Si è tenuto il 13 e 14 dicembre a Roma, nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, che lo ha promosso insieme alla Provincia di Roma e alla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, un interessante convegno su Pietro Scoppola a cinque anni dalla sua morte (14 dicembre 1926 –25 ottobre 2007). Il convegno, “Democrazia e cultura religiosa. Ricordando Pietro Scoppola”, introdotto dai presidenti degli enti promotori (rispettivamente Roberto Mazzotta, Nicola Zingaretti, Giuseppe Tognon) e dalla relazione di apertura di Andrea Riccardi, si è articolato in quattro sessioni, presiedute da Sergio Mattarella, Nicolò Lipari, Paola Gaiotti De Biase e Francesco Malgeri.
Vi hanno partecipato soprattutto storici e ricercatori. In taluni momenti, sono stati presenti alcuni politici: Pier Luigi Castagnetti, Guido Bodrato, Stefano Parisi, Mariotto Segni, Stefano Ceccanti, Franco Monaco, Giovanni Bachelet, Giovanni Bianchi.
Numerose le relazioni: di Maurilio Guasco, Alberto Melloni, Renato Moro, Stefano Trinchese, Camillo Brezzi, Iginio Ariemma, Francesco Traniello, Agostino Giovagnoli, Giuseppe Vacca, Lorenzo Biondi, Giuseppe Tognon, Francesco Bonini, Cecilia Dau Novelli, Umberto Gentiloni, Carlo Felice Casula, Angelo Ventrone, Emma Fattorini. Ha inviato una relazione scritta Fulvio De Giorgi. Previste, ma poi non effettuate, le relazioni di Giuseppe Ignesti e Luciano Pazzaglia.
Il quotidiano “Europa” ha pubblicato un articolo alla vigilia del convegno (Lorenzo Biondi, “Cattolici. Moriremo liberali o socialdemocratici?”). Il 14 dicembre sono usciti un articolo di Umberto Gentiloni su “La Stampa” (“Scoppola: non fate di Moro un affaire”) e uno di Bruno Gravagnuolo su “L’Unità” (“Scoppola, il cattolico che volle il Pd”).
Quel che segue è un resoconto, certo molto parziale e approssimativo, steso sulla base degli appunti presi. L’Istituto Sturzo pubblicherà, ovviamente, gli Atti.
In apertura il presidente dell’Istituto Sturzo, Roberto Mazzotta, ha osservato che fu un errore della Dc di non aver portato avanti l’esperienza avviata con l’apertura agli esterni promossa nel 1981. Zingaretti ha parlato della carenza oggi di figure che, come Scoppola, siano capaci di creare pensiero e non di subirlo. E Tognon ha ricordato che fu Scoppola a tenere la prima lezione degasperiana a Trento, nel 2004, quando si stava avviando la formazione della recente Fondazione Trentina Alcide De Gasperi.
