Il sogno dell’alleanza tra uomo e foresta, tra lavoro e ambiente, tra territorio e pianeta, è ancora più urgente e necessario. Non solo nel Brasile di Jair Bolsonaro, ma anche nel nostro paese
Uno degli slogan vincenti del candidato di destra Bolsonaro, ora presidente del Brasile è stato: “l’Amazzonia è nostra”.
Con una lettura superficiale, in altri tempi, questa frase avrebbe potuto essere scambiata per un motto ecologista, un grido contro lo sfruttamento da parte delle multinazionali del più grande polmone verde del pianeta.
Nell’ultimo scorcio di 2018, epoca in cui il nazionalismo del “prima noi-prima io”, trionfa ad ogni latitudine, questa frase assume purtroppo un significato del tutto diverso: lasciateci sfruttare, distruggere per noi stessi, senza i freni inutili degli ambientalisti, siano essi brasiliani o di qualsiasi altro paese.
Adriano Marzi su “Altreconomia” di dicembre 2018 racconta come, già durante la campagna elettorale, il tasso di deforestazione sia concretamente cresciuto; d’altronde, dopo lo slogan citato, Jair Bolsonaro aggiungeva ulteriore fuoco nei suoi comizi: “Dobbiamo liberare il Brasile dall’ambientalismo che lo soffoca e aprire le riserve amazzoniche a chi è in grado di sfruttarne le immense ricchezze”.
E’ inevitabile, in questo difficilissimo passaggio della storia del paese, ricordare i trenta anni dall’assassinio di Chico Mendes in maniera non rituale.
Era poco prima di cena, quando, il 22 dicembre 1988, Chico Mendes, uscendo nella veranda sul retro della sua casa di Xapuri, nello stato dell’Acre, fu colpito al torace da una pallottola calibro 22.
Aveva da pochi giorni compiuto quarantaquattro anni.
Una morte annunciata che, in breve, fece il giro del mondo.
Ma chi era Chico Mendes?
Chico Mendes era un uomo della foresta, figlio di un seringueiro, e serigueiro egli stesso, raccoglitore di lattice dall’albero della gomma, fin dall’età di nove anni.
Nella foresta non vi erano scuole: Chico aveva imparato a leggere a scrivere grazie ad un intellettuale rifugiato, Euclides Tàvora, che era sfuggito dalla dittatura. Una dittatura di estrema destra che aveva preso il potere esattamente venti anni prima, nel dicembre 1968.
Mentre in tante parti del mondo esplodeva e si liberava la contestazione studentesca seguita da quella operaia, il Brasile veniva, infatti, sottomesso dalla giunta del generale Emilio Garrarazu Medici, uomo che si pose la priorità di “occupare una terra senza uomini” e di aprire, attraverso la deforestazione, le “strade del progresso” in Amazzonia.
“Progresso” e ambiente. Una dicotomia che una figura come quella di Mendes contribuiva a sciogliere e demistificare, proponendo un diverso modello economico.
Mendes fu, infatti, anche l’uomo, poi diventato personaggio internazionale, simbolo del “progresso senza distruzione dell’ambiente”, il mito di una militanza nata nelle comunità di base e poi cresciuta nel sindacato (la CUT, Central Única dos Trabalhadores) e nel partito (il Partido dos Trabalhadores, PT), che si alimentava dall’assunto che le idee sono importanti, ma producono risultati solo se “elaborate e vissute insieme agli altri”.
Fin dal 1975, Chico Mendes aveva organizzato un sindacato di lavoratori rurali per la difesa dalle violente intimidazioni e dalle occupazioni della terra praticate da nuovi arrivati che stavano distruggendo la foresta e togliendo ai lavoratori i loro mezzi di sostentamento.
Egli organizzò numerosi gruppi di lavoratori rurali per formare blocchi umani non violenti intorno alle aree di foresta minacciate dalla distruzione e presto attrasse la collera dei costruttori e degli estrattori minerari, abituati a risolvere gli intoppi sia grazie a politici corrotti sia assoldando pistoleri per eliminare gli ostacoli umani. Queste azioni di contrasto salvarono effettivamente migliaia di ettari di foresta, dichiarati reservas extrativistas dove i lavoratori rurali poterono continuare a raccogliere e lavorare il lattice di gomma e a raccogliere frutti, noci e fibre vegetali.
Quando fu ucciso, Mendes, da alcuni anni, era divenuto internazionalmente un testimone riconosciuto della lotta per la salvaguardia della foresta amazzonica, la promozione dei diritti sindacali e la concezione di un diverso modello di sviluppo.
Su Mendes è uscito, ormai quasi dieci anni fa, un libro preziosissimo di Gianni Alioti, responsabile dell’Ufficio Internazionale della FIM-Cisl (Chico Mendes. Un sindacalista a difesa della natura, Edizioni Lavoro, Roma, 2009, pagg. 158, Euro 13).
