Lavoro e cristianesimo. Un appunto

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Cinquant’anni fa sarebbe stato un argomento pacifico. Avevamo idee abbastanza chiare su entrambi i temi. Ora non è più così. Sia il lavoro che il cristianesimo sono diventati problematici e potremmo unire i loro problemi sotto lo stesso titolo: la perdita dei valori.

Prendo spunto da un episodio: un incontro delle Scuole politiche-sociali diocesane di tempo fa. Ad un incontro in provincia c’erano pochissime persone e scusandosi il prevosto diceva: “Qui la maggior parte delle persone frequenta la Messa; a Pasqua e a Natale la partecipazione è generale; se abbiamo bisogno di riparazioni alla chiesa in una settimana o due raccogliamo i fondi. Però sui loro affari, sui loro rapporti personali/sessuali, sulla politica, noi non contiamo niente, fanno quello che credono. Dunque: la religione va bene, è un rito che unisce la comunità e da conservare, un po’ di religione e di spiritualità non fa male, purché eviti di toccare i problemi della nostra vita, dove decidiamo noi”.

Ciò che in questo episodio si esprime a livello personale è un riflesso di quello che avviene organicamente, strutturalmente, a livello generale, della società intera.  E’ ciò che i sociologi chiamano “differenziazione funzionale”: nella società sempre più complessa, ogni campo, ogni settore, ogni disciplina, si specializza, si differenzia.  Questo processo è necessario per svilupparsi, ma la conseguenza inevitabile è la separatezza: ognuno procede per una strada propria e tanto più si specializza, tanto più si isola.

L’eccesso di specializzazione è un problema per tutti (e spesso viene criticato, ad esempio in medicina), ma è particolarmente grave per la religione, che ritiene di avere una verità, un senso che riguarda l’insieme della realtà. Invece la religione oggi non è più una realtà che comprende tutte le altre, ma si presenta come una realtà accanto alle altre, una tra le altre.

Non è neppure considerata pubblicamente come la più importante. L’economia (che comprende il lavoro, i consumi, la finanza), i mezzi di comunicazione (televisione, computer, cellulari), la scienza e la tecnica (basti pensare alla biotecnologia) sono vissute nella quotidianità come più importanti. Se penso ai miei viaggi quotidiani in metropolitana, solo una persona su cento legge la Bibbia o il Corano, l’altro 99% guarda facebook, messaggini e filmini.

Ma queste realtà così potenti, che tanto determinano della nostra vita, non sono portatrici di valori, in genere ne sono del tutto prive. Sono per così dire neutre, neutrali. Propongono solo traguardi quantitativi, cose sempre nuove, l’invito ad andare sempre avanti, ad avere di più, di meglio; non si preoccupano di avere dei riferimenti di valore.  Ciò porta ad una situazione di aridità, ad una condizione antropologica particolarmente povera, dove l’unico criterio di scelta rimane quello individuale, ma che avviene in un deserto di valori.  (E’ ciò di cui parlano Magatti e Giaccardi ne La scommessa cattolica).

La religione come sfera separata viene generalmente vissuta a “bassa intensità”, cosa che va bene a molti perché consente una gestione comoda, a propria discrezione; è una soluzione che si può considerare di adattamento alla situazione. Noi spesso siamo critici a riguardo, ma non si tratta di una posizione del tutto irragionevole, perché, se la religione non conta molto nella realtà generale, perché e come dovrebbe e potrebbe contare molto nella vita della gente?

Il pensiero di papa Francesco si pone con forza qui, in questo crocevia, in questo passaggio fondamentale.  E’ una critica molto esplicita di questa situazione comoda, di questa soluzione al ribasso, di questo cristianesimo minimo, per proporre invece la vita cristiana nella sua interezza. Si tratta nientemeno che di rompere questa separatezza tra la religione e gli altri aspetti della vita. Impresa gigantesca.

In questa prospettiva il papa affronta i problemi sia dall’alto che dal basso: dall’alto perché affronta con coraggio queste forze ultrapotenti come l’economia e la scienza e chiede che cambino in una prospettiva umana (e quindi chiede una vera e propria trasformazione del sistema); dal basso perché ritiene che solo un movimento dal basso che parta dalla gente e dai popoli e dalle condizioni reali di vita (terra, lavoro, casa) può portare a soluzioni più giuste.

Per il papa questi non sono discorsi “sociali” a sé stanti, non sono quello che la chiesa ha da dire sul sociale (questa sarebbe  “dottrina sociale”, cioè un discorso morale, di morale sociale); per il papa questi sono discorsi cristiani, di come essere cristiani nella realtà di oggi, nella società, nel lavoro. Non è un discorso morale, è un discorso di fede.

Si può leggere a riguardo il documento finale del Sinodo sulla Amazzonia. Ad esempio, il paragrafo 70. “Per  i cristiani l’interesse e la preoccupazione della promozione e del rispetto dei diritti dell’uomo, sia individuali che collettivi, non sono facoltativi. L’essere umano è creato a immagine e a somiglianza del Dio Creatore e la sua dignità è inviolabile. E’ la ragione per cui la promozione e la difesa dei diritti dell’uomo non sono solo un dovere politico o un compito sociale, ma anche e prima di tutto un’esigenza di fede. Noi non saremo forse in grado di modificare immediatamente il modello di sviluppo dominante, distruttore ed estrattivo, ma noi abbiamo bisogno di sapere e di indicare chiaramente dove siamo. E,  poi, a chi apparteniamo? Quale prospettiva adottiamo? Trasmettiamo la dimensione politica ed etica della nostra parola di fede e di vita?

 

Veniamo ora al lavoro. il mondo del lavoro attuale è pieno di problemi e già questo sarebbe un motivo di impegno, un motivo per buttarsi nella mischia. Ma, come abbiamo visto, per i cristiani c’è un motivo in più: la possibilità di una vita cristiana autentica passa da qui, passa dal lavoro, dall’economia, dalla tecnica, perché sono queste forze, queste realtà, che producono questo deserto di valori, che va affrontato.

Ciò significa che i lavoratori non hanno bisogno solo di risposte materiali, ma hanno bisogno che il loro lavoro e la loro vita abbiano un senso. Quindi l’mpegno per ricostruire un senso al lavoro è tanto importante per il lavoro quanto per il cristianesimo, è un’esigenza umana fondamentale.

Ma non possiamo sostenere l’idea del lavoro in astratto, perché il lavoro non è un’idea, è una realtà. Il valore del lavoro non può essere una pura idea teorica, deve essere una cosa che si può vivere, devono esserci forme di vita concrete che lo esprimano. E’ un lavoro ricostruttivo quello che si impone oggi, perché le finalità che ieri davano valore al lavoro oggi sono superate. Il valore del lavoro ieri consisteva: 1) nel senso di fare il proprio dovere, di comportarsi in modo giusto; 2) nel  creare un avvenire per sé, per la propria famiglia (era motivo di orgoglio realizzarsi). Oggi l’unico valore rimasto è la soddisfazione personale, quando è possibile.  E’ difficile oggi pensare di proporre un valore del lavoro che abbia un senso generale. Occorre probabilmente procedere per esempi differenziati, in campi diversi.

Per ridare senso al lavoro occorre comunque, almeno in prospettiva, operare su questioni di fondo, operare in termini di trasformazione (anche Zamagni recentemente ha parlato di trasformazione):

  • Perché il lavoro abbia un senso occorre operare in una società giusta che tenda a fini giusti. Se si fa bene il proprio lavoro in un’impresa sbagliata, c’è una contraddizione. Il contesto è importante e bisogna battersi per questo (aziende giuste, prodotti giusti, ambiente giusto, società giusta).
  • Il lavoro è concreto, quotidiano. Il lavoratore deve poter fare un lavoro dignitoso, che esprima valore, tutti i giorni. Qui il tema centrale è la partecipazione, che pone sempre di più la necessità di una riforma sostanziale dell’impresa.
  • Il deserto di valori favorisce l’individualismo estremo. Occorre sostenere e rafforzare tutto ciò che è sociale (fra cui l’economia sociale, i beni comuni, un sindacato che lavora per la vita collettiva, ecc.).

 

Sandro Antoniazzi

 

 

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