Agostino Giovagnoli e la Repubblica degli italiani

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Narrare la storia del nostro paese, con serietà, sobrietà e attenzione può aiutare a ricostruire la trama di un ordito comune che ci spinga a sentirci partecipi di una comunanza di destini? O bisogna oramai declinare la storia del nostro paese e le sue politiche secondo il famoso detto della signora Thatcher per cui: “There is no such thing as society. There are only individual men ad woman“? A cercare risposte e ad ovviare a certi velleitari giudizi liquidatori sul nostro passato e come esso si sia strutturato, ci prova, con successo, a mio parere, Agostino Giovagnoli nel suo ultimo libro dal titolo “La Repubblica degli italiani 1946 – 2016″ (Laterza – Roma – Bari 2016). Un titolo che evoca il famoso “La Repubblica dei partiti” di Pietro Scoppola, il principale maestro dell’autore e di tutta una generazione di storici.  Il lavoro di Giovagnoli non è ancorato alla semplice ricostruzione dell’ambito politico nel quale nasce e si sviluppa la Repubblica ma coglie questo percorso declinando, con attenzione mai banale, anche i mutamenti sociali, economici e di costume che essa ha incrociato nel suo divenire.

Il filo rosso del testo è tenuto da una interpretazione che fa riferimento alle vicende del cattolicesimo italiano, della sua cultura politica, della sua forma partito, sostanziatasi nella Dc, e del suo rapporto con la chiesa, proposta, a ragione, come il substrato fondamentale che ha coadiuvato e sorretto, nei momenti più complicati, la nostra Repubblica. Agostino Giovagnoli è uno degli studiosi più attenti nel mondo cattolico riguardo alla storia della Dc, ed in questo volume ripropone la visione della Dc come “partito degli italiani”, tema su cui ha riflettuto anche in altri lavori. E lo fa passando attraverso il filtro della lezione del 1921, con la crisi del popolarismo, l’avvento della dittatura fascista e l’esilio di Sturzo, e la fondamentale opera di De Gasperi che l’autore colloca all’interno di una dimensione culturale, propria dello statista trentino, che prende le mosse dalla concezione di laicità peculiare del mondo tedesco, in cui quest’ultimo si era formato.  La Dc era, per tale ragione, una forza che, “sul modello del multiconfessionalismo dei cattolici tedeschi, costituiva la garanzia di un pluralismo culturale e politico in grado di fondare un convivenza democratica tra tutti gli italiani“. In tale prospettiva l’unità dei cattolici si era effettuata non soltanto in funzione anticomunista ma, soprattutto, in funzione antifascista (aspetto su cui Giovagnoli insiste molto, e a ragione): “In altre parole – scrive – l’unità dei cattolici – mai assoluta e spesso tormentata, mai statica e spesso flessibile – ha permesso alla Dc di diventare, in modi diversi nelle differenti stagioni, il vero ‘partito italiano’, il luogo cioè dove molti italiani hanno a lungo implicitamente rinnovato il ‘plebiscito di ogni giorno’ di cui parla Renan”. E il rapporto fra chiesa e politica e fra chiesa e Dc resta il prisma politico-culturale, anche se non l’unico, attraverso il quale l’autore legge la vicenda della nostra repubblica. Un rapporto mai pacifico, né pacificato, sul cui fondo si staglia comunque la complessa vicenda della Democrazia cristiana come forza di governo, quasi condannata dalle vicende internazionali ed interne ad una sorta di damnatio gubernandi (come scrive il professore della Cattolica di Milano), che opera sempre secondo criteri di laicità e libertà incontrando anche il rinnovamento della chiesa e il concilio inteso come apertura della chiesa al mondo e chiusura di una fase di rapporti difficili con il moderno.

L’autore arriva, nel suo pamphlet, fino ai giorni nostri, mettendo in evidenza come a suo parere il paese sia poco adatto alla scelta bipolare, o bipartitica, e come la complessità dei cambiamenti abbia fatto della chiesa, attraverso i vari pontefici (soprattutto Giovanni Paolo II), una protagonista di primaria importanza della scena italiana e internazionale, una volta terminata l’esperienza democristiana. Mi sembra di cogliere come la cifra della sua ricostruzione del contemporaneo a noi più prossimo sia quello dello “sdoganamento”, all’interno di una mutazione più generale, che si direbbe “antropologica”,  la quale ha fatto scomparire o appannare il concetto di persona, caro a filosofi come Maritain e comune all’elaborazione cattolico democratica. Scrive quindi l’autore citando l’operazione di Berlusconi rispetto al Msi, che egli: “non operò per costituzionalizzare il Msi ma per ‘sdoganare’ questo partito […] Non favorì, cioè, il suo inserimento in un quadro di principi, regole e consuetudini democratiche, chiedendogli contemporaneamente  di abbandonare ciò che era incompatibile con tale quadro, al fine di rafforzare quest’ultimo“. Mutatis mutandis è quello che è avvenuto dopo la fine della cosiddetta prima repubblica, un globale “sdoganamento”, superficiale e, per certi versi, avventato, dei più reconditi e sopiti animal spirits del nostro paese e delle loro espressioni politico-sociali. Mi sembra molto interessante quanto egli stesso afferma laddove scrive che, ai nostri giorni: “A parole, la democrazia è stata esaltata come non mai, mettendo critici e oppositori del linguaggio o della prassi correnti nella scomoda posizione di apparire nemici di questa, quando ne difendevano i principi, istituzioni e procedure. Nella realtà, invece, in nome della sovranità popolare, la democrazia è stata svuotata, in nome del mandato del popolo sono stati perseguiti gli interessi di pochi: le parole sulla democrazia sono state usate contro la sostanza della democrazia“. Di fronte ad un effettivo impoverimento della democrazia la nostra storia repubblicana è passata da storia dei partiti a forte caratterizzazione ideale e ideologica, a storia degli uomini delle istituzioni, degli esponenti cosiddetti super partes e di garanzia, mettendo in risalto, forse come non mai, le figure dei presidenti della Repubblica e dei governatori della Banca d’Italia. Che hanno dovuto porre, in un bipolarismo sempre più aggressivo, la propria carica, con le peculiari prerogative, al servizio del paese e dei suoi sempre più delicati equilibri politico-parlamentari. In fin dei conti, sembra suggerire Giovagnoli già dal titolo del volume, la repubblica non è stata, e non è, solo dei partiti. E’ stata costruita anche attraverso il loro fondamentale contributo ed impegno, pur con tutte le storture e le difficoltà che ci sono state, e che non vanno scordate. Così come, d’altra parte, non bisogna dimenticare che tante delle conquiste di cui possiamo godere oggi (e che diamo per scontate) senza i partiti non si sarebbero ottenute. Allo stesso modo è anche vero che meriti e responsabilità vanno condivisi con altri attori sociali e con i cittadini stessi, che rappresentano l’anima genuina e fondamentale, con pecche e virtù, dell’Italia che fu e della Repubblica che sarà.

 

Luigi Giorgi

 

Per approfondire:

L’indice del libro e un estratto.

 

 

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