Vittorio Bachelet è morto quaranta anni fa, il 12 febbraio del 1980, ucciso da un comando delle Brigate Rosse all’interno dell’Università La Sapienza, a Roma, dove insegnava Diritto amministrativo. Da quattro anni ricopriva l’incarico di vice presidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm), e fu per questo suo ruolo di eminente rappresentante dello Stato che venne individuato come bersaglio da colpire. Aveva 54 anni. Eminente, il suo ruolo, lo era stato anche nella chiesa italiana: vicepresidente dell’Azione cattolica dal 1959 al ’64, e poi presidente nazionale dal ’64 al 1973, negli anni caldi del post Concilio. La sua uccisione, mentre conversava con la sua giovane assistente, Rosy Bindi, lo resero improvvisamente noto all’intera opinione pubblica italiana, cattolica e non. E la preghiera di suo figlio Giovanni ai funerali nella parrocchia romana di San Bellarmino – “vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri” – contribuì a suscitare attorno alla sua figura l’attenzione e la stima di tanti, che poco o nulla, fino ad allora, sapevano di lui.
Ogni anno, da quel febbraio del 1980, Vittorio Bachelet è stato ricordato nell’ambiente del laicato cattolico, in quello universitario e delle istituzioni dello Stato. In particolare, si è dato vita all’Istituto Vittorio Bachelet che anno dopo anno ha tenuto un convegno di studi in suo nome. Il 7 e l’8 febbraio scorsi, a Roma, si è tenuto il XL Convegno Bachelet. Un convegno che ha ricostruito soprattutto un aspetto della sua persona e della sua attività, un aspetto centrale, identificativo: l’essere un uomo della riconciliazione; e che ha cercato di trarne indicazioni per il nostro tempo presente. Si può partire – per rendere conto sommariamente di quanto emerso nel convegno – da due delle testimonianze ascoltate: una sul versante civile, quella di Luigi Scotti, già magistrato e componente del Csm, e una sul versante dell’Azione cattolica, quella di Gianfranco Maggi, allora vice presidente del settore giovani.
Luigi Scotti ha raccontato lo smarrimento che colpì l’intero Consiglio superiore della magistratura riunitosi all’indomani dell’uccisione di Bachelet. C’erano tutti, quel giorno, e si chiedevano, smarriti: “e ora che facciamo?”. Scotti ha voluto provare a spiegare il perché di quello smarrimento. Il Csm – trenta membri, venti togati e dieci laici, e tra essi ben quattro che diventeranno negli anni seguenti presidenti della Corte costituzionale – era, allora, una realtà difficile, attraversata da forti tensioni. Scotti ha ricordato che quattro anni prima, quando si era votato per eleggere il vice presidente (presidente del Csm, come noto, è il capo dello Stato), Bachelet, a lui, non era sembrato l’uomo adatto, e infatti lui aveva votato Giovanni Conso. Poi, però, si era ricreduto: Bachelet era stato capace di governare il Csm, una realtà difficilissima, conquistando la fiducia di tutti. Una volta eletto, aveva espresso con semplicità e nitidezza i principi su cui camminare – difesa a oltranza dei principi dello Stato di diritto, centralità e unitarietà della giurisdizione, autonomia e indipendenza della magistratura -, e soprattutto aveva esercitato il governo del Csm con una presenza instancabile, un ascolto attento delle opinioni di ciascuno (“Ogni intervento, diceva, conteneva almeno un pizzico di verità”), una grande capacità di analisi delle questioni e di sintesi, la fermezza nel ribadire che mai si poteva calpestare lo Stato di diritto (neppure in occasione della tragica vicenda di Aldo Moro, nel ’78). Uno dei suoi avversari nel Csm, Marco Ramat, parlò di lui come di un vero “costruttore di unità”, un maestro nel ricomporre i conflitti. Di qui, dunque, quella acuta sensazione di smarrimento…
