Pubblichiamo l’editoriale del prossimo numero, il primo del 2017, della rivista bimestrale promossa nel 1978 dalla Lega democratica e che dal 2002 è curata da “Città dell’uomo”
Ci siamo messi dietro le spalle il referendum costituzionale con le relative lacerazioni prodottesi su più fronti (comprese quelle nella variegata area cattolico-democratica). Intendiamoci: in parte, tali lacerazioni sono da ascrivere alla logica duale dell’istituto referendario, che costringe a un «sì» o a un «no» secchi anche su materie complesse (come sappiamo, il referendum del 4 dicembre interessava una riforma che finiva con l’incidere su ben 47 articoli della nostra Costituzione!). Avevano ragione Giuseppe Dossetti, Leopoldo Elia e oggi altri eminenti costituzionalisti nel sostenere che si dovrebbe esigere, con opportuna modifica della disciplina legislativa circa il referendum costituzionale, l’omogeneità interna del quesito referendario, per consentire al cittadino-elettore di esprimersi separatamente e nel merito su ciascuna proposta in esso formulata. Quest’esigenza, per altro, è stata già da tempo imposta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di referendum abrogativo. Del resto, un ragionamento ben ponderato implica l’arte di distinguere, l’opposto di un pronunciamento cumulativo su una soluzione-pacchetto, come nel passaggio referendario di dicembre.
Le cose sono andate come sono andate. Il risultato della consultazione, non previsto nelle sue dimensioni, può piacere o non piacere. Con riferimento ad esso, merita comunque fissare due punti.
Il primo attiene al lato positivo della vicenda: pur al netto di un di più di divisioni, ‒ che, francamente, ci si poteva in buona misura risparmiare ‒ l’appuntamento referendario, avvalorato da un’ingente partecipazione, ha rappresentato un’occasione utile per conoscere, approfondire e discutere la nostra Costituzione, ossia la Legge fondamentale a salvaguardia del patto di convivenza della comunità nazionale.
Il secondo punto concerne l’esigenza, improcrastinabile, di avviare processi orientati a tessere percorsi di “riconciliazione”. Da intendere bene, però. Proprio chi ha avuto la meglio (il fronte del «no») sulla base di buoni argomenti di merito e di metodo verso una riforma “di parte”, espressione, cioè, della sola maggioranza di governo, deve ora resistere alla tentazione di reiterare divisioni improprie. È il caso di chi vorrebbe fare sopravvivere i comitati del «no», perseguendo obiettivi o disegni di natura politica. Altra cosa sarebbe ‒ essa sì positiva ‒ la cura per custodire e promuovere un’autentica «coscienza costituzionale», tesa a far crescere nell’intera collettività nazionale il senso/valore della Legge fondamentale della Repubblica, quale bene prezioso e patrimonio comune, al di là delle legittime differenziazioni culturali, politiche, ideologiche. Un compito non semplice per un paese come il nostro a «bassa coesione nazionale»; compito da affidarsi al mondo della cultura, alle agenzie educative, agli enti di rappresentanza sociale e agli stessi partiti, con la speranza di vedervi impegnati senza distinzione sia i sostenitori del «no» sia quelli del «sì», lasciando cadere polemiche e invettive reciproche della fase pre-referendaria.
Occorre tuttavia ricordare che parte considerevole di responsabilità nell’avere esasperato la contesa va ascritta alla sua impropria politicizzazione. È stato un errore e una forzatura. A cose fatte, però, non si può ignorare la portata politica di quel voto, che, non a caso, ha originato le dimissioni del presidente del Consiglio dei ministri e l’insediamento di un nuovo governo. Insomma una nuova fase politica.
Come giudicarla? Ci limitiamo a quattro osservazioni.
La prima: composizione e programma del governo Gentiloni sono molto al di sotto della domanda di discontinuità palesemente inscritta nel voto del 4 dicembre. Si tratta di una soluzione di basso profilo, figlia di un compromesso fra tre istanze: la percezione che la legislatura avesse esaurito la propria ragion d’essere; la volontà di Renzi di andare presto a nuove elezioni; la giusta preoccupazione del presidente Mattarella di assicurare leggi elettorali omogenee per Camera e Senato, proprio perché il voto degli elettori possa sortire risultati utili e coerenti, anziché un’ulteriore impasse del sistema politico-istituzionale. Tale compito legislativo, essendo di stretta spettanza parlamentare, non può essere affidato alla Consulta, chiamata a giudicare solo la conformità o meno alla Costituzione del cosiddetto Italicum. Alla luce di queste considerazioni risulta allora contraddittorio il comportamento di chi, da un lato, rimarcando il dovere di non minimizzare il responso del referendum, pretende elezioni subito, ma, dall’altro, confeziona un governo fotocopia sbiadita del precedente esecutivo e, come non bastasse, rivendica la continuità con esso.