Andrea Riccardi ha tenuto la relazione introduttiva. Ha iniziato citando un giudizio di Balducci su Scoppola, dopo un incontro in una casa romana, nel 1964: “Bravo giovane, di grande valore, mi sembra (…) Peccatro che giovani così non riescano a fare ambiente…”. E poi un recente giudizio di Agostino Giovagnoli: “Parlare di Scoppola è divenuto rapidamente inattuale”. Riccardi ha ricostruito con grande vivezza il profilo biografico e umano di Scoppola. L’ingresso al Senato, come funzionario, nel 1950, grazie a Leopoldo Elia. Il suo non essere appartenente a nessuna associazione cattolica. Il suo anticonformismo (fu di Paolo VI la definizione di Scoppola come “cattolico a modo suo”, in un colloquio con mons. Bartoletti). Un uomo “timido e combattuto”. Che stette in analisi con Claudio Busnelli (un’analisi come “costruzione di libertà”), quando di psicoanalisti in Italia ce n’erano non più di una trentina. Fu storico alla maniera di Irené Marrou, cioè come “colui che sa uscire da se stesso per incontrarsi con gli altri”; e Scoppola “aveva l’arte dell’incontro”. Un uomo di grande rigore etico, rigore che negli anni si è sciolto in una “saggezza non babbionesca”. Un uomo che poggiò sempre, nella chiesa e nella politica, su due caposaldi: libertà e fedeltà. Pensava che il modernismo del primo Novecento fosse stato un’aurora che avrebbe potuto rinnovare la società e la chiesa. Fu un assiduo e quotidiano lettore della Scrittura. Nella fase di effervescente socialità del post Concilio rimase un po’ da parte. Ebbe un rapporto difficile con il ’68 (lasciò l’insegnamento a Trento per via della contestazione, che non condivideva). In un incontro degli anni ’70 con Giovanni Franzoni, che gli parlava della sua volontà di candidarsi nel Pci, reagì male e parlò di “costantinismo rosso”. Fu critico con i cattolici come Raniero La Valle e gli indipendenti di sinistra. Vicino a Zaccagnini (1975-1980). Poi la Dc apre agli esterni e lui entra in Parlamento. Era percepito dai politici un po’ come un don Chisciotte. Quella fu un’esperienza che visse come una sconfitta. Ritenne poi esaurita la funzione della Dc. Cominciò a scrivere su “Repubblica”. Sarà tra i saggi che redigono il manifesto del Pd. E’ considerato la personalità del cattolicesimo democratico che meglio impersona l’opposizione al card. Ruini. Persegue il disegno di una riforma culturale della politica. Rimprovera Prodi di non aver avuto attenzione sufficiente all’incontro delle tre culture all’origine del progetto dell’Ulivo. “Molto ricercato quanto inascoltato”, Scoppola – per Riccardi – coltivò un’illusione un po’ illuministica, ma forse la sua vicenda è stata “la cartina di tornasole del distacco tra politica e cultura”.
Maurilio Guasco ha parlato di Scoppola e il modernismo. Al modernismo Scoppola ha dedicato uno dei suoi primi libri (Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia), che aprì una nuova stagione della storiografia sulla materia. Amava soprattutto la figura di Tommaso Gallarati Scotti, per la sua ricerca di mediazione tra chiesa e politica, e per il suo impegno per la maturazione del laicato. Alberto Melloni è intervenuto sul tema dei rapporti tra Chiesa e Stato. Ha osservato che Scoppola non è affatto inattuale. La sua resta una posizione originale tra le varie famiglie cattoliche che si sono occupate di quel tema: la scuola di Ruffini, quella dossettiana, quella marxista. Ha criticato il Concordato. Ha posto in primo piano la questione della democrazia. Ha sempre coniugato laicità e libertà.
Nicolò Lipari non ha tenuto una sua relazione, ma ha ricordato l’infinita serie di riunioni tra cattolici cui Scoppola partecipò soprattutto tra la metà degli anni ’70 e la metà degli ’80: Lega Democratica, Assemblea degli esterni, Parlamento… Poi gli articoli su “Repubblica” che Scoppola gli leggeva al telefono. Non era, Scoppola, uno storico, ma un cultore della storia; non un politico, ma un testimone della politica. Uno che cercava sempre i punti di connessione, ma che visse una personale solitudine; e che nel suo ultimo libro (Un cattolico a modo suo) ha veramente “letto dentro se stesso”.
Renato Moro ha indagato gli studi di Scoppola su chiesa e fascismo. Ha fatto ricerche sul Fondo Scoppola, da poco istituito presso l’Istituto Sturzo e ha ricostruito la genesi del libro Chiesa e fascismo, del 1971, ritenuto un classico, l’unica opera che offra una visione complessiva del tema. Moro ha trovato inediti del ’52-53 in cui per la prima volta Scoppola parla di chiesa e fascismo, critica le discriminazioni a cui furono sottoposti i protestanti italiani durante il ventennio e afferma, fin da allora, che la questione chiave del rapporto della chiesa con la società è la libertà. Scoppola individuava nella “anemia del mondo cattolico”, presente durante il fascismo, uno dei nodi irrisolti della chiesa anche negli anni successivi. Fino ad arrivare, quarant’anni dopo, nel 1995, a dichiarare che “non c’è vera libertà della chiesa se non c’è libertà dei cittadini”.
