Se la post-democrazia arriva anche nei territori

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Ritorniamo per un momento sulle amministrative facendoci aiutare da Manin. Mentre leggevo le analisi sui risultati, quasi tutte quantitative e con il solito d’Alimonte che trasforma in numeri anche la democrazia comunale, mi è tornato alla mente il libro di Bernard Manin: Principi del governo rappresentativo. I commenti sulla crisi del Pd, sui torti degli scissionisti, sul centrodestra che avanza, Renzi assente, astensionismo record, coalizioni vincenti o perdenti, il M5S finito, Berlusconi e Salvini che esultano, Comuni persi e Comuni vinti, ecc. mi hanno convinto che Manin avesse intuito qualche cosa di corposo. Questo studioso ci ha infatti spiegato che il nostro è il tempo della “democrazia del pubblico”. Quella democrazia, cioè, che mette da parte i governanti, la generica classe politica e la democrazia rappresentativa, e al loro posto fa subentrare il leader in rapporto diretto e comunicativo col pubblico. Quest’ultimo inteso come indistinto fruitore di comunicazioni e informazioni, Tv in testa. Manin ha fatto capire che il sistema dei media esercita una forte influenza sulla democrazia politica e sul voto, grazie al suo potere di convincimento e persuasione. Una tesi che tuttavia trasforma l’elettore in isolato, passivo e indifeso tele-spettatore, nelle mani del marketing politico. Ridotto a pubblico, appunto.

Devo dire la verità. A questa tesi non ho mai creduto troppo. Soprattutto quando la si vuole trasferire nella dimensione locale. Anche perché nel frattempo il pubblico di Manin da destinatario si è fatto anche mittente e fonte creativa di messaggi. Protagonista. Ho infatti sempre scommesso sull’autonomia critica di chi riceve la comunicazione. Sui filtri sociali e culturali, sui mondi della vita attraverso i quali l’elettore (il pubblico) si difende. Insomma, non ho mai dato eccessivo peso alla manipolazione delle coscienze e alle omologazioni. Naturalmente non dimenticando che oggi siamo di fronte ad un giustificabile sbandamento provocato dalla scomparsa delle vecchie appartenenze politiche e delle identità storiche in cui siamo cresciuti e ci siamo riconosciuti. Causa prima, specie in un certo elettorato anziano, dell’assenteismo; e spesso anche della deriva qualunquista che ci porta a votare un politico nuovo. C’è chi sostiene che oggi si vota – quando si vota – spesso contro qualcuno e tanto per votare. E non per qualcuno  e per esercitare un diritto/dovere costato lacrime e sangue.

Manin convince, invece, su un’altra faccenda. Molto seria. Afferma infatti che siamo entrati nella fase della post-democrazia. Non quella dei forti poteri economici e del capitalismo finanziario, che procede indisturbata per la sua strada. Ma quella senza corpi intermedi. Senza partito e associazioni di mezzo. Senza passioni e ideali. Senza passato e futuro. Ma solo con la velocità del presente, e ben rappresentata dai nuovi strumenti tecnologici della comunicazione sociale. Una democrazia in cui il leader, il premier, il parlamentare della Circoscrizione o del Collegio, il  governatore, il candidato sindaco o assessore che sia, è in rapporto e comunica direttamente con l’opinione pubblica e gli elettori. Manin fa dunque capire che non esistono più i partiti, i programmi, le sezioni, i circoli, le associazioni, i sindacati, ma solo i leader che personalizzano la democrazia politica e chiedono il voto per loro. Quando vincono, vincono loro, e quando perdono, perdono loro. E il  partito? A forza di diventare leggero si è prima liquefatto, e dopo è diventato gassoso, lasciando il leader solitario e in alto, quasi su una nuvola. La descrizione può essere vera. E chi ha la mia età ricorda che si tratta di un fenomeno che in Italia abbiamo iniziato a vivere con Bettino Craxi. E poi, a seguire, con i suoi estimatori. Ma risulta chiaro che, di fronte a questo modello di democrazia, il lavoro di squadra, la collegialità, il  gruppo di discussione, le mediazioni tra pareri diversi, e perfino i grandi ideali condivisi, non esistono più. E si pongono le basi teoriche al leaderismo e alla democrazia del leader, non a caso tornati di moda, e ai nostri giorni studiati a fondo.

Manin non critica questa deriva post-partitica. Anzi sostiene che appartiene allo sviluppo naturale della democrazia. Non dovremmo dunque scandalizzarci troppo che, partito o non partito alle spalle, destra o sinistra ideologica o storica di riferimento, liste o non liste, coalizioni o corsa solitaria, programmi, assenza di programmi o programmi mai letti, si vota ormai per il buon comunicatore e non per il partito, e che siamo di fronte ad una piena ed euforica ascesa della democrazia fatta persona.

Dovremmo cominciare a pensare che questa personalizzazione si riscontra anche nella dimensione locale che è invece specifica dei rapporti faccia a faccia e delle conoscenze personali. Dove però si corre il rischio della ricomparsa dei notabili territoriali, buoni comunicatori che personalizzano il voto anche loro, e dai quali i loro clienti-amici si aspettano qualcosa in cambio. In questo particolare spazio pubblico un fatto è certo: in assenza di grandi valori, l’illegalità del  familismo amorale, il pragmatismo degli interessi e delle promesse hanno di nuovo partita vinta. Mentre i principi e i diritti umani universali perdono d’importanza. Fenomeno questo che si tocca con mano nel secondo turno del voto amministrativo, quando l’assenza al voto denota anche assenza di motivazioni al voto: il demos si dimezza e il kratos si rafforza. Quando comincia a farsi strada anche la strampalata e pericolosa idea di pochi ma buoni: in meno si va a votare, tanto più  la democrazia e l’amministrazione funzionano! Un convincimento disastroso che deposita la democrazia nelle mani di una élite di aventi diritto. E che non riguarda tanto la fiducia nella persona in testa dopo il primo turno, ma che ha il suo fondamento proprio nella sfiducia verso il giro dei soliti noti: tanto, se non è zuppa …!

È triste, molto triste, osservare che anche in questi luoghi di prossimità, rimangono fuori dalla discussione le diseguaglianze, i ricchi e i poveri, il potere economico e finanziario, il lavoro e i diritti umani. Accanto alla strada da aggiustare, agli emigranti da cacciare, ai fiumi sacri e alle pianure da rispettare, rimangono fuori le ancora sconosciute questioni sociali dietro l’angolo, con la classe media in picchiata verso il basso, e i grandi temi epocali del lavoro 4.0 che stiamo già vivendo. E rimane fuori il rapporto tra malaffare e politica, tra corruzione e  Consigli comunali, da lasciare integralmente nelle mani del potere giudiziario. Ed è un gran peccato che questo succeda anche nella dimensione locale che, tra le sue ombre, tra le clientele, gli amici degli amici, e le lobby del posto, rappresenta invece la vera dimensione a misura d’uomo. Dove la democrazia deliberativa e la cittadinanza attiva per le cose da fare dovrebbero essere di casa. E dove i rapporti interpersonali, il guardarsi in faccia e ri-conoscersi simpatici (o antipatici), l’amore per la squadra di calcio e l’associazione bocciofila, gli incontri al bar e il passa parola, la parrocchia e il barbiere dovrebbero invece sostituire la comunicazione mediatica a distanza e il pubblico, valorizzando i mondi quotidiani e reali della vita, e non quelli virtuali dei social media e dei media.

 

Nino Labate

 

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