È facile – ancorché giusto – tirare un sospiro di sollievo per i risultati delle presidenziali francesi. Ci sono in effetti in quel voto almeno un paio di notizie positive, accompagnate però a mio modesto parere da una serie di dubbi e problemi nuovi che vanno affrontati e presto, per non perdere gli effetti stessi del risultato positivo acquisito.
In primo luogo, possiamo affermare che – almeno in Europa occidentale – le posizioni del populismo di destra radicalizzato (nel caso del Front national possiamo chiamarle di chiara marca parafascista), sembrano ancora ben lontane dallo sfiorare la maggioranza tra gli elettori. E ciò nonostante il fatto che Marine Le Pen abbia conquistato altri tre milioni di voti al ballottaggio, oltre ai suoi oltre sette e mezzo del primo turno. Il cosiddetto “barrage républicain”, cioè la convergenza spontanea dei vari settori della classe politica fedele ai valori della République contro il pericolo del Front national può essere una particolarità tipicamente francese, ma ha convinto dodici milioni di elettori a spostarsi su Emmanuel Macron al ballottaggio, aggiungendosi agli 8 già conquistati al primo turno. Rispetto al 2002 (quando Chirac affrontò Le Pen padre al ballottaggio), i margini si sono ridotti, ma sono ancora ampi.
La seconda notizia è che sia possibile ottenere questo risultato con una franca campagna europeista, favorevole all’apertura internazionale e alla modernità delle interdipendenze, cioè sottraendosi a un certo inseguimento al tema della difesa del locale-nazionale, che è un elemento di ambiguità e incertezza in tutto il panorama politico occidentale. Trump insegna. In questo il giovane “enarca” ha mostrato coraggio e la sua sfida è stata premiata, proprio in riferimento al messaggio forte dell’avversaria, che non è riuscito a sfondare. Il messaggio per cui nessuno in Europa può illudersi di andare da solo è arrivato a destinazione. L’Europa ha tirato quindi un sospiro di sollievo (anche se sarebbe sbagliato pensare a una difesa di ogni forma e modello delle scelte europee, anzi, potenzialmente con questo passaggio si apre una stagione di utile ripensamento).
Dopodiché, cominciano però i problemi: ne indico tre. Il primo: si è magnificata la capacità di Macron di innovare la politica, arrivando a conquistare il 24% dei voti al primo turno con un movimento neonato, al di fuori dei partiti tradizionali usurati e incerti, sia a destra che a sinistra. E forse indubbiamente questo aspetto innovatore l’ha premiato, anche se era difficile negare il suo essere propriamente un prodotto dell’establishment francese, per di più anche recente ministro del pochissimo amato Hollande. Ma l’enfasi sul nuovo non ci può far dimenticare che non sappiamo quanto possa andare lontano una politica che ha bisogno ad ogni campagna elettorale di rinnovare il “prodotto”. Un conto è legittimare un candidato per una corsa monocratica come le presidenziali, un conto strutturare un movimento politico capace di gestire un paese per almeno una legislatura e forse anche per un orizzonte un poco più lungo: vedremo come il movimento affronterà le elezioni parlamentari e se saprà sostituire degnamente i vecchi partiti che alcuni oggi dichiarano esplicitamente “morti”.