Camillo Brezzi ha raccontato la stagione del divorzio, la vicenda del referendum, la partecipazione al Comitato per il No. Igino Ariemma, un militante del vecchio Pci e poi del sindacato, ha ricostruito l’impegno di Scoppola nell’Ulivo e poi nel partito democratico. Ha ricordato l’esperienza della Rete dei Cittadini per l’Ulivo (2002), quando si formarono ben 456 comitati locali, con oltre 15mila aderenti. Ariemma racconta il fallimento anche di quella esperienza, bruciata per lo scollamento che non si seppe evitare tra partiti e associazioi di base e poi anche per l’affrettata accelerazione che si impresse alla costruzione del Partito democratico procurando la dissoluzione dell’Ulivo. Per Scoppola il Pd non avrebbe dovuto fondarsi solo sul programma ma anche sulla proposta di una riforma culturale del Paese. In un celebre discorso ad Orvieto (2006) propone una forma-partito basata sulla ricchezza delle associazioni per andare oltre il modello socialdemocratico, un modello che si sovrappone alla società e che risulta estraneo alle esigenze che la società manifesta. Poi Scoppola collaborerà al manifesto del Pd, ma ne fu scontento; non credeva all’incontro dei riformismi, perché diceva che in Italia di riformismo ce ne è stato poco. Dubitava che il nascente Pd avesse vere radici. Sono nodi politici – ha detto Ariemma – che restano ancora oggi.
Francesco Traniello ha tenuto una bella relazione su “Scoppola e la secolarizzazione come problema storiografico”, sostenendo che l’interesse di Scoppola per la secolarizzazione prende le mosse alla fine degli anni ’70. Fu ad un Corso di aggiornamento dell’Università Cattolica a Verona, nel ’77, quando era rettore Lazzati. Disse che dopo un trentennio la Dc si presentava più laicizzata di prima, e che si era però di fronte ad nuovo tipo di laicismo. Scoppola percepiva che la novità non derivava solo dalle conseguenze dello sviluppo industriale. Prese però piena consapevolezza del cambiamento solo alcuni anni più tardi, nel 1985, quando scrisse La nuova cristianità perduta. Era stato ucciso Moro, era morto Paolo VI, era finita l’esperienza del governo di unità nazionale, c’era stato il referendum sull’aborto, era arrivato Craxi… Erano cambiate molte cose. La società si era secolarizzata. Non si parla più di laicità, laicismo, laicizzazione. Ma di secolarizzazione. Erano cambiati i termini, ma soprattutto era cambiato l’oggetto. Si era prodotta una rottura che riguardava non solo il mondo religioso ma tutte le famiglie culturali. Si era di fronte alla disgregazione di qualunque sistema di valori. Era un salto in un vuoto etico. E in Italia il fenomeno aveva una sua natura specifica: l’incapacità dell’ambiente culturale, sociale e politico di gestire il cambiamento. Scoppola, nella sua analisi, si distanziava dalla storiografia corrente che faceva all’unisono il processo alla Dc; e parlava, piuttosto, di una debolezza immanente allo stesso mondo cattolico. Parlò di “eterogenesi dei fini”: il mondo cattolico contribuiva a promuovere uno sviluppo dal quale finiva poi per essere messo in crisi. In occasione dei referendum abrogativi del 1981, Scoppola osserva che i cittadini chiedono la libertà a netta maggioranza di abortire (68%), ma poi, a maggioranza ancora più forte (87%), vogliono che i colpevoli restino in galera per tutta la vita (referendum sull’ergastolo). In sostanza, Scoppola finisce per vedere nella secolarizzazione – senza esprimere un giudizio né positivo né negativo – soprattutto la frantumazione dell’unità della coscienza individuale.
