Qualsiasi competizione elettorale, se esaspera il confronto, porta inevitabilmente strascichi negativi. È nelle cose. Le primarie del centro sinistra, se il confronto si esaspera, rischiano di avere conseguenze che potrebbero ripercuotersi nel futuro governo del Paese. E ciò non va bene. Non è una questione di stile, di toni o di parole usate in maniera inopportuna. Ma di sostanza.
Quando il 25 novembre gli elettori del centro sinistra saranno chiamati a votare, risponderanno ad una domanda che può essere letta in due modi. Nel primo modo, la domanda suona così: chi pensate sia il leader più capace di guidare un governo basato su programmi e uomini concordati e approvati nell’ambito della coalizione? Letta invece nel secondo modo, suona così: chi pensate sia il leader più capace di imporre le proprie scelte di programma e di uomini a quella che sarà poi la coalizione di governo? Due prospettive opposte: l’una indica il punto di partenza, l’altra il punto d’arrivo. Due modi diversi di concepire la democrazia in atto. Due modi diversi di intendere il meccanismo delle primarie. E non si tratta di dettagli sulle regole, aperte o chiuse, col primo o col secondo turno, ma dell’idea politica che le sostiene.
A mio avviso Renzi, interprete del secondo approccio, è come se dicesse: con me si fa come dico io, fuori tutti i vecchi, i temi sono questi e andiamo avanti. Tant’è che per lui la Carta d’intenti firmata da Bersani, Vendola e Nencini è troppo vaga. E, per raggiungere il 50 per cento, ritiene di dover usare temi e parole che attirino anche coloro che non si riconoscono nella politica del centro sinistra. Quindi è legittimo che voglia primarie il più possibile aperte.
Bersani, invece, ha un approccio diverso, che risponde al primo modello. Con fatica ha proposto una carta d’intenti come base della programmazione futura; ha posto le coordinate, non definitive ma definite, di quello che potrebbe essere il nocciolo della coalizione; e su questo tenta di costruire un fronte ampio. Non è detto che ci riesca, ma il metodo è quello. Ed è anche evidente che, per allargare l’orizzonte, la base di partenza deve essere condivisa, per poi arrivare a diventare programma elettorale di una coalizione che in realtà è ancora da strutturare.
Due modelli distanti. Se vince Renzi la strada sembra tracciata; se vince Bersani è ancora da costruire.
Se sia meglio o peggio lo vedremo. Credo, però, che non si possa non tener conto di alcuni altri aspetti.
a) Ci sono altri candidati in campo, con il loro carico di istanze e di progetti. Puppato, Vendola e Tabacci, ad esempio, pur distanti molte miglia tra loro, non possono essere considerati solo fino al 25 novembre e poi messi da parte; e i temi dello sviluppo sostenibile, del lavoro, della giustizia e della legalità, di cui sono portatori, debbono far parte del programma, pur con diverse concretizzazioni, di chiunque vinca.
b) Le primarie saranno utili se alla fine tutto il centro sinistra uscirà coeso e in grado di proporre un fronte unico, non contro la destra ma contro i mali del Paese che questa destra ha determinato negli anni di governo.
c) Per ridare dignità alla politica occorre che le primarie per scegliere il candidato siano seguite anche da una vasta discussione sulle cose da fare: da dicembre a febbraio si facciano in tutte le sedi le discussioni necessarie per capire i punti essenziali del programma di governo. Si può. E non è illusione demagogica. E’ un modo concreto per riavvicinare i cittadini alla politica.
d) Non sarebbe male fare le primarie anche per i candidati al Parlamento, con regole e sistemi ormai consolidati (un’efficiente tenuta degli Albi degli elettori è un obbligo che sarebbe delittuoso non rispettare, evitando l’approssimazione manifestata in altre occasioni).
e) Infine, tornando ai toni esacerbati della contesa in corso, si dovrebbe fare in modo di non dare all’intero corpo elettorale la sensazione che una coalizione così divisa al proprio interno non sia poi capace, in sede di governo, di ricomporsi per guidare con saggezza il Paese.
Vasto programma? Sì, ma si può. Certo con fatica, ma basta volerlo e lavorarci su. Purché non si pensi che il grande slancio di questo processo decisionale sia poco più che un’occasione di marketing elettorale, solo per farsi vedere belli e trasparenti. Viceversa, esso è la condizione necessaria, ancorché insufficiente, per ristabilire un minimo di coordinate democratiche in questo paese sempre più sfasciato dall’antipolitica frutto della malapolitica.