Questo contributo è stato scritto per i cattolici democratici milanesi, delle cui iniziative c3dem ha dato notizia di recente. Bianchi mette a fuoco una serie di questioni attuali per l’impegno dei cattolici democratici
Il posto (1961) è il titolo del secondo film di Ermanno Olmi. Un ragazzo di Meda, un paese della Brianza alla periferia di Milano, viene nella metropoli da una cascina dove non si lavora più la terra per sostenere una serie di esami in vista di un posto fisso di lavoro impiegatizio: per guadagnarsi la vita, metter su famiglia, avere un ruolo nella società e contribuire a svilupparla. Ce la farà, e le difficoltà e le ingenuità, il candore messi in rilievo dalla regia danno conto di una stagione della nostra storia che ha prodotto il boom economico, il boom delle nascite, e che avvertiamo oggi con una qualche pena da troppo tempo alle nostre spalle.
Ben altra, molto più difficoltosa e non di rado inutile la corsa al posto delle nuove generazioni. Per questo la “tirchieria mentale” (l’espressione fulminante è di Beniamino Andreatta) con la quale il ceto politico gestisce le proprie posizioni di potere risulta chiaramente indigeribile a milioni di italiani cui lo stipendio non basta per arrivare a fine mese, quando uno stipendio c’è. Là, in alto, invece un allegro sperpero di danaro pubblico. E anche le istituzioni che dovevano consentire una democrazia più prossima al popolo, come le Regioni, non fanno eccezione. Soldi pubblici per feste in maschera ai bordi di piscine notturne. Soldi per cene sontuose. Soldi perfino per le cartucce di un fucile da caccia. La protervia di Trimalcione tradotto in fretta e malamente nell’inglese dei cartoons come un Batman di quarta segata. Qui troviamo una delle molle della cosiddetta antipolitica come risposta alla sciatta ruberia della politica politicante.
Ma è così difficile prendere le misure e le distanze dal potere politico? Ha davvero ragione Giulio Andreotti quando proclama che il potere logora chi non ce l’ha? È il potere quella droga di cui si occupa in maniera plebea un diffuso proverbio siciliano? È almeno pensabile anche in questo caso una sorta di riduzione del danno? Vengono in mente il ricambio e la turnazione, senza i quali un sano costume democratico non ha punti d’appoggio e binari di indirizzo e contenimento. Atteggiamento che, anche nei più dotati, deve trovare al fondo la convinzione che la democrazia è il luogo dell’uomo comune (non dell’uomo qualunque). La democrazia fa i conti con l’albero storto dell’umanità e non con personalità fenomenali, soprattutto quelle che si autoproclamano tali con la boria dei pagliacci da baraccone. Brecht considerava sfortunato il paese che aveva bisogno di eroi. E David Maria Turoldo proclamava con la sua tonante schiettezza: Dio, cosa costano gli eroi!
Meno male che Pierluigi c’è… No, non sto rifacendo il verso al ritornello che l’Apicella di turno ha rabberciato per l’ennesima incensazione dell’Unto del Signore. E neppure tessendo le lodi di Pierluigi Bersani, trionfatore delle prime primarie italiane “contendibili”. Il Pierluigi del quale mi occupo è Castagnetti di Reggio Emilia, perché nella compagnia degli ex dc, ex popolari, ex Ulivo, con Franco Monaco, Arturo Parisi e pochi altri, ha deciso di non ripresentare la propria candidatura al Parlamento. Cupio dissolvi? Certamente no, ma faceva un qualche effetto assistere al passo indietro quasi contemporaneo di Veltroni e D’Alema – i dioscuri deputati dal destino a custodire la tradizione comunista rivisitata e divaricata in socialdemocrazia e riformismo maggioritario – mentre il filone democristiano e popolare non riusciva ad immaginare altra continuità che non fosse quella dell’impegno parlamentare.
Siccome agli ex popolari mi accomuna la convinzione del legittimo pluralismo delle scelte, devo anzitutto difendere la loro scelta, indipendentemente dal favore e dal tipo, perché in tema di pluralismo bisogna per prima cosa farsi carico del pluralismo degli altri, affermando che chi ha fatto scelte diverse da quelle auspicate lo ha comunque fatto, come s’usa dire tra noi, “per spirito di servizio”.
Asteniamoci dunque dall’atteggiarci a piccole spigolatrici dei problemi di coscienza (sono troppi!) e vediamo di mettere in fila i temi che la continuità e discontinuità dei ruoli istituzionali pone in questa fase politica caratterizzata da una lunghissima transizione che si vorrebbe orientata ad approdare finalmente a una ristrutturazione delle forze in campo.
