La ferita e la radice. Genova 2001, una generazione “perduta” alla ricerca di alleanze e di futuro

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Ho scoperto, recentemente, leggendo il supplemento culturale del Corriere della Sera, che la mia “generazione”, quella dei nati tra il 1977 e il 1983, è una generazione di passaggio. Saremmo gli “Xennial”, l’ultima generazione che ricorda bene il telefono fisso, il mondo prima della rivoluzione digitale, ma che poi si è comunque adattata al mondo che è cambiato. Una generazione di mezzo, insomma.

Per chi ha vissuto l’impegno politico e sociale in prima persona, fin da ragazzo, la mia è anche e soprattutto la “generazione di Genova”. Ho provato, anche quest’anno, a sottrarmi alla retorica degli anniversari, ma dopo aver letto il bello ed evocativo articolo di Carlo Bonini su Repubblica di un paio di giorni fa, quello in cui l’attuale capo della Polizia Gabrielli ha parlato, rispetto all’ordine pubblico e alle torture di Bolzaneto e della Diaz, di “catastrofe”, proprio non ci sono riuscito.

Bonini inizia il suo pezzo così: “Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare”.  Questo assunto, se forse non è sempre valido nemmeno nei rapporti interpersonali o di coppia, certamente ci interroga rispetto a Genova 2001, un “ricordo ibernato, con una ferita che torna a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria”.

Sedici anni sono passati da una grande speranza e da una grande delusione. L’immagine che più mi è rimasta nella mente e che fa capolino più spesso, non è quella della paura, della mancanza del respiro, del sangue vivo vicino a me, è il momento in cui passai di fianco alla Chiesa multicolore sul lungomare di Genova, cosparsa di scritte multilingue sulla remissione del debito ai paesi poveri, qualche minuto prima che si scatenasse l’inferno.

Oppure, ancora prima, ricordo come fossi oggi l’istante della mia scelta di esserci, mentre molti, anche dalla mia città, rinunciavano e tornavano indietro. Uscito a mezzanotte dai cancelli della fabbrica metalmeccanica a cavallo tra Parma e Reggio Emilia, in cui svolgevo per i mesi estivi un (per me, studente universitario e professorino) molto duro lavoro operaio, decisi di tornare a Genova (ero stato lì per la manifestazione dei migranti pochi giorni prima), partendo alle cinque del mattino con il pulman della Rete Lilliput, proprio dopo aver saputo, alla radio, della: “morte di un ragazzo”.

Come ha sottolineato una testimone diretta di quei giorni, Ilaria Lani: “Doveva essere la mia prima grande manifestazione e mi ritrovai in campo di guerra”. Eppure i giorni che avevano preceduto il 20 luglio erano stati bellissimi. La manifestazione dei migranti e il concerto di Manu Chao. Le nostre voci dal “Public Forum” echeggiavano in una atmosfera strana, insolitamente silenziosa, sospesa, eterna. Il mondo sembrava nostro. Riconversione ambientale, migranti, pace, disarmo, acqua, no-ogm, partecipazione e democrazia, cancella il debito, saperi, diritti globali, impronta ecologica e sociale. Qualcuno disse in un forum: “Questa è la prima generazione che non chiede nulla per se stessa”.

La nostra generazione di Genova era enormemente variegata, direi molteplice, non priva di profonde contraddizioni, ma è vero, non c’era nulla di rivendicativo per noi, chiedevamo “solo” un altro mondo possibile.

Continua Ilaria Lani: “la nostra era una generazione che si era potuta permettere il lusso di sognare, in maniera del tutto innocente, ma fu svegliata a suon di manganelli. Quello fu il nostro vero primo rapporto con il potere e la sua violenza, ed eravamo soli, senza protezioni, senza adulti, senza riferimenti, senza partiti e sindacato. Da allora abbiamo continuato a sognare e costruire l’altro mondo possibile, ma abbiamo sempre tenuto a debita distanza il potere, in tutte le sue forme più o meno istituzionalizzate”.

In realtà, personalmente, ricordo la mia fuga, insieme ai componenti della Rete Lilluput di Parma, ricordo un sacerdote missionario saveriano sulla sedia a rotelle e il fazzoletto e il limone in bocca, e quel mio trovare rifugio, casualmente, dietro la bandiera della Cisl di Vicenza, un sindacato che, anni dopo, avrei cominciato a frequentare, tra la durezza delle concerie di Arzignano e la conoscenza di persone visionarie, quanto fraternamente amiche.

Di lì a poco ci sarebbe stato l’11 settembre, poi la crisi globale e oggi un mondo, sempre più “terrorizzato” in cui è in crisi prima di tutto la “percezione dell’avvenire”.

Ora il ricordo potrebbe prendere una piega un po’ scontata. Rimpiangere un mondo che non è più e al tempo stesso che non è stato. Provo a esorcizzarlo ricordando  una frase di una grande figura, Paolo Giuntella: “meno lagne e più Soul”.

Mi chiedo se le generazioni più giovani della nostra, i reduci “xennial” come ci chiama il Corriere nazionale, che abbiamo tra i trenta e i quarant’anni, quelle cresciute nel dibattito, a volte un po’ stantio, tra precarietà e crisi globale, possano comprendere questi sentimenti, non avendo conosciuto, forse, la nostra “speranza”, ma nemmeno la nostra conseguente delusione.

Mi chiedo se sia possibile un’alleanza nuova, pur in un contesto così frantumato che disperde anche le più semplici solidarietà generazionali di un tempo.

