Ultima campana per l’Europa: da Lesbo e da Bergamo

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Due eventi intrecciati tra loro, apparentemente lontani ma quanto mai connessi, come tutto questo mondo in cui nessun può chiamarsi fuori: la crisi dei profughi sul confine greco-turco e la pandemia del coronavirus che si allarga sull’Europa e colpisce drammaticamente l’Italia. Perché connessi? A mio modo di vedere perché ambedue sono tipici esempi di eventi straordinari che mettono alla prova veramente le classi dirigenti, le società, le politiche.  E in particolare chiedono interventi all’altezza unica di una responsabilità effettiva, cioè quella che ai nostri tempi non può essere logicamente e praticamente la stanca retorica degli Stati nazionali, ma che dovrebbe essere una chiara responsabilità comune europea. Se non c’è Europa a Lesbo e a Bergamo, non c’è Europa per niente. I singoli Stati non possono far da soli: mi pare del tutto evidente che l’Italia del traballante governo Pd-5S, o la Grecia ancora prostrata dalla crisi del debito, ma nemmeno la solida Germania della stanca kanzlerin Merkel possono gestire da soli questi problemi. Una decina di migliaia di siriani in fuga dalla guerra sono un dramma per Lesbo e per Kastanies, ma non per un continente ricco con 500 milioni di abitanti che li distribuisca coraggiosamente e in modo efficiente e umano al proprio interno. Un intervento economico congiunturale di 25 miliardi di euro rischia di mettere in crisi i conti di un paese già sommerso dal debito come l’Italia, ma può essere una quota modesta di uno sforzo europeo per immaginare una risposta alla crisi economica innescata dall’emergenza sanitaria.

Ma a me pare che ancora una volta questi problemi sono strettamente connessi in un altro senso, ancor più sottile ma ai miei occhi ancor più decisivo. I governanti europei hanno progressivamente abbassato le esigenze e le richieste della solidarietà su casi come i migranti o le crisi (economiche e sanitarie), proprio per paura della protesta delle forti e crescenti minoranze sovraniste, per i vocianti e beceri nazionalismi che si diffondono nelle classi medie o basse europee. Con il risultato che la riduzione timorosa di un’Europa vivace e presente causa ancora più lontananza del senso comune dall’algida “burocrazia di Bruxelles”, e quindi ulteriori risposte critiche e fughe nella paura e nel disincanto antieuropeo: è un drammatico circolo vizioso che da anni non fa che peggiorare. Se l’unico volto dell’Europa è la presidente della Bce con la sua infelice battuta contro la solidarietà anti-spread, se ogni governo passa il proprio tempo a dileggiare i vicini (nel nostro caso l’Italia) prima di rendersi conto di avere problemi simili, se tutti pensano che l’unica scelta sensata sia chiudere le frontiere alla minaccia che viene da fuori e non attrezzarsi per le minacce capillari interne connesse al nostro regime di vita moderno, cosa volete che pensi il cittadino bistrattato delle periferie europee? Non l’illuminato e benestante borghese del centro storico, capace di fare i conti e di realisticamente valutare le convenienze e gli interessi, non colui che sa addirittura avere ancora compassione umanitaria perché la sua borsa se lo può permettere. Ma colui che senza risorse di comprensione e di solidarietà sociale vede un’economia soggetta da anni all’austerity, i propri figli annaspare nella gig economy, la presenza di immigrati vicini di casa fastidiosi da gestire, la minaccia incombente del virus a rendere ancora più tetro l’orizzonte? Penserà ancor peggio dell’Europa lontana e inutile.

La gravità della situazione attuale può essere allora paradossalmente la campana che suona per una svolta davvero epocale. Quello che politicamente sembrava impossibile fino a ieri, forse domani apparirà davvero l’unica saggezza. Il virus dimostra che non sono i profughi l’unico o il più incisivo problema: tutti siamo vulnerabili e siamo sulla stessa fragile barca. L’unica via possibile potrebbe diventare quella di un grande impegno di emergenza che colleghi i due problemi. Ricollochi rapidamente con i corridoi umanitari i profughi in Turchia. E al contempo lanci un progetto collettivo da tempo di guerra per combattere l’incipiente crisi economica collegata al coronavirus. Aumentando il budget europeo con indebitamenti mirati (anche senza discutere dell’impossibile condivisione dei debiti statuali), finanziando progetti di ricerca comuni e non esclusivi per le cure e i vaccini, coordinando la produzione e lo scambio rapido di articoli sanitari carenti, stimolando la conversione di lavoratori nei settori necessari, facilitando lo scambio di competenze, personale e risorse tra aree colpite e aree ancora relativamente al sicuro. Ma soprattutto accompagnando le misure imprenditoriali pubbliche concrete con un discorso forte e simbolico delle classi dirigenti che dica a tutti che l’Europa non si salverà se non insieme. Se questo non si vedrà nelle prossime pochissime settimane, credo che davvero sarà difficile salvare il progetto europeista.

 

Guido Formigoni

One Comment

  1. grazie

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