Metto in fila i problemi, almeno i principali, etichettandoli uno ad uno.
Primo problema: è possibile oggi fare politica senza rivestire un ruolo istituzionale? Mi pose il quesito sul finire degli anni novanta del secolo scorso Mino Martinazzoli. Totus politicus, a dispetto di un temperamento shakespeariano e delle numerose frequentazioni letterarie, Martinazzoli aveva rifondato il partito di don Luigi Sturzo non candidandosi alle elezioni politiche del 1994 pur essendo il segretario del nuovo Ppi. Non aveva a noia il Parlamento; pensava semplicemente che il dopo Tangentopoli e i rapporti con alcuni amici di lungo corso democristiano esclusi dalle liste in nome del rinnovamento richiedessero una scelta siffatta: sofferta e dignitosa, probabilmente esemplare.
L’interrogativo tuttavia usciva dalla sfera personale per porre il quesito intorno alla possibilità di una presenza efficace al di fuori del professionismo politico. Quel quesito è tuttora irrisolto. Pochi anni prima, in uno splendido pomeriggio di giugno del 1993 sull’Appennino reggiano, don Giuseppe Dossetti, interrogato dalla rivista “Bailamme” sul senso della politica, aveva risposto senza tentennamenti che si trattava per il credente di “occasione” sottratta al professionismo. Escludeva Dossetti un impegno permanente che si protraesse per la vita intera. La condizione per lui è infatti “la gratuità, la non professionalità dell’impegno. Dove incomincia una professionalità dell’impegno cessa anche la parvenza di una missione e la possibilità stessa di avere realmente qualcosa da fare. Sono allora possibili tutte le degenerazioni”.[1]
Oggi, quando i vecchi colleghi mi chiedono a bruciapelo: “Adesso cosa fai”? Rispondo con un po’ di convinzione e un po’ di autoironia: “Il predicatore politico”. Ma il dubbio di Martinazzoli non mi ha abbandonato. Predicare politica, rivisitare storie e culture attiene seriamente alla politica? Non sono le decisioni – atteggiamenti cruciali del fare politica – troppo al di fuori della portata di quelli che sono lontani o esclusi dai luoghi della decisione? Sono tuttavia convinto che il territorio del “prepolitico”, a suo tempo individuato da padre Bartolomeo Sorge, sia consumato alle nostre spalle e la cultura politica faccia parte a pieno titolo del fare politica oggi, che la sua assenza non sia surrogata dall’immagine e che la mancanza di cultura politica abbia sostituito al vecchio soltanto il vuoto. I dubbi non si sono però archiviati del tutto.
Si tratta di un interrogativo in più che si somma alle domande che continuo a pormi sapendo di non avere risposte. Convinto comunque che solo a seguito di un’esperienza compiuta e presa una decisione ci si possa mettere in condizione di risolvere un problema teorico di non scarsa portata. L’interrogativo è del resto ineliminabile se si assume la prospettiva di un cattolicesimo democratico da rivitalizzare.
Gli esempi non mancano, e soprattutto aiutano a capire. Lascio Dossetti ed evoco due figure che ho conosciuto e frequentato e che, direbbe Crozza, “hanno raggiunto il top” con percorsi tanto esemplari quanto diversi tra loro: Oscar Luigi Scalfaro e Pietro Scoppola. Il presidente Scalfaro ha percorso dalla Costituente fino alla morte in quanto senatore a vita tutto il cursus honorum. Lo ha fatto con un profilo insieme etico e da credente unanimemente riconosciuto, anche dai non credenti, e perfino da molti avversari che non lo hanno certamente amato.
Il professor Pietro Scoppola è stato senatore per una sola legislatura (1983-87) eletto come indipendente nelle liste della Dc e ha preferito produrre libri e animare gruppi e associazioni (la Lega Democratica, novembre 1975) contribuendo fino alla fine, tra tentativi ed esperimenti, ad animare un’area culturale non priva di presenze giovanili. Scalfaro ha deciso nei momenti drammaticamente apicali della vicenda nazionale, è stato un esempio di rettitudine e di abilità col quale costantemente confrontarsi, e tuttavia non credo che all’interno dell’odierno PD sia rintracciabile un solo militante scalfariano.
