Il tempo di penitenza e di passione della quaresima sfocia nella Pasqua di resurrezione; il primo non ha senso senza la seconda, e il prodigio della Pasqua ha la sua radice nella passione da cui è stata generata. Lo crediamo, come cristiani.
Credo si possa leggere nella medesima chiave il tempo che stiamo vivendo. Anzi, sia che siamo credenti o non credenti, credo che il tempo del coronavirus dobbiamo leggerlo così, evitando di restare prigionieri della rassegnazione e dello sconforto. Si tratta di recuperare le risorse di umanità e di civiltà indispensabili al nostro vivere comune e che forse si sono annebbiate. Riscoprire il valore di ogni persona, di qualunque età e condizione, di qualsiasi razza e colore, l’indispensabilità della solidarietà, nella convinzione che, come ci ha detto papa Francesco, nessuno può salvarsi da solo. Si tratta di provare ad allargare la nostra prospettiva, di allungare la nostra capacità di vedere oltre il momento che stiamo vivendo ed oltre il nostro interesse immediato. Questa è la solidarietà su cui si fonda ogni convivenza che si proponga il bene comune. La ripresa sociale ed economica che tutti auspichiamo e di cui tutti parlano e straparlano è condizionata da questa riscoperta, da questa “resurrezione” di umanità, di civiltà. L’esperienza drammatica che stiamo vivendo lo mostra in modo palese.
Le misure di sicurezza a cui siamo costretti servono a proteggere noi ma sono indispensabili per proteggere gli altri, impedire il propagarsi dell’epidemia, salvare la comunità e quindi le altre comunità, di ogni dimensione e di ogni luogo, anche molto lontano da noi. Non ci si chiede di uniformarci per evitare di essere controllati e puniti ma di essere responsabilmente solidali. Abbiamo bisogno di tutte le risorse della comunità, competenze professionali, esperienza lavorativa, aiuto volontario, fino alle risorse economiche; e la possibilità di disporne dipende dalla disponibilità ad offrirle, dalla scelta personale di chi le possiede. Riscopriamo l’esigenza di riconoscere una cittadinanza a tutte le persone con cui conviviamo nel medesimo territorio, da qualunque provenienza siano giunte e a qualunque etnia appartengano, in particolare gli immigrati che abbiamo considerato come nemici, prima di incontrare il vero nemico da cui difenderci. Agli immigrati forse dovremmo chiedere scusa per averli esposti al pericolo di una infezione che abbiamo procurato noi: chi ha importato il virus dalla Cina non sono certamente loro ma piuttosto, probabilmente, i nostri uomini d’affari, i nostri turisti, espressione del nostro mondo capitalista che ci preoccupiamo di difendere dai “barbari”.
Non posso non pensare alla personale esperienza che la mia improvvisa disabilità mi ha fatto fare: ho bisogno di aiuto e l’ho trovato in immigrati miti, rispettosi del prossimo, desiderosi di pace, che non si ribellano ma si affidano a Dio da fedeli musulmani. Eppure sono reduci da storie drammatiche che sono restii a raccontare. “Cosa brutta” è l’espressione scarna e amara con cui sintetizzano le loro storie. Ne ho conosciuti a fondo due, entrambi artigiani con attività avviata nel loro paese, costretti a fuggire lasciando lavoro e famiglia a causa di un regime, formalmente democratico, ma corrotto, in cui la violenza, i ricatti ed il pericolo di morte sono quotidiani nei rapporti sociali. Quindi fuga dal proprio paese, fuga attraverso un deserto che fa paura, fuga da minacce di violenza in paesi confinanti, fuga dall’inferno della Libia, il barcone come via obbligata per tentare di salvare la propria vita, traversata drammatica con l’indispensabile soccorso per il salvataggio e infine approdo, spesso non programmato, alle coste italiane e qui accolti come pericolo da cui difendersi, considerati nemici… Gli immigrati non sono senz’altro tutti uguali ma quanti AT e LD, i miei due amici, ci sono?
Ma anche la politica deve riscoprire la solidarietà, condizione indispensabile per la vita ed il bene comune che rappresenta lo scopo e l’obiettivo della politica, a tutti i livelli. Quando papa Francesco parla della necessità di una politica con la P maiuscola e invita a praticarla penso che si riferisca a questo. Non si può permettere che i rapporti di convivenza siano regolati principalmente dalle leggi economiche, leggi che si basano sul principio dell’utile e del tornaconto, attribuendo una funzione subordinata all’uguaglianza dei cittadini ed al benessere sociale. La carenza di strutture sanitarie emersa in questa occasione ne è una prova. Anche la politica è una delle nostre indispensabili risorse, ma deve essere una “buona politica”: la nostra esperienza quotidiana ci fa vivere una politica fatta di polemica fine a se stessa, ispirata dall’intento di screditare chi ha il governo nella speranza di scalzarlo. In una situazione di grande disagio comune, di cui non si possono vedere con qualche certezza la durata, il costo e le conseguenze, appare stonata e deleteria una opposizione fatta di critica e di rivendicazioni esagerate e non ragionate, una competizione verbale permanente di uno contro l’altro piuttosto che una disponibilità di ciascuna componente a ragionare insieme sui fatti per capirli e per individuare le soluzioni migliori. La comunità ha bisogno, specialmente ora, di aver fiducia nelle istituzioni che la governano. Questa situazione, pur tragica, potrebbe farci riscoprire la politica come un servizio nobile e indispensabile per la vita della comunità, che richiede dedizione disinteressata, uso del discernimento, conoscenza delle cose e delle situazioni prima della parola, responsabilità. La nostra esperienza attuale non è esattamente su questa linea
E la indispensabile risorsa della solidarietà deve essere riscoperta anche nella grande politica, quella internazionale, a cominciare da quella europea: il progetto dell’Unione Europea è nato ed è fondato su un principio di solidarietà fra gli Stati che, da soli, non potrebbero sopravvivere dignitosamente in un contesto mondiale globalizzato in cui le grandi “potenze”, uniche a poter aspirare ad una relativa autosufficienza, sono destinate a comandare. E’ chiaro che la solidarietà richiede che qualche Stato, in determinate circostanze, sacrifichi un po’ del suo tornaconto immediato, anche in vista di un bene più duraturo; ma occorre la capacità e la disponibilità a vedere un po’ più in là del momento presente: se si ragiona esclusivamente con le leggi dell’economia, preoccupati del proprio interesse immediato, si corre il rischio della miopia.
La riscoperta del valore di questa solidarietà a tutti i livelli, da quello personale a quello sociale a quello nazionale e politico fino a quello internazionale, potrebbe essere il tempo pasquale che segue e conclude questo tempo di passione. I credenti, in particolare i cattolici democratici, credo abbiano la responsabilità di testimoniarlo per primi vivendo con questa fiducia il tempo del coronavirus, nella convinzione che ne possa derivare una rigenerazione della nostra democrazia. Per i cristiani la solidarietà ha radici profonde, nasce dal Vangelo che parla di primato dell’amore di Dio e del prossimo prima che di se stessi, di disponibilità a spendere la propria vita per guadagnarla. Ma lo stesso Vangelo non garantisce tuttavia che i credenti abbiano le idee migliori per risolvere la crisi: forse il coronavirus ci può aiutare a capire che i credenti non sono chiamati ad essere una parte distinta dagli altri ma ad essere piuttosto simili al seme del sesamo. Vogliamo augurarci che san Paolo abbia detto il vero quando ha scritto che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio!” (Rom. 8,28).
Pier Giorgio Maiardi