Paola Gaiotti De Biase, nell’introdurre la sua sessione, osserva che il momento in cui Scoppola diventa davvero un protagonista politico è quando pubblica (1977) il suo libro su De Gasperi (La proposta politica di De Gasperi), superando la storiografia precedente e in sostanza riabilitando pienamente, anche a sinistra, la figura di De Gasperi. A quest’opera di Scoppola dedica la sua relazione Agostino Giovagnoli che chiarisce il contesto politico-culturale su cui quel libro va a incidere, modificandolo. Dominava allora l’idea di una continuità tra fascismo e post-fascismo, si stigmatizzava il ruolo subalterno dei cattolici, si guardava alla Dc come partito della borghesia… Il libro si Scoppola su de Gasperi non è una biografia del leader trentino, quanto piuttosto l’approfondimento della sua proposta politica, e più ancora della spiritualità che vi era sottesa. Giovagnoli nota una qualche affinità tra De Gasperi e Scoppola. Quest’ultimo, del leader Dc, mostra la capacità di attraversare le contraddizioni del suo tempo con flessibilità, senza ideologia. Scoppola offre, infine, una diversa interpretazione del “centrismo” di de Gasperi: fu una scelta subita, e comunque portata avanti senza volontà di rottura, fu una politica non trasformista e che non escludeva una partecipazione più larga. Per Scoppola il centrismo degasperiano non finisce con il ’53 ma, in un certo senso, prosegue con l’apertura a sinistra e arriva fino alla solidarietà nazionale. Insomma il centrismo è visto da lui come una proposta politica inclusiva. E, quanto al ruolo della fede e della chiesa, nel libro Scoppola sottolinea la sua potenzialità di fermento di democrazia piuttosto che di elaborazione di una dottrina sociale compiuta.
Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci, riprende l’interpretazione di Paola Gaiotti e Agostino Giovagnoli e mostra come la cultura politica del Pci negli anni ’70 segni un cambiamento, anche grazie all’apporto di Scoppola. Già nel 1973, in un dossier sulla crisi democristiana pubblicato da Il Contemporaneo, erano emerse letture diversificate della figura di De Gasperi; alla fine aveva prevalso quella di Giuseppe Chiarante, e poi Amendola, che vedono nella politica del leader trentino una posizione liberal-democratica, con al suo interno anche una corrente social-democratica.
Il giovane Lorenzo Biondi ricostruisce l’esperienza di Scoppola nella Lega Democratica, le convulse vicende di quegli anni, le divergenze con Ardigò e con Pedrazzi, l’ingresso in Parlamento come esterno della Dc insieme a Lipari e Elia, fino allo scioglimento della Lega nel 1987. Biondi mette in evidenza la differenza che in questi anni si fa più chiara tra il cattolicesimo liberale di Scoppola, più vicino a De Gasperi e Montini e alla loro “spiritualità del conflitto”, e più aderente al reale, e quella che era stata la linea utopica del dossettismo. Anche la relazione di Francesco Bonini si sofferma su Scoppola “esterno” della Dc e sui tentativi infruttuosi di rinnovamento del partito.
Con la relazione di Giuseppe Tognon (“Scoppola e Moro, la democrazia dei cristiani”), il convegno ha vissuto un momento di intensa commozione. Tognon racconta che Scoppola “ha scoperto Moro tardi, dopo la sua morte” e che poi, nei trent’anni successivi, si è ritrovato “orfano di Moro”, della sua qualità di leader politico. Moro gli aveva scritto un biglietto di grande stima nel ricevere il libro su De Gasperi, nel ’77 (biglietto ritrovato ora, insieme a tantissime altre carte nell’archivio depositato all’Istituto Sturzo), e aveva aggiunto che avrebbe voluto avere anche lui un biografo della stessa sensibilità. E’ quello che Tognon chiama “il mandato di Moro”. Di lì a tre anni Moro viene ucciso. Scoppola si fa quasi carico di inverare, dopo Moro, quel che Moro avrebbe voluto portare avanti. Ma sente di non esserne capace. E neppure riuscirà mai a scrivere quella biografia di Moro che il leader democristiano si era augurato che venisse scritta. A questa sua impossibilità dedica alcune belle pagine nella prefazione al libro che, nel 2007, raccoglie i suoi articoli su “Repubblica” (Coscienza e potere). Scoppola avrà sempre dentro di sé il cruccio di non aver capito per tempo che Moro poteva essere il successore di De Gasperi. Torna spesso sul sequestro di Moro, sulla linea della fermezza che egli aveva sposato, e sulle sue lettere, di cui dapprima aveva rifiutato di riconoscere la sua paternità (poi invece aderirà all’interpretazione di Carlo Alfredo Moro: nelle lettere c’è sì Moro ma non tutto Moro, la sua umanità ma non la sua linea politica). Tognon ha indivuato nella carte di Scoppola una trentina di testi su Moro, di cui venti inediti. Emerge in essi come Scoppola si fosse sentito distante da Moro sul tema di quella che egli chiamava “la Repubblica dei cittadini”, ma anche di come avesse colto la novità di Moro nella sua forte attenzione alla società, all’ascolto delle sue voci, e nel suo forte legame con la storia italiana.
Cecilia Dau Novelli ha ripercorso l’attenzione di Scoppola alla storia sociale, argomento che lo aveva interessato molto fin dai primi anni ’50, al tempo della sua collaborazione con Ettore Passerin d’Entreves alla rivista “Quaderni di cultura e storia sociale”. E uno degli motivi per cui apprezzò poi molto Moro fu proprio la sua capacità di osservare concretamente i fenomeni sociali. La storia di Scoppola è soprattutto storia dal basso – dice Cecilia Dau Novelli -, storia etico-politica, storia intessuta di storia sociale. Di qui anche l’interesse di Scoppola per il Censis e per De Rita. E, proprio per questa sua attenzione, sil suo far storia coinvolge anche la storia della chiesa.
Scoppola fu autore di una delle prime storie dell’Italia del dopoguerra. Il suo La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996) esce dopo la sintesi fatta da Paul Ginsburg e poco prima del libro di Silvio Lanaro. Ne ha parlato nella sua relazione Umberto Gentiloni. Il primo titolo cui aveva pensato era La cittadinanza incompiuta. Nella presentazione pubblica del libro (che fu molto recensito, ma anche molto criticato) Scoppola torna su Moro e su ciò che lo divideva da lui: dice che gli appariva troppo succube della mediazione parlamentare, della burocrazia dei partiti. Scoppola invierà, già l’anno successivo, al suo editore, il Mulino, delle correzioni e integrazioni (aveva “dimenticato” – annota – di dare il giusto rilievo a Beniamino Andreatta e a Romano Prodi); e, nel 1997, ne farà una seconda edizione. Fu davvero uno storico “problematizzante”, come suggerisce Gentiloni.
Di Scoppola e del “rapporto controverso tra partiti e cittadinanza” ha tenuto una relazione Angelo Ventrone, che ha spiegato la passione che Scoppola aveva per Irené Marrou e il suo libro La conoscenza storica. Scoppola lo citava spessissimo. Condivideva in pieno l’importanza che lo storico francese dava al capire i limiti entro cui si opera, i condizionamenti entro cui necessariamente ci si muove, e però anche le possibilità che vi sono di agire e di cambiare. Era quella che chiamava “la libertà nella consapevolezza”. E questa possibilità di cambiare Scoppola, fin dalla metà degli anni ’80, riteneva che risiedesse nella mobilitazione dal basso, nella forza dei valori morali, nella forza di una riforma culturale che sapesse leggere i limiti del consumismo. Superando la Repubblica dei partiti con la Repubblica dei cittadini. E operando una forte valorizzazione della cittadinanza e dei suoi diritti; perché – osservava Scoppola – se si negano i diritti poi si produce una cittadinanza che non ha neppure il senso dei doveri.
Carlo Felice Casula ha allargato la ricerca su Scoppola non solo al suo interesse e ai suoi scritti sul 25 aprile, la resistenza e la Costituzione (25 aprile. Liberazione, nel 1995, La Costituzione contesa, nel 1998), ma anche alla sua attività minore, feriale: quella di “maestro” (insieme a Leopoldo Elia) al collegio Villa Nazareth, lo studentato universitario romano guidato dal card. Silvestrini, e alle residenze autogestite degli studenti fuorisede sulla Tiburtina di cui si occupava il gesuita Pio Parisi. E poi i tanti incontri alle Acli (durante le segreterie di Macario e di Carniti) e alla Cisl. E la frequentazione con Gorrieri. E’ di questa sua non accedemicità e di questa passione per il dialogo con i giovani che ha dato conto Casula, notando come anche i due libri sul 25 aprile e sulla Costituzione egli avesse deciso di pubblicarli con Einaudi proprio per raggiungere un pubblico più largo, non solo accademico. Scoppola fu attivo anche nell’Istituto per la Storia della Resistenza. Scrisse che la cultura della Liberazione non aveva punti di arrivo, è una tensione utopica che tiene viva la democrazia e ne garantisce lo sviluppo. E polemizzò con Galli della Loggia che nel ’96 aveva scritto della morte della patria, con l’8 settembre.
Ha chiuso il convegno Emma Fattorini (“Diritti civili, laicità e atei devoti”). Annotazioni rapsodiche le sue. Ha messo in evidenza i temi nuovi e gravi su cui tutti ci si è dovuti confrontare all’inizio del nuovo secolo: in particolare il conflitto di civiltà e la biopolitica. Ha osservato che, certo, Scoppola ha diffidato della religiosità polacca di Giovanni Paolo II e ha polemizzato con Ruini per la posizione che la chiesa italiana ha assunto nel referendum sulla legge 40 e per l’accoglienza data agli atei devoti; e, più in generale, per il sostegno palese al centro-destra. E ha rievocato, in questo senso, i rischi di quello che Luigi Sturzo chiamava clerico-moderatismo, i rischi cioè dello scambio: consenso della Chiesa e legittimazione morale del potere in cambio di benefici e favori del potere medesimo. Ma ha anche lamentato il deficit culturale e teologico di “noi cattolici”; ha parlato di “diserzione” degli intellettuali cattolici; e li ha rimproverato di non aver saputo sostenere un dialogo serio con la Chiesa sui temi dell’inizio e della fine vita. Scoppola – ha affermato Emma Fattorini – ha percepito che la cultura dei diritti civili non era più adeguata per affrontare, ad esempio, la questione della procreazione assistita e della Legge 40 (già per l’aborto non era stata una questione di diritti civili come per il divorzio) e che non si potesse scambiare la disobbedienza come laicità e come un titolo di merito. Scoppola – ha ricordato in ultimo la Fattorini – è stato critico anche con i cattolici di sinistra perché non avevano il polso dell’anima profonda del popolo cattolico. Ha capito che si deve meglio indagare il tema del limite, la questione di una soggettività che finisce ormai con l’eccedere… E che, la laicità, bisogna imparare a declinarla sui temi nuovi.
https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2012/12/Scoppola.Il-cattolico-che-volle-il-Pd.pdf
23 Dicembre 2012 at 15:49
COMPLIMENTI PER I RIASSUNTI SINTETICI. BUON NATALE