Avvertenza
Lo scritto che segue vuol costituire un documento di apertura in vista di un seminario da promuovere, dalla rete c3dem o con la sua collaborazione, sul tema del lavoro – e in particolare su quello dei lavoratori – nel prossimo autunno.
Infatti da diversi mesi alcune associazioni di area milanese, aderenti alla nostra rete, stanno lavorando su queste tematiche e altre lo faranno durante l’estate.
Poiché la problematica del lavoro è immensa e complessa, abbiamo concentrato la nostra attenzione su una tematica che nei dibattiti generali rischia di non essere sufficientemente considerata.
Il tema che ci sta a cuore è sostanzialmente questo: “dopo il declino della classe operaia, la classe lavoratrice può essere ancora un soggetto (non il solo, ma un soggetto importante) del cambiamento sociale? E come?”
L’idea di fare circolare questo testo è venuta per stimolare ulteriori apporti personali e soprattutto collettivi che arricchiscano la nostra riflessione comune e il seminario stesso, con scritti ragionati e documentati.
Così come è sempre auspicabile, al di là di questo documento, che emergano altri contributi e riflessioni sui temi del lavoro, anche grazie agli approfondimenti promossi dalle associazioni della rete nel corso delle settimane di formazione estive e in altre occasioni.
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A livello dell’economia globale, l’attuale intrinseca debolezza del movimento dei lavoratori costituisce una delle principali causa del formarsi delle enormi diseguaglianze che continuano a progredire senza tregua.
Le cause di questa crisi sono fin troppo note: globalizzazione, delocalizzazione, tecnologie a risparmio di lavoro, finanziarizzazione, cui vanno aggiunti, sul piano politico, il crollo dei paesi comunisti (che costituivano un argine, non per il merito, ma per la sola loro esistenza) e il progressivo deperimento dei partiti, che storicamente si richiamavano al lavoro.
Ciò di cui occorre prendere atto è che un intero sistema di difesa e di promozione politica e sociale delle classi lavoratrici, durato oltre un secolo, è giunto alla sua fine.
Pertanto, se non si vuol vivere di nostalgia o in una condizione di melanconica attesa di tempi migliori, sembra ragionevole pensare che la risposta sia una sola: mettere mano a costruire una nuova prospettiva. Di questo dunque si deve parlare e vale la pena di pensare.
In questa sintetica nota si cerca, per questo, di indicare alcuni nodi utili a un ripensamento ricostruttivo.
Essi hanno la caratteristica di partire dal basso; in altre parole di presentarsi come percorsi praticabili dalle persone e dai gruppi a partire dalla loro condizione concreta, dal loro ambiente di lavoro e dalla loro realtà locale.
Non è possibile cambiare il lavoro dall’alto; le leggi possono certo favorire, ma si tratta di cambiare delle situazioni reali in cui i veri e unici protagonisti sono le persone presenti, quelle che ci vivono e operano.
1.
Un primo campo d’azione va individuato nella valorizzazione degli aspetti positivi del lavoro attuale. Trattandosi di tendenze non rappresentano l’universo; sono limitate, parziali, anche contradditorie, ma esistono e avanzano. Esse sono sostanzialmente due: lavoro di conoscenza e lavoro di relazione.
Se ieri il lavoratore era considerato come produttore (questo era il motivo dell’importanza dell’operaio) oggi sempre di più viene richiesta al lavoratore una prestazione cognitiva e relazionale, non ripetitiva ed esecutiva, in cui esprimere la propria iniziativa. In occasione del ricevimento della laurea “honoris causa” alla Università di Venezia, Bruno Trentin, nel suo discorso “Lavoro e conoscenza” prospettava un lavoro futuro tutto incentrato sulla conoscenza; era un’immagine molto ideale, in larga misura irreale, ma utile per orientare un’azione concreta.
Un analogo discorso va fatto per il lavoro relazionale. Oggi in Italia, due terzi dei lavoratori operano nel settore terziario e in questo campo che comprende tante attività diverse (pubblico impiego, commercio, turismo, banche, comunicazione, editoria, spettacolo, ecc…) il rapporto del lavoratore non è con la macchina, ma prevalentemente con le persone.
Abbiamo valorizzato a lungo il lavoro operaio che era un lavoro con la macchina, perché non valorizzare il lavoro attuale che è un lavoro con le persone? Certamente il rapporto con una macchina è più semplice che il rapporto con una persona. Ma qui appunto sta il problema da affrontare oggi, tanto nel lavoro quanto nella convivenza sociale: passare da una solidarietà mitica (lo stare tutti dalla stessa parte ) a una solidarietà concreta verso le persone che si incontrano e con cui si ha a che fare. C’è qui la radice di una solidarietà tanto più difficile, tanto più vera.
Per chiudere questo punto: oggi questi aspetti positivi del lavoro esistono ma sono vissuti soprattutto a livello individuale. Occorre che diventino una coscienza diffusa, prima di tanti e poi comune. Se per un secolo e mezzo il lavoro produttivo/operaio è stato il riferimento, il concetto dominante, per il movimento dei lavoratori, occorre che progressivamente si affermi un’altra visione, un’altra concezione condivisa.
