Poiché il voto sul referendum costituzionale del 4 dicembre scorso è stato, come era prevedibile e come si è dimostrato, un voto politico, personalmente ho votato dalla parte che mi sembrava più giusta e dove si collocava il partito a cui aderisco, il PD. Non mi sento per nulla un perdente e, nel rispetto di chi ha votato altrimenti, penso di aver fatto bene.
Il risultato ha determinato l’inevitabile crisi di governo e le dimissioni di Renzi (penso che chi ha votato no ne fosse consapevole) e avrebbe portato anche per logica conseguenza alle elezioni anticipate, se fosse stato disponibile un sistema elettorale minimamente praticabile. In ogni caso il governo attuale ha un’evidente funzione transitoria, qualunque sia la data delle elezioni; è lecito ritenere più opportuno il 2018, ma tenendo presente, democraticamente, che la maggioranza che ha votato no vuole invece le elezioni subito.
A proposito di elezioni non va dimenticato che il sistema non è più bipolare, ma tripolare e che nessuna delle tre forze è in grado di governare da sola, salvo alchimie trasformistiche (ma non è quello che criticavano i sostenitori del no?). Anche la battuta di Prodi sull’Ulivo può al massimo essere considerata un invito a trovare più accordo a sinistra, non certo a rilanciare uno schieramento che pretenda di vincere e di essere autosufficiente. Al momento dovesse essere il M5S a prevalere e ricevere l’incarico dovrebbe comunque trovare un alleato (ciò che potrebbe forse accettare in una posizione di supremazia); se toccasse al PD e poichè i 5Stelle difficilmente accetterebbero un ruolo subordinato, non rimane praticabile che un’intesa con Forza Italia. Tutto questo può non piacere, ma le cose stanno così ed è inutile storcere il naso in anticipo come già molti fanno. Naturalmente i giochi sono aperti; stiamo a vedere.
Detto questo, perchè mi sembrano le logiche conseguenze politiche del voto, ritorniamo un momento sul referendum. Il voto è stato politico e così l’ha compreso la grande maggioranza della popolazione, non vedo sinceramente nessun fraintendimento sulla “coscienza costituzionale”. In realtà si è verificato piuttosto il contrario, un’esagerata esaltazione “costituzionale” al di là del merito e spesso per altri fini.
Personalmente penso che la Costituzione abbia svolto un ruolo storico fondamentale, che oggi questo ruolo storico sia in buona misura superato e che la Costituzione, oltrepassato questo periodo, rimanga importante, ma non abbia più nulla di sacro e che vada considerata per quello che è, non un mito ideale, ma legge fondamentale dello Stato, modificabile (si spera) in base all’evoluzione del paese. In altre parole cambia la sua funzione. Ritengo pertanto fuorviante parlare di “patriottismo costituzionale” perché del tutto lontano dalla realtà e del comune sentire, mentre sarebbe opportuno su questi temi un atteggiamento più laico, più secolare.
A parte l’immediato dopoguerra e il periodo dell’affermazione della democrazia in Italia, successivamente ciò che ha tenuto insieme il paese è stato lo sviluppo economico e sociale, di cui hanno beneficiato un po’ tutti; e se da anni siamo in crisi è perché lo sviluppo si è bloccato. Si potrebbe pertanto essere più generosi nei confronti di Renzi; ha commesso errori e ha proceduto molto individualmente, però ha tentato di portare avanti innovazione, modernizzazione e soprattutto uno spirito di non rassegnazione a questo stato di cose. La vera questione è che i problemi che ci sovrastano sono ben al di là delle possibilità di un governo e dei suoi provvedimenti sociali e fiscali; è ormai necessario pensare ad una vera svolta “trasformatrice”, se vogliamo offrire risposte e prospettive alla marea crescente del disagio economico e morale.
Quello che ho visto nel voto referendario dei cattolici democratici non è disaffezione alla Costituzione, a cui tutti credono sia chi ha votato SI sia chi ha votato NO, ma una grande disaffezione nei confronti del PD. Non era il partito dove erano confluiti molti cattolici democratici per realizzare un’esperienza nuova? E come si fa ad affrontare i grandi problemi dell’ora senza un partito di riferimento? Il limite maggiore di Renzi è di aver usato il partito per poter esprimere la propria politica di governo, operazione comprensibile ma che è andata a scapito del partito e della sua possibilità di crescere adeguatamente anche sul piano della cultura, mentre di un partito all’altezza dei grandi problemi del tempo abbiamo assolutamente bisogno. In questa direzione vedo l’impegno e la responsabilità dei cattolici democratici.
Sandro Antoniazzi
17 Febbraio 2017 at 12:00
Premetto che trovo del tutto condivisibili le riflessioni di Sandro Antoniazzi sul dopo referendum ma, vista l’accelerazione delle divisioni interne al PD di in questi giorni che sembrano le premesse della scissione, credo opportuno riflettere su quanto sta avvenendo perché vi è il rischio che piuttosto di “un partito all’altezza dei grandi problemi del tempo” ci si ritrovi con il centro sinistra e la sinistra condannati all’opposizione per molti dei prossimi anni.
