi è quello di smarrire, tra le incomprensioni reciproche, il senso di una delle più grandi utopie che ci è dato di vivere con la democrazia, che può suonare così: la mediazione regolata e più alta possibile fra liberi punti di vista è meglio della scelta di un singolo decisore. Nessuno che si professi sinceramente democratico può desiderare altro. Partendo da qui ragioneremo nel campo giusto, che è quello delle condizioni date: ogni sistema istituzionale va giudicato dentro la storia in cui viene elaborato. Questo valeva per il 1948, con i suoi aneliti di personalismo e il suo timore bipartisan dei totalitarismi, così come vale per l’oggi. Sull’interpretazione della storia e sugli strumenti istituzionali più opportuni possiamo dividerci, ma non ci possiamo permettere di litigare sui fondamenti e soprattutto sul desiderio di praticarli.
Il cattolicesimo democratico da sempre ci sprona a ritornare al fondamentale della collaborazione dialettica tra persone che la pensano diversamente ma condividono la scommessa di poter trovare insieme una strada da percorrere. Se questo anelito non viene ascoltato non stupisce che un referendum su questi temi generi divisione e pregiudizi verso chi esprime pareri diversi, mentre le correnti prosperano nella loro autoreferenzialità e i luoghi unitari balbettano. Negli spazi pubblici, ma sempre di più anche nelle sedi dei partiti, nelle associazioni, persino con alcuni amici, occorre fare la fatica di riscoprire la bontà di fondo del dialogo, per non perdersi davanti al timore di non andare d’accordo, di non riuscire a condividere il fondamentale anelito alla convivenza che ci è necessario per vivere. Non possiamo permetterci di temere il dialogo vero, quello che non ti aspetti, che magari costringe ad alzare i toni, a litigare se necessario ma nella certezza di ritrovare alla fine una sintonia su ciò che realmente conta. Questo mi sembra il senso delle reti di pensiero politico, quanto mai necessarie ed encomiabili, anche nel campo cattolico democratico.
Esercitare in ogni contesto l’espressione di liberi punti di vista costringendoli però ad ascoltarsi e a trovare la mediazione più alta possibile, se possibile con il sapore dell’operatività. Solo da qui possiamo ripartire, comunque vada, il 5 dicembre.
Marco Franzetti