La seconda osservazione induce a precisare che il giudizio severo degli elettori sul governo Renzi, inequivocabilmente esplicito nella consultazione referendaria, esige un franco esame critico e autocritico della sua azione. Esso deve riguardare, innanzitutto, il merito delle principali riforme avviate, che, non casualmente, oggi ci si propone di correggere: dal lavoro alla scuola alla pubblica amministrazione. Inoltre, tale esame interessa anche lo scarto tra “narrazione” e condizione materiale del paese, che si manifesta nel paradosso di un esecutivo di centrosinistra scarsamente apprezzato soprattutto nei ceti popolari e nella parte più debole e disagiata della popolazione.
Terza osservazione: il tenore della campagna referendaria, oltre che la stessa formulazione del quesito, ha fatto leva sulla polemica contro la cosiddetta «casta politica». Motivazione incongrua per una grande riforma costituzionale, che, di soppiatto, intendeva “lisciare il pelo” alla dilagante antipolitica; motivazione, tuttavia, rivelatasi debole e inefficace, anche perché condotta da posizioni di governo e con il sostegno ostentato dell’establishment. La lezione? Per chi ha senso di responsabilità e cultura di governo la ricerca del facile consenso si rivela operazione poco plausibile e insidiosa. Rischia, infatti, di portare acqua al mulino delle forze populiste, decisamente più attendibili su quel terreno. Meglio allora scommettere sulla qualità della proposta, sulla fiducia che gli elettori possano apprezzare una politica non sempre compiacente e corriva. In definitiva, meglio impegnarsi a «dire la verità», quand’anche scomoda.
La quarta osservazione ci permette, infine, di rilevare che, a seguito dell’esito referendario, l’attuale gruppo dirigente del Pd (partito asse del governo), va prospettando, senza tematizzarla esplicitamente, una sensibile correzione di linea politico-strategica. Decisiva, al riguardo, sarà la Legge elettorale, la più politica delle leggi, dopo l’abbandono dell’Italicum, per altro, non ancora sperimentato, sul quale fu posta addirittura la fiducia. Oggi è difficile prevedere che cosa ne sortirà. Certo, la sola circostanza che si archivi l’Italicum e si riproponga il cosiddetto Mattarellum attesta l’abbandono dell’idea di un Pd a «vocazione maggioritaria» spinta sino alla pretesa autosufficienza, per riaprire a una politica delle alleanze, ancora tutta da definire, verso il centro (destra) e/o verso sinistra. Con influenti componenti della maggioranza del Partito democratico che adombrano alleanze di governo con Forza Italia prima delle prossime elezioni. Dopo avere giurato che scopo principale della nuova Legge elettorale (e della visione politica ad essa sottesa) doveva essere quello di scongiurare governi consociativi. Come non vedervi implicazioni ‒ ripetiamo, tutte da definire ‒ sul piano della natura, del posizionamento, degli orientamenti programmatici del Pd? Non sembra incertezza trascurabile. Da osservatori esterni, ci pare, però, di dover sottolineare che cambiamenti di strategia politica di tale natura richiederebbero un ripensamento in radice del Partito democratico, con relativo congresso di vera e propria ri-fondazione.
Ecco, il verdetto referendario ha concorso non poco ad agitare ulteriormente le acque già molto mosse della politica domestica. Secondo quanto s’è detto, si pongono, a vari livelli, compiti ed esigenze in ordine a: “riconciliazione” e promozione di una genuina «coscienza costituzionale»; messa a punto di un convincente dispositivo, come la Legge elettorale, indispensabile per la vita democratica; riqualificazione programmatica dei partiti (specie di quelli che si pongono come possibili protagonisti di futuri assetti governativi); vaglio sistematico circa natura e obiettivi delle forze politiche in gioco, comprese quelle emergenti e, allo stato delle cose, su posizioni antagonistiche rispetto al “sistema”.
Con riferimento a questi compiti ed esigenze, «Appunti di cultura e politica», unitamente a «Città dell’uomo», l’associazione promotrice della rivista, intende fornire il proprio contributo di riflessione, sempre in fedeltà ai principi/valori della Costituzione e del Concilio Vaticano II.
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