Gianfranco Maggi ha raccontato di un altro scenario. Quando Bachelet divenne presidente dell’Azione cattolica italiana, nel ’64, l’Ac contava più di 3 milioni di iscritti; aveva quasi un migliaio di associazioni diocesane (ciascuna con la sua vita interna e le sue abitudini) e migliaia di associazioni parrocchiali. Il Concilio, conclusosi nel ’65, con le sue istanze di rinnovamento aveva spiazzato un po’ tutti, e soprattutto i rami adulti dell’Ac. Far transitare l’intera associazione verso la nuova mentalità promossa dal Concilio, conservando un’unità di fondo, era un’impresa ardua. Bachelet vi riuscì, ricorda Maggi, grazie alla sua capacità di mediazione, al suo impegno a cercare la convergenza di tutti ma in un cammino che guardava in avanti. Bachelet, di fronte ai numerosi momenti di conflitto tra – come lui li chiamava – “quelli del Vaticano I” e “quelli del Vaticano III”, tra chi frenava e chi voleva correre avanti, diceva che bisognava rifarsi al Vaticano II, e a tutto il Vaticano II non solo agli aspetti di esso che piacevano di più. I due anni di lavoro sul nuovo statuto dell’Azione cattolica, approvato nel ’71, furono una prova straordinaria di questa azione di mediazione, capace di far “convergere tutti, ma in avanti”. Si pensi anche solo – ha ricordato Maggi – alla difficoltà di passare da una struttura che, ancora nel 1969, aveva 470 dipendenti ad una struttura che, alla fine del ’73, quando Bachelet lasciò la presidenza, ne aveva solo 70 (di uno per uno di coloro che dovettero lasciare quel lavoro, che era non solo un’occupazione ma un lavoro amato, Bachelet– ha raccontato Maggi – si preoccupò di trovare una nuova collocazione).
Altre sono state le relazioni e gli interventi che hanno tratteggiato più a fondo la personalità, civile e religiosa, di Vittorio Bachelet, nelle due mezze giornate di convegno: la prima, dedicata alla presenza di Bachelet nella società e nelle istituzioni, coordinata da Gian Candido De Martin, presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto Bachelet, e la seconda, dedicata alla sua presenza nella chiesa del dopo Concilio, coordinata da Lorenzo Caselli, che dell’Istituto è il vice presidente.
Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea alla IULM, ha ricostruito per grandi linee le tappe della vita di Bachelet. Del periodo giovanile, tra fine anni 40 e primi anni 50, ha evidenziato la formazione fucina, meno politica e più legata all’etica della cittadinanza civile e della professione, l’attenzione al funzionamento della democrazia, lo studio del diritto amministrativo dentro il più ampio contesto della nuova Costituzione, la redazione e poi la condirezione della rivista Civitas, la adesione alla prospettiva politica di De Gasperi e dunque all’anticomunismo ma senza per questo difendere gli assetti sociali esistenti e con un’idea evolutiva della democrazia come processo da sviluppare, l’interesse per i temi della convivenza internazionale e della pace, un senso della patria che si accompagnava a una sincera apertura al mondo, il rispetto per gli avversari politici mai considerati come nemici definitivi. Del periodo dell’impegno nell’Azione cattolica e nella società civile, negli anni 60 e primi anni 70, Formigoni ha messo in luce in particolare la scelta religiosa, condotta senza rifiutare di alimentare la presenza dei cattolici nella società (Formigoni ha ricordato anche l’opposizione al divorzio) ma con l’attenzione a seminare i valori essenziali senza la pretesa di raccogliere subito i frutti della semina. Infine, ha ricordato il periodo del servizio alle istituzioni dello Stato in un periodo di crisi del Paese e di un certo immobilismo della Dc, nella seconda metà degli anni 70, quando Bachelet si è messo in gioco in prima persona sia nel Consiglio comunale a Roma sia nel Csm dove ha operato per ricucire i rapporti tra la magistratura e il Paese, fino a cadere vittima del partito della guerra civile. A quaranta anni di distanza dalla sua scomparsa Formigoni ha proposto di sottolineare dell’operato di Vittorio Bachelet soprattutto quattro aspetti: il senso della società come un insieme di realtà strutturate, oggi che prevale la retorica della disintermediazione; l’attenzione al tema di come tenere insieme principi e mezzi, e dunque all’esercizio paziente della mediazione, oggi che sembra essere venuta a mancare la capacità di mediare i principi con la realtà, con il possibile; l’idea di un’identità di cui non si può fare a meno ma che deve sapersi coniugare con le differenze, convivendo con esse e non contrapponendovisi; il rifiuto del linguaggio dell’inimicizia, usando fermezza con chi ha posizioni negative nei confronti della democrazia, ma senza scendere sul terreno della contrapposizione irriducibile.