Scoppola impersona l’altra metà del cielo cattolico politico. Con gli scritti, la partecipazione, gli incontri, cenacolari o capaci di impatto mediatico, ha influenzato il percorso di generazioni di cattolico-democratici. Due politici differentemente esemplari dunque, ortogonalmente diversi, presenti da credenti nella vicenda storica del Paese. Come mai oggi è così evidente il vuoto su entrambi registri da essi rappresentati? È ancora “attuale” per questa politica l’invito di Giuseppe Lazzati a preferire i “mezzi poveri”?
Secondo problema: la casta e i suoi nemici. La condizione generalizzata di un ceto politico che, pur di perpetuarsi ha rinunciato ad essere classe dirigente, ha fatto sì che il termine casta, inventato dal giornalismo martellante di Rizzo e Stella, sia in effetti diventato una categoria del politico italiano. I partiti politici e le loro correnti ne sono così attraversati da avere ingessato in maniera irreparabile il dibattito fino a cristallizzare irreparabilmente i rapporti e la mobilità interna. I cittadini, fattisi “gente” per estraneità, non si fidano più e il feeling democratico ai minimi livelli ha prodotto fenomeni di populismo aggressivo rappresentati dal grillismo, dagli arancioni in chiave giustizialista, dai populismi venati insieme di giovanilismo e dalle loro quasi inevitabili caricature.
Terzo problema: la rappresentanza e i territori. L’irrigidirsi delle correnti di partito in tribù ha condotto a termine il processo degenerativo della partitocrazia senza partiti. I riferimenti sono tutti interni e trasmettono il flusso del consenso soltanto dai vertici verso la base: ossia riducono la rappresentanza a rappresentazione di interessi corporativi e di corrente, mentre consolidano dirigisticamente il potere dei capi. Mai le cupole dei partiti italiani sono risultate così poco rappresentative, e mai hanno gestito senza controlli tanto potere e tante risorse.
Quarto problema: le primarie come passepartout. Le primarie si sono rivelate, in carenza di trasmissione culturale, l’ultimo ponte tra i partiti e gli elettori. Ma le primarie sono un comportamento collettivo all’americana praticato da un partito costituzionalmente europeo. Veicolano sentimenti di entusiasmo piuttosto che culture progettuali. Rivitalizzano l’attivismo della residua militanza e mantengono il ricordo nostalgico del richiamo della foresta di ideologie un tempo utili e legittimate, ma non possono essere assunte come sostitutive del dibattito. Possono anche trasformarsi in un congresso a intermittenza e a cielo aperto, ma lasciano paurosamente scoperto il problema della cultura di partito, di una visione del mondo – con la quale il partito si presenta al mondo (Weber) – e quindi di un idem sentire razionalmente fondato. In particolare la vicenda milanese, complici i tempi strettissimi, ha compiuto una improvvida dissacrazione delle procedure, fissando limiti di firme prima cervellotici e poi abbassando l’asticella di fronte alle difficoltà fino ad annullarla. Così le primarie vengono esposte al rischio della destrutturazione perché come tutti i comportamenti democratici le primarie non possono fare a meno, per consolidarsi, di un vero e proprio rituale: ancora una volta, il metodo in democrazia si rivela sostanza. E sono senz’altro meglio regole restrittive e discutibili, come quelle imposte da Bersani nel confronto con Renzi, che un’assenza di regole o il loro annullamento in corso di partita. Ancora una volta, soprattutto in questa fase politica, la cultura viene prima della rappresentanza. Senza il consolidamento di un costume e di un rituale le primarie finirebbero per apparire un taxi pronto per la rottamazione dopo l’esito elettorale. Un discorso che vale soprattutto per il destino del cattolicesimo democratico, che avendo puntato più sulla rappresentanza che sulla rifondazione culturale ha finito per smarrire se stesso. O la cultura politica proverà dunque a recuperare il tempo perduto, o lo strumento delle primarie finirà per esaurire le proprie potenzialità.
Le primarie sono state fin qui una benedizione. Dobbiamo però guardarci dai rischi di un loro uso improprio. Chi non si è battuto fino in fondo nelle aule parlamentari contro la logica del porcellum, pensando in cuor suo di trarne un qualche profitto, scaricando sugli avversari la responsabilità della sua mancata sostituzione, rischia di depotenziare ambiguamente l’uso delle primarie alla vigilia dei comizi elettorali. Risulta cioè poco o nulla credibile la loro capacità di “riduzione del danno” di quel medesimo porcellum col quale voteremo i prossimi candidati. I cittadini sospettano che un qualche residuo castale abbia presieduto alle mosse durante la grande sceneggiata che mandava in onda nelle aule parlamentari le prove di un cambiamento non desiderato della legge elettorale