Insomma, se allora sognavamo di “cambiare il mondo senza prendere il potere”, oggi che cosa sogniamo? Oggi, di fronte alla crisi dell’Unione Europea, all’ascesa di Trump, all’esplodere del tema delle migrazioni e del cambiamento climatico, alla perdita di centralità politica della salvaguardia del pianeta e della lotta alle diseguaglianze (tra Sud e Nord del mondo, ma anche all’interno delle periferie del Pianeta e nei nostri contesti “occidentali”)? Oggi che siamo passati dalle menzogne della guerra umanitaria, alla sorpresa della guerra asimmetrica, alla apparentemente inevitabile terza guerra mondiale a pezzetti e al tempo del terrorismo e dello stato (permanente?) di emergenza e di eccezione?

Rispetto ai tempi di Genova due sono le grandi fratture interrotte e sanguinanti da ricomporre. Il concetto di rete, di unità nella diversità dei soggetti sociali che si ostinano a costruire dal basso “un altro mondo possibile e necessario”, e il tema di continuare a credere in una radicale prospettiva di cambiamento che non sia regressivo e non rappresenti la vittoria finale del turbo capitalismo nichilista, sia esso nella versione globalizzata sia esso nella rampante e illusoria versione neo-isolazionista.

Per dirla con Slavoj Zizek (La Nuova lotta di classe, Rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini, 2016), se “alle porte del nostro castello di declinante benessere bussano le miserie del mondo; i suoi conflitti esplodono nelle nostre città, come leggere questa nuova emergenza continua, il Nuovo Disordine Mondiale?” Pur nella sua provocatorietà Zizek ci ammonisce sul fatto che non ci possiamo limitare a “rispettare gli altri”, ma occorre offrire “una lotta, un orizzonte comune”.

E’ proprio questo che rimette in gioco ciò che abbiamo creduto e costruito, non solo nel Nord del Mondo, noi come generazione di Genova, ma anche di Porto Alegre. Come scrive Ilaria Lani: “avevamo ragione noi sulle ingiustizie che governano questo mondo, allora come oggi”.

E allora da dove ripartire?

Qui, dai nodi e dalle esperienze di democrazia partecipativa e attivazione comunitaria, dall’innovazione sociale e dal mutualismo solidale. Dalla carica emancipativa ed emancipante delle reti sociali e del lavoro: una lezione anche per il sindacato che non può più essere il luogo del passato e del presente, ma deve trasformarsi nella cerniera che permette di ricucire il futuro. In questi anni, in tanti sono/siamo tornati al loro impegno monotematico, terrorizzati dal potere, ma anche dal fare rete con chi non ci è del tutto contiguo, uniforme. Non basta più.

L’orizzonte comune non può che ricostruirsi su scala globale: nelle filiere dell’economia interdipendente, nel nodo di un movimento sindacale sovranazionale, così come dal riconnettere tutto ciò al tema del modello di sviluppo e di consumo, del “voto con il portafogli”, del raccordo tra territorio e globale, alla questione della libera e “comune” circolazione di una conoscenza cooperativa e non solo competitivo-egoistica. E’ un tema di consapevolezza personale e collettiva che precede tutti discorsi geopolitici che possiamo produrre.

Viviamo, è vero, la crisi delle grandi associazioni, a ogni livello, nazionale, europeo, globale. Ma abbiamo anche molti strumenti in più, non solo virtuali. Sta qui l’intuizione necessaria che era già in nuce a Genova e che va con urgenza ripresa. Se non ci facciamo carico del debito dell’ultimo dei Paesi dell’America centrale, presto il debito, insieme alle riforme strutturali, schiaccerà anche noi. La Grecia insegna.

E tutto ciò vale per la violenza sulle donne, la compressione dei diritti democratici, sociali, ambientali, educativi, nella crisi della democrazia sovranazionale e nel connubio e nel sostegno incoerente e reciproco tra politica di potenza e, vero o simulato, “scontro di civiltà”. E’ da qui, da questa contraddizione e da questa consapevolezza che può e deve ripartire la politica, intesa in senso ampio. Da qui possono ripartire le diverse generazioni, in primis quelle che hanno più interesse a correggere la rotta perché hanno più tempo per farlo. Con nuove forme, ma con la certezza che un nuovo mondo possibile è ancora necessario.

Anche perché quello che si staglia ogni giorno di fronte a noi appare sempre più irrespirabile e privo di speranza, ingolfato di vuoto e di cicatrici vecchie e nuove che sembrano non potersi rimarginare, insieme alla rabbia degli esclusi che non si sentono visti.

Occorrono nuovi occhi per curare le “periferie esistenziali del pianeta”, nelle nostre città, come nel mondo globale che, come ci ha insegnato benissimo Genova, ma ancor più questi sedici anni, sono enormemente e sempre di più interconnesse, mischiate, e per questo, però, anche potenzialmente sempre più solidali.

No, non serve, ha ragione da vendere, Bonini: “dover continuare a camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro”, serve aver cura della propria memoria, delle proprie ferite, certamente insieme all’irrinunciabile necessità della ricerca di Giustizia.

Serve ricominciare a nutrire e declinare la voglia, il desiderio, la passione di futuro che era nei nostri occhi di ventenni innamorati della poesia dell’impegno politico e sociale e che oggi incrocia una prosa diversa. Una prosa, però, che scrive una nuova storia alimentandosi di una radice, questa sì, altro che ferite, che è davvero positivamente, sorprendentemente incancellabile. Almeno per tanti di noi.

 

Francesco Lauria

 

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