C’è poi il discorso del posizionamento politico di Macron. Basta infatti lo schieramento sulla frattura apertura/chiusura? Io credo di no. Contrariamente a molti, continuo a pensare che l’asse destra/sinistra non sia affatto superato, ma semplicemente integrato e corretto da quella nuova spaccatura primaria. Si può essere pro o contro l’apertura con diversi contenuti e scelte. Macron ha individuato una posizione centrista, moderna, sfumata, pretendendosi capace di coniugare progresso e tradizione (un po’ di ricordo del vituperato “…ma anche” veltroniano è emerso a tratti in campagna elettorale). In Italia Renzi si sta velocemente aggrappando a questa vittoria, ascrivendo il modello Macron al proprio orizzonte politico, per ribadire una novità di forma e di messaggio che finalmente rinnovi la vecchia sinistra. Addirittura, il passaggio milanese di Obama avrebbe lanciato la prospettiva di una “quarta via” internazionale che si stacchi finalmente dalle difficoltà della politica tradizionale. Beh, sembra interessante notare che questo slogan implicitamente sembra sotterrare un elemento di valutazione su dove sia andata a finire la terza, di via. Che in fondo era impostata sullo stesso asse, ha potuto esprimersi in lungo e in largo negli anni Novanta conquistando anche posizioni di potere, ma non sembra essere riuscita a risolvere l’equazione della globalizzazione contemporanea: come conciliare apertura dei mercati e protezione della società. La prima è facile, la seconda molto meno. L’ipotesi di una “globalizzazione governata”, per citare un’espressione di Romano Prodi, mi pare ancora tutta da sviluppare, e lo stesso ex presidente ulivista ha avuto parole di ripensamento autocritico sulla capacità dei governi dell’epoca di affrontare il delicatissimo problema. Quindi, attendiamo verifiche su questo fronte, per ora ancora molto incerto e iniziale. E dovranno essere verifiche sollecite e forti, pena il perdere lo slancio e l’entrare in crisi della stessa vittoria europeista e pro-globalizzazione: un’Europa che accentui i suoi tratti tecnocratici ed elitisti non ci serve affatto.
C’è infine un ulteriore elemento problematico al di sotto di questo discorso. Vedremo appunto i risultati delle elezioni parlamentari, con il doppio turno alla francese che naturalmente enfatizza una tendenza maggioritaria, ma non ha la virtualità di disegnare facilmente scenari bipartitici. Difficilmente infatti Macron, che rappresenta in partenza un quarto dell’elettorato, potrà costruire un parlamento a propria immagine. Il primo turno delle presidenziali ha mostrato un composito gioco di minoranze, parecchie delle quali non irrilevanti. Quindi, prima ancora di governare, il neopresidente dovrà porsi il problema di quali interlocutori politici privilegiare, anche solo per riuscire a convogliare i voti di alcune minoranze sui propri candidati al secondo turno di ballottaggio. E ciò rispetto al fatto che – al netto dello scontro con il Front national – avrà alla sua destra gli eredi pur ridimensionati del gollismo repubblicano, alla sinistra una variegata e non piccola armata brancaleone, che ha raccolto complessivamente quasi il 30% al primo turno delle presidenziali. Qui si apre una scommessa sulla direzione da prendere: per battere la sinistra “irresponsabile e antagonista” occorre guardare a una sorta di convergenza o addirittura propriamente a una coalizione con la destra moderata? Oppure la virtù di un solido leader della sinistra moderna è quella di ricostruire un percorso inclusivo e convincente, che coinvolga il massimo possibile delle critiche al sistema da sinistra? Non per riprendere i vecchi slogan del “pas d’ennemis à gauche”, naturalmente del tutto insostenibili. Ma per provare veramente a disegnare una prospettiva di cambiamento strutturale del mondo, che parli agli esclusi e agli scontenti di sinistra, che sono una quota di elettorato non banale, a fronte dell’ineguaglianza crescente della società. L’alleanza con la destra apparirebbe infatti tutta appiattita sulla difesa dell’attuale dinamica dei rapporti politica-economia, quasi una sorta di arroccamento dell’establishment su sé stesso. A mio parere questo sarebbe un esito pericolosissimo, che non può che fornire ancora acqua al mulino dell’allontanamento di settori popolari cospicui dalla politica “moderna e responsabile”, aprendo praterie ulteriori per i populismi, più o meno arrabbiati e destrorsi.
Lezioni e questioni francesi, ma non così lontane dalla prospettiva problematica che sta di fronte alla classe politica italiana, e in primis ovviamente alla (rinnovata) dirigenza del Partito democratico. Al netto delle diversità legate a una situazione storica ovviamente non identica (con parecchie analogie, però), e alle ancora interlocutorie condizioni delle regole elettorali. Questioni che comunque non hanno di fronte l’orizzonte dei decenni, ma direi quello dei mesi, in vista della prossima campagna elettorale nazionale.
Guido Formigoni