Rosy Bindi, nel suo intervento, ha voluto ricordare alcuni tra i tanti insegnamenti ricevuti da Bachelet. Il primo e più grande è stato quello di guardare sempre positivamente ai tempi che si vivono. Un secondo riguarda gli anni dello scoppio della contestazione giovanile quando Bachelet spiegava che la disistima verso la libertà nasceva dal cattivo esercizio che veniva fatto dell’autorità: se non si rendevano i giovani, e in generale i cittadini, protagonisti delle decisioni, li si sarebbe spinti a non riconoscere il valore della libertà e a non amarla (e, a questo proposito, la Bindi ha ricordato il bel testo di Bachelet su De Gasperi, intitolato “Quidam de populo”, proprio contro ogni tentazione di leaderismo). Negli anni della guida dell’Azione cattolica Bachelet ha insegnato a tutti che compito primo non era di formare dei buoni soci dell’associazione ma piuttosto dei buoni cittadini della società e dello Stato. Infine, Rosy Bindi ha ricordato l’insegnamento del perdono e il rifiuto della categoria del nemico: la preghiera del figlio Giovanni il giorno dei funerali del padre – ha detto – è la continuazione di questa tenace testimonianza data in tutta la sua vita da Vittorio Bachelet.
Michele Nicoletti, professore di filosofia politica a Trento, già parlamentare ed ex fucino (era condirettore di Ricerca, giornale della Fuci, quando Bachelet fu colpito), ha sottolineato di Bachelet soprattutto il profilo spirituale, una spiritualità che era già nitidamente formata a vent’anni. Ha ricordato uno scritto del ’47 in cui sosteneva che i cattolici non possono essere nemici di altri uomini neppure quando operano il male e combattono la chiesa. Bachelet, ha sottolineato Nicoletti, considerava il comandamento dell’amore come un valore normativo per il cristiano. Nicoletti ha ricordato anche che in Bachelet si rifletteva una spiritualità dell’incarnazione, per cui la storia che si vive nel presente è la “nostra” storia, quella in cui ci è dato di calarci, e una spiritualità della croce, che gli faceva desiderare (con Rosmini) una chiesa purificata da ogni potere temporale. Infine, ha Nicoletti, in sintonia con le annotazioni di Formigoni, è tornato a sottolineare come per Bachelet la politica non fosse tutto, lo Stato non fosse tutto; c’era dell’altro: c’erano i poveri, la questione sociale, c’era il ruolo dell’università vista come luogo di libertà e di costruzione della comunità umana.
Marco Ivaldo, docente di Filosofia morale a Napoli, ha indicato alcuni punti di sintonia di Bachelet con papa Francesco. “Andare all’essenziale” era un’espressione che Bachelet usava spesso, ha ricordato Ivaldo. E, del resto, questo era anche il senso profondo della “scelta religiosa” dell’Azione cattolica da lui guidata. Significava assumere la sfida novecentesca del nihilismo e porre la questione del senso. Ivaldo ha accostato il discorso tenuto da Bachelet all’assemblea dell’Ac nel 1970 ad uno dei temi centrale dell’Evagelii gaudium: in quell’assemblea Bachelet aveva detto che l’Ac nel passato aveva fatto tante cose, ma che ora essa riteneva di puntare agli aspetti più sostanziali e profondi della sua missione; nell’Evangelii gaudium, manifesto del suo pontificato, papa Francesco ha scritto a più riprese che a conferire senso, bellezza e attrattiva al discorso cristiano è il nucleo essenziale del Vangelo. Concentrarsi sull’essenziale è il forte invito di Francesco, ed era la profonda convinzione di Bachelet. Da studioso di filosofia morale, Ivaldo ha sottolineato che Bachelet guardava non tanto alla dottrina quanto alla radice di quella dottrina stessa, e che egli avversava l’uso ideologico e politico del cristianesimo, pur non rinunciando allo sforzo di esprimere il Vangelo nell’ethos della vita (l’etica cristiana – ha commentato Ivaldo – è, in ultima analisi, dire sì a Dio). La scelta religiosa dell’Azione cattolica di Bachelet, secondo Ivaldo, è una prospettiva assai preziosa tutt’oggi: di fronte a società quasi per intero secolarizzate, nelle quali si diffonde l’opinione secondo la quale, che esista o no Dio, per l’uomo non cambia nulla, la scelta religiosa, in quanto portatrice di un moto di simpatia verso l’umano, costituisce il presupposto basilare per poter far valere la capacità del Vangelo di rispondere agli interrogativi profondi dell’uomo. La trasmissione della fede, secondo Ivaldo, deve avere la forza di assumere la negazione di Dio come un problema con cui essa stessa deve misurarsi continuamente.