2.
Un secondo campo d’azione è quello che si può definire strategia della partecipazione.
Questo termine spesso non piace perché, soprattutto in passato, appariva troppo “collusivo” col “padrone”. Ma innanzitutto oggi in molte aziende i rapporti sono cambiati e sono meno gerarchici e autoritari di una volta. In secondo luogo è il lavoro attuale che esige la partecipazione. Come è possibile svolgere un lavoro significativo di conoscenza se non in accordo con l’impresa? E come è possibile sviluppare relazioni senza intesa? Sarebbe facile moltiplicare gli esempi per dimostrare che molti lavori attuali esigono una base d’ accordo con l’azienda. Positivamente poi la partecipazione è entrata negli obiettivi comuni di CGIL – CISL UIL nel documento unitario del 14 gennaio 2016.
Partecipazione significa possibilità di sviluppare le proprie capacità e potenzialità e di mettere a frutto le proprie doti e conoscenze, senza per questo rinunciare alla propria libertà e autonomia.
Anzi è proprio dallo sviluppo di questa libertà e autonomia delle persone/lavoratori che possono anche aprirsi prospettive diverse nelle imprese e nelle forme di impresa.
Come è noto nel capitalismo possono esistere organizzazioni produttive di vario tipo ( si pensi alle cooperative e al terzo settore), anche con rapporti differenti tra capitale e lavoro, tra lavoro e management.
Si può discutere del futuro del capitalismo, ma intanto fare dei passi avanti a livello d’impresa ha un duplice risultato positivo: 1) permette delle esperienze di lavoro più libere e più umane; 2) favorisce la crescita di una coscienza collettiva del lavoro che può influire anche sul contesto generale.
Investire sulla libertà delle persone che lavorano costituisce dunque un duplice investimento valido, per le persone innanzitutto, ma anche per chi crede nella trasformazione sociale.
3.
In terzo luogo occorre prendere atto che, accanto a tendenze positive del lavoro, da valorizzare il più possibile, ne esistono altrettante, e forse più diffuse, di carattere negativo. Ci riferiamo ad un’area notevolmente estesa di disoccupati cronici, di sottooccupati, di precari, di giovani in costante ricerca di una lavoro decente, di working poor, di lavoratori in nero, di situazioni ancora presenti di caporalato e semi-schiavitù.
Siamo in presenza di una situazione tendenzialmente duale del mercato del lavoro, con un’ampia massa di lavoratori che vivono in una condizione di esistenza al di sotto di un livello umanamente accettabile.
Tenere unito il mondo del lavoro, impedirne la frattura, arrestare questo scivolamento verso il basso, occuparsi in modo preminente delle fasce deboli del mondo del lavoro è compito prioritario tanto del sindacato quanto della società civile.
Valorizzare i meccanismi di intervento sul mercato del lavoro (agenzie dell’impiego, formazione professionale, formazione permanente, 150 ore per istruzione informatica e tecnologica, strumenti attivi di mobilità) accanto all’introduzione progressiva di un reddito minimo per situazioni di bisogno sono meccanismi che vanno diffusi e potenziati e non rimanere sempre sulla carta.
Il mondo del lavoro è diventato complesso e non bastano più la pratica e le conoscenze personali di un tempo per trovare lavoro, occorrono istituti ad hoc, competenti e attrezzati, che siano capaci di orientare, formare, sostenere i passaggi di mobilità necessari.
Deve investire di più il settore pubblico, naturalmente, che finora ha fatto troppo poco (l’Italia è uno degli ultimi paesi in Europa per spesa nel settore promozionale del lavoro), ma anche il sindacato deve preoccuparsi di sviluppare delle capacità nuove, non solo rivendicative, per essere all’altezza della situazione attuale del mercato del lavoro.
Questo intervento si presenta strategico perché è nella promozione e redistribuzione del lavoro che va ricercata la risposta prima e essenziale al disagio sociale, destinato altrimenti a diventare un sempre più complesso problema insolubile di povertà e di reddito amministrato a carico della collettività e dello Stato.
4.
Da ultimo, come accennato all’inizio, la debolezza del mondo del lavoro è anche politica, dovuta al venir meno dei partiti che rappresentavano il lavoro.
E per rimediare a questo non bastano richiami formali nelle sigle e nei titoli e il perenne invito alle forze di centro-sinistra a fare di più.
Non è un problema di buona volontà (come ricordato recentemente da Giuliano Amato a proposito della vana ricerca dei tentativi di terza via) perché è saltato un legame, un tipo di rapporto tra sindacato e partito, tra classe operaia e politica, e bisogna individuarne uno diverso. Fuori da questa prospettiva si può essere generosi, ma non si va lontano.
Quello che si può proporre, allo stato, è la formazione di un raggruppamento che, prendendo a prestito la terminologia inaugurata da Pisapia, si potrebbe definire un “campo laburista”: non una forza politica, ma una forza di cultura politica che inizi ad arare il campo per una nuova semina, cioè che si impegni a elaborare e avanzare proposte inerenti il lavoro in una prospettiva ricostruttiva.