Ho letto in questi giorni “Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma” di Guido Formigoni, che è quasi una biografia e dedica molto spazio alla così detta “Terza fase” della politica italiana, cioè all’incontro tra il pensiero politico di matrice cattolica e quello di matrice social-comunista, incontro definito nel lessico popolare come “compromesso storico”. Ciò che emerge dalla lettura di queste pagine, che si chiudono ricordando l’angoscia vissuta nei drammatici giorni del rapimento e dell’uccisione di Moro, è la grandezza degli attori impegnati nella “Terza fase”, dei valori ai quali si riferivano e delle prospettive per la quali lavoravano: Aldo Moro e Enrico Berlinguer.
Sappiamo tutti che la “Terza fase” non è sopravvissuta a Moro e che solo dopo 17 anni le due tradizioni, cattolica e social-comunista, si sono ritrovate assieme nell’Ulivo di Prodi esclusivamente, anche se così non era per Prodi, per la necessità politica di battere il centro destra berlusconiano. Anche l’esperienza dell’Ulivo, che non aveva avuto vita facile, ha chiuso dopo qualche anno. Bisognerà attendere l’ottobre del 2007 per vedere la nascita del PD, cioè la “fusione fredda” tra la Margherita e i Democratici di Sinistra, che in realtà non era più, pur se lo di affermava, l’incontro tra due storie di pensiero politico come era per Moro e Berlinguer, ma la modalità necessitata dalla legge elettorale “Porcellum” di impronta maggioritaria.
Per ragioni legate al principio di autonomia dalla politica, conseguente al mio impegno nella CISL, non ho partecipato direttamente, se non in termini ufficiali di rappresentanza, alle vicende che hanno determinato la nascita del PD, esprimendo fondamentalmente due riserve. La prima era così argomentata: doveva far riflettere la fine dell’esperienza di unità sindacale in quanto se non aveva retto il rapporto tra le due storiche correnti di pensiero sui temi del mondo del lavoro, come poteva reggere di fronte ai problemi del Paese molto più complessi e difficili? La seconda che, avvenendo la nascita del PD attraverso una “fusione fredda” vi era il rischio di perdere per strada parti significative del patrimonio umano ed elettorale delle due forze politiche, ragione per la quale era da preferirsi l’alleanza alla fusione.
E oggi ecco i problemi che squassano il PD. Non so se sia corretto dire che i nodi vengono al pettine oppure se questo sia l’esito involontario di scelte, per me incomprensibili quali ad esempio le primarie, le modalità congressuali, la coincidenza tra Segretario e Presidente del Consiglio, che l’hanno trasformato in un partito personale con forte ambizioni di divenire il Partito della Nazione, facendo il vuoto attorno a se per essere autosufficiente nella competizione politica.
Di certo è che questo modello è entrato in crisi e i problemi veri e determinanti, che vanno affrontati e non sottaciuti, non sono la data del congresso o quella delle elezioni politiche, ma quale modello di partito, per fare cosa e con chi.
Di tutto in questa fase c’è bisogno tranne che di scissione. In questa fase cruciale per la vita del PD ci sarebbe bisogno di persone che interpretino la saggezza e la lungimiranza di Moro e di Berlinguer, o anche solo di Prodi. Lo dico da non iscritto al PD, attento alle dinamiche della politica e ben consapevole, perché l’ho sperimentato in campo sindacale, di quanto sia difficile stare assieme quando le tensioni appaiono opposte, ma anche convinto che la competizione politica, al di là delle idee e delle proposte, la si vince con i numeri, cioè i voti che gli elettori ti assegnano.
A parte che la scissione certificherebbe sia la debolezza del pensiero politico della sinistra, già evidente nell’irrilevanza del movimento sindacale attraversato da pulsioni identitarie più che da tensioni al cambiamento, sia l’incapacità di convivere e convenire delle diverse componenti presenti nel PD, ma poi la scissione per fare cosa? per essere condannati dalla storia a fare da opposizione alla destra populista o al M5S di proprietà di Grillo e Casaleggio? Mi restano due dubbi: quanto c’è di strategia nelle posizioni che oggi ci sono all’interno del PD e quanto di ciò che sta avvenendo è da ascrivere ad una resa dei conti di tipo personale.
In ragione dell’essere contro ogni scissione interna al PD, guardo con grande attenzione all’iniziativa di Giuliano Pisapia perché, essendo una iniziativa unificante, può costituire, per i molti che idealmente e razionalmente si riconoscono nel centro sinistra ma si trovano in difficoltà per l’immagine che questo dà di sé, la ragione per continuare a riconoscersi parte di quest’area non per mancanza di alternative, ma perché della tutela del lavoro, della lotta alla disoccupazione, alla povertà, alle diseguaglianze, all’evasione fiscale, ecc., ne fa il programma del cambiamento non solo possibile, ma necessario, per le persone e per il Paese.