Una delle relazioni centrali del convegno, quella di mons. Ignazio Sanna, arcivescovo emerito di Oristano, già assistente del settore giovani di Ac e poi del Meic, ha avuto Bachelet solo sullo sfondo, ma è stata ricca di spunti che all’itinerario di Bachelet, al suo lascito e alla vitalità per l’oggi della sua memoria sono direttamente riferibili. Sanna ha ripercorso a grandi linee il cammino della chiesa italiana post conciliare, i suoi piani pastorali, i suoi convegni decennali. Ha ricordato il passaggio un po’ amaro del convegno di Loreto del 1985 quando Giovanni paolo II preferì puntare sul tema della presenza e dell’unità politica dei cattolici. Da allora in poi, per qualche decennio, ha osservato Sanna, “si è perso tempo”; bisognava, invece, tornare al Vangelo, all’essenziale. E ha ricordato il discorso di papa Francesco alla chiesa italiana, a Firenze nel 2015, quando ha messo in guardia dalla tentazione (pelagiana) di troppi programmi e troppa burocrazia e da quella (gnostica) di uno spiritualismo disincarnato e autoreferenziale. Sanna ha sintetizzato il messaggio di papa Francesco nella richiesta, alla chiesa e ai cristiani, di operare tre conversioni: conversione ecologica in senso integrale, per superare il paradigma tecnocratico, come lo ha chiamato, che caratterizza la cultura e l’antropologia del nostro tempo; conversione sinodale, per assumere in pieno una cultura del dialogo, dell’ascolto reciproco, del superamento del clericalismo, della valorizzazione del sensus fidei del popolo di Dio; e conversione pastorale, ponendo la chiesa e ciascun cristiano “in uscita”, in dimensione di missionarietà, nella ricerca di far propri i sentimenti di Gesù – l’umiltà, il disinteresse, le beatitudini -, che sono quelli che danno spessore e senso ad un umanesimo che voglia dirsi cristiano, e che sono propri di una chiesa capace di riconoscere la presenza di Dio nel mondo. Le direzioni di marcia indicate da Francesco alla chiesa – ha osservato in conclusione Sanna – chiedono a tutti, e all’Azione cattolica stessa, una fede adulta. I laici devono passare dalla collaborazione con i loro pastori alla corresponsabilità, e va affrontato il problema della ministerialità femminile, facendo uscire le donne dalla ministerialità solo liturgica. Fede adulta, ha detto Sanna, è anche passare dal Dio dell’altare al Dio della vita, considerando lo spazio ecclesiale solo un luogo di transito verso il mondo (“il mondo – Sanna ha ricordato un’espressione di Alberto Monticone – è il monastero del laico”). Fede adulta è il passaggio da una comunità di cristiani praticanti a una comunità di cristiani credenti, e credibili. E questa è – lo si può dire – l’eredità stessa di Bachelet.
I “sentimenti di Gesù”, evocati da Sanna, sono riconoscibili in Vittorio Bachelet, ha detto in conclusione Matteo Truffelli, attuale presidente dell’Azione cattolica italiana. Truffelli ha ripreso i punti salienti dei diversi interventi, e ha spiegato che il titolo scelto per il convegno del quarantennale della sua morte – “Vittorio Bachelet, l’uomo della riconciliazione” – è stato dettato dal forte desiderio di reagire alla stagione politica e culturale in cui siamo immersi, e per la quale la diversità è ragione di scontro invece che di confronto. Reagire, sì, ma con lo spirito di Bachelet, ha detto Truffelli, con il suo sguardo positivo sul tempo che si vive, la sua fiducia nella possibilità, sempre, di riconciliarsi con il proprio tempo. Una lezione, questa, che anche il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, presente nella prima giornata del convegno, ha fatto sua quando, nel suo breve intervento di saluto, ha riconosciuto che solo ponendosi in attento ascolto dell’evoluzione della società si possono capire le cose e trovare le soluzioni.
Giampiero Forcesi
Per info: www.azionecattolica.it/istituto-bachelet