La prefazione del libro è di Marina Silva, che da serigueiras era divenuta, tra il 2003 ed il 2008, Ministro dell’Ambiente del primo Governo Lula, e che racconta nel testo di aver conosciuto Mendes nel 1977, quando, diciottenne, lei si preparava a diventare suora. Un incontro che le avrebbe cambiato la vita: la scoperta del mondo, della teologia della liberazione, il nesso di fede e politica e “una visione tanto differente del discorso della montagna, del progetto di servire Dio a partire da una testimonianza viva e impegnata socialmente, la liberazione dei poveri.”
Come scriveva Silva, l’idea del socio-ambientalismo deve molto a Chico Mendes e alla sua capacità di trascendere la propria realtà, capendo profondamente il collegamento tra quello che accadeva nei territori amazzonici minacciati e il fermento dell’ambientalismo sul piano globale.
Il libro di Alioti riporta la traduzione italiana di un’intervista a Chico Mendes registrata durante il III congresso della CUT, svoltosi nel settembre del 1988. Il testo è di un’attualità sconvolgente, anche alla luce di numerosi passaggi dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, e si sofferma fortemente sul tema del ruolo delle popolazioni indigene. L’aspetto cruciale dell’alleanza tra serigueiros ed indios è affrontato con grande lucidità, così come l’idea di strutturare un sindacato a rete che spesso viene definito “l’alleanza”. Non manca, nell’analisi del sindacalista il ruolo importante ricoperto nella battaglia ecologica del sindacato dalle donne, oltre che dallo sviluppo del movimento cooperativo tra i serigueiros. Peculiare, poi, l’esperienza di alfabetizzazione dei lavoratori che camminava di pari passo con la costruzione di consapevolezza dei diritti, con un cammino collettivo di lotta e di coscienza ecologica.
Mendes racconta anche di una particolare tecnica nonviolenta, “la trincheira”: un cordone di uomini e donne che si dava la mano intorno all’area che stava per essere disboscata per impedire l’attività e gli accampamenti degli addetti al taglio degli alberi.
Il senso politico dell’intervista è soprattutto nell’impegno di Mendes a costruire una compatibilità tra attività estrattiva e difesa della foresta, la chiave del successo e della concretezza delle lotte del sindacato da lui guidato.
Il libro di Alioti però non si era fermato qui: il sindacalista fimmino non si era limitato ad una biografia di questo eccezionale testimone che con il suo estremo sacrificio aveva permesso un salto di qualità nella mobilitazione e nella visibilità dell’azione di difesa del patrimonio ambientale brasiliano e di tutta l’umanità, ma aveva dedicato una corposa seconda sezione allo stato dell’Amazzonia. Una sezione interessantissima che, ovviamente, dopo ulteriori dieci anni, tutt’altro che semplici per il Brasile, meriterebbe un aggiornamento.
Una riflessione importante che, visto il fallimento politico (seguito da una persecuzione giudiziaria ai limiti del colpo di stato) di molti compagni di Mendes giunti alla guida dello Stato brasiliano, appare anche scomoda e disvelante.
Una delle doti fondamentali di Mendes – scriveva Alioti – fu questa intuizione: la capacità di reinterpretare il conflitto sociale non attraverso una visione meccanicistica, ma superando il concetto di “classe” senza per questo rinunciare alla dimensione “rivoluzionaria” che si concretizzava, precorrendo enormemente i tempi, nell’articolare insieme il sindacalismo rurale con l’ecologismo.
Rimane il tema di fondo: la deforestazione dell’Amazzonia, in questi trent’anni che ci separano dall’assassinio di Chico Mendes, è continuata, pur non sempre con andamento uniforme; come altalenante è stata la coscientizzazione collettiva e la mobilitazione in difesa dell’ecosistema più importante per il futuro dell’intero pianeta.
L’economia predatoria guidata dagli interessi di numerose e diversificate multinazionali, la diffusione dei biocarburanti e degli organismi transgenici, le attività estrattive e minerarie senza freni oltre alla continua e annientatrice pressione sulle popolazioni indigene, ci consegnano una situazione estremamente grave, anche alla luce dell’accelerazione del cambiamento climatico e della crisi generale del multilateralismo.
Il punto fondamentale che si riscontrava nella sezione del libro di Alioti, che si è ulteriormente aggravato negli ultimi dieci anni, e che ci aggiorna sulla situazione odierna della foresta amazzonica è che, se in una prima fase lo sfruttamento predatorio di risorse forestali (come il legname) e la destinazione dei terreni per allevare bovini o coltivare soia può apparire un investimento economico redistributivo, è ampiamente dimostrato che il saldo finale è un alto costo ambientale e sociale, mentre gli indicatori economici e di qualità della vita nelle regioni deforestate non sono certo migliori di quelle in cui la foresta è stata preservata.
Oggi il dibattito deve comunque fare i conti con gli esiti di una campagna elettorale per le elezioni presidenziali in Brasile, dove la destra vincente aveva promesso di cancellare il Ministero dell’Ambiente per affidarne integralmente le competenze a quello dell’Agricoltura.
I grandi latifondisti sono tornati all’attacco e, come dichiara il regista Sergio Carvalho, “sta tornando l’epoca del fuoco e della violenza, dell’ingiustizia legittimata dai tribunali dello Stato”.
Un altro dei fattori scatenanti la deforestazione permane certamente la presenza di ricchissimi giacimenti minerari: si pensi ai giacimenti di ferro nella regione di Belem nella quale si trova anche una delle poche linee ferroviarie del Brasile e dove, a prescindere dalle maggioranze politiche, si sta attuando, ormai da molti anni, favorito dalla privatizzazione delle miniere, un vero e proprio saccheggio ambientale.[1]
Il libro di Alioti ci ricorda che nel febbraio 1989, due mesi dopo l’uccisione di Chico Mendes, si materializzò il sogno di un’alleanza in Amazzonia di tutti i popoli della foresta, seguendo l’esempio di Mendes nell’Acre, che aveva saputo formare e salvaguardare l’alleanza tra indios, seringueros, posseiros (i “senza terra”) ed altri popoli tradizionali.
Un’alleanza che, anche di fronte alle incertezze della politica e della società civile, era stata rilanciata nel settembre del 2007 con un grande incontro a Brasilia che aveva sfidato il Governo Lula con la costruzione di un’agenda alternativa insieme di preservazione degli ecosistemi e di riduzione della povertà tra i popoli tradizionali.
Le contraddizioni interne al Governo Lula avevano portato, nel marzo 2008, alle dimissioni di Marina Silva da Ministro dell’Ambiente e la stessa Silva, nel mese di agosto 2009, aveva lasciato anche il Partito dei Lavoratori.
Tutto questo, anche alla luce delle vicissitudini prima di Lula e poi di Dilma Russef, oggi appare, però, preistoria.
Con Bolsonaro al potere, come ben spiegato nell’ultimo numero del mensile “Altreconomia”, c’è il rischio che anche nelle riserve il sistema basato sull’usufrutto delle popolazioni tradizionali venga sostituito con un regime di proprietà privata, che porterà non alla libertà delle popolazioni indigene o povere, ma al totale dominio delle imprese minerarie e agroindustriali, pronte ad acquistare e sfruttare le terre finora protette dalle riserve.
Che fare dunque?
Al di là di indubbie difficoltà planetarie, confermate, pur con qualche passo avanti, anche dal recentissimo vertice internazionale sul clima di Kotowice, in Polonia, oggi l’intuizione di Mendes appare più centrale che mai.
Il contesto globale non può prescindere da meccanismi di compensazione internazionali in coerenza con il trattato di Kyoto e con quelli successivi.
Per rovesciare il paradigma dello sviluppo incentrato solo sui beni di consumo, sull’economia dello scarto e su logiche predatorie, bisogna, scriveva Alioti nel suo testo, “trovare la maniera per quantificare e valorizzare economicamente i servizi ambientali delle foreste, tra cui quella Amazzonica, sia per conservarle, sia per riconoscere una funzione sociale ed ecologica alle popolazioni che ci vivono, senza depredarle”.
Scrive la figlia di Mendes, Elenira, nella postfazione al libro: “Dal profondo del mio cuore, il migliore regalo che il Brasile possa fare alla memoria di mio padre è diminuire la deforestazione dell’Amazzonia. La mia più grande allegria sarebbe sapere, un giorno, che l’Amazzonia ha raggiunto il tanto sognato grado della deforestazione zero. So che è solo un sogno, ma non smetterò mai di sognare perché è questo che mio padre mi ha insegnato. E’ stato per questo che mio padre è vissuto e morto: trasformare la foresta in uno spazio, in un ambiente economicamente vitale e sostenibile; perché essa non fosse più distrutta”.
E’ la sfida raccolta trenta anni dopo, anche oggi, in condizioni difficilissime, dai compagni e dalle compagne di Chico Mendes, come Mary Allegretti, presidente dell’Istituto di studi amazzonici e sua storica amica e collaboratrice: “La prospettiva di doverci confrontare con il prossimo governo è triste, ma non ci spaventa. Il nostro movimento è nato all’epoca del regime militare e continua ad essere vivo e forte. Nuovi leader daranno seguito alla nostra lotta. Siamo pronti a batterci ancora per il sogno di Chico”. E’ il messaggio resistente di fondo di Chico Mendes, sindacalista, politico ambientalista, padre, amico. Di un uomo che, cadendo: “ha sparso il seme della speranza in ogni angolo del mondo”.
Francesco Lauria
[1] Si veda la campagna “Sui binari della giustizia” sul sito www.giovaniemissione.it