Le prospettive, gli sbocchi, i rapporti verranno dopo, working in progress, tenendo comunque presente che non si tratta solo di produrre idee, ma di promuovere proposte che possano entrare nel dibattito politico e trovare concreta attuazione.
Questi quattro punti non esauriscono certamente l’ampia e complessa problematica del lavoro, ma hanno il vantaggio di presentarsi come operativi, di indicare un terreno sufficientemente articolato di temi su cui poter lavorare costruttivamente da subito.
Essi sono pensati, almeno nelle intenzioni, come punti unitari, che al di là delle diverse opzioni sindacali e politiche possano costituire una prospettiva su cui impegnarsi in modo convergente senza preclusioni ideologiche, anche perché tale prospettiva non può che essere unitaria.
Infine nella situazione presente in cui non si può più contare sulle forze tradizionali del movimento operaio, il cattolicesimo democratico potrebbe costituire almeno un ambito di stimolo e di riflessione per favorire il riattivarsi di un processo collettivo di cultura sociale che ricomprenda e faccia leva sul lavoro.
Sandro Antoniazzi*
Sandro Campanini**
* Vicepresidente di “Comunità e Lavoro” – Presidente di “Convivialità” .
** Socio del Circolo “Il Borgo” di Parma – Coordinatore nazionale della Rete c3dem
14 Luglio 2017 at 19:21
I dati Istat inducono a concentrare gli sforzi delle parti sociali e della società civile sul governo del mercato del lavoro (punto 3 del documento), ed in particolare sulle politiche attive del lavoro, sulle quali siamo carenti. L’idea di M. Ferrera di un 5xmille, a carico dei contribuenti, destinato al lavoro (Corriere della sera) indica la tensione a forzare la situazione con azioni non banali e non più rinviabili. A ragione è stato detto lavoro di cittadinanza versus reddito di cittadinanza.
24 Luglio 2017 at 08:21
Il mio commento ha ricevuto una conferma esplicativa dal reportage de “L’Espresso”,n.30, 23 luglio 2017, pagine 44 e seguenti: il confronto Italia-Germania, in particolare il prospetto sinottico di pag.47, spiega, meglio di quanto potessi fare, l’urgenza del problema. Va bene il “politique d’abord” ma entro i limiti della risposta a chi ha più bisogno.
24 Luglio 2017 at 08:29
Oggi un argomento largamente dibattuto è quello della disuguaglianza, associato giustamente alla distribuzione/redistribuzione del reddito (si potrebbe ragionare anche su quella del capitale).
Il modo più sano di farlo dovrebbe essere quello di espandere le opportunità di lavoro. Chiediamoci quindi come farlo, ma con una premessa importante: quanto posti di lavoro si potrebbero creare dove esso già oggi servirebbe? A Parma, dove vivo (e “pungolo” ogni tanto Sandro Campanini!) mancano Vigili, Poliziotti, Carabinieri, Insegnati di Sostegno, ecc. A Bologna sentii mesi fa’ alla radio che mancherebbero 600 infermieri, In Italia 9.000 Cancellieri nei Tribunali. A breve andranno in pensione molti Medici che non si sa come rimpiazzare, anche a causa del numero chiuso. Notizia dell’altro ieri: sempre a PR mancano 30 Vigili del Fuoco. In altri termini: esiste la rilevazione completa ed attendibile di una corretta necessità di copertura di posti, chiaramente e spesso nella P.A. ? Dobbiamo porci seriamente il problema del corretto ed efficiente funzionamento dello Stato; questo comporta costi ma anche ricadute positive e miglioramenti vicini e anche lontani: chi si occupa oggi spende un reddito che alimenta la “circolarità dell’economia”, mette su Famiglia e magari occupa un appartamento che invece rimarrebbe sfitto o non venduto! … se invece il reddito circola meno ne risentiamo tutti. Mi fermo qui, perché se non avremo una stima realistica di quanto lavoro si potrebbe da subito creare, sarà anche inutile pensare di programmare o solo discutere “il resto della storia”.
24 Luglio 2017 at 20:36
Vorrei aggiungere un’altra considerazione al mio precedente intervento: oggi in molti settori il numero di lavoratori regolarmente occupati è sottodimensionato rispetto ai rispettivi compiti da svolgere (es. forze dell’ordine) c’è quindi una ricaduta indiretta sul sistema: la non ottimale trasmissione di esperienza e professionalità alle nuove leve. Si tratta quindi di “quantificare” e “computare” anche questa perdita di valore immateriale del “capitale umano”, non meno importante per un corretto e sostenibile sviluppo (ma basterebbe oggi il mantenimento) del tessuto economico. Ho letto in altra parte del sito di analisi molto approfondite e proposte articolatissime: è troppo difficile da realizzare … prima che il sistema imploda!
Sono necessarie azioni immediate, semplici, già gestibili con le regole attuali, che portino immediata apertura di concorsi, veloce copertura di mansioni già oggi necessarie. Abbiamo bisogno di uno Stato che realmente funzioni e che lo faccia in tempi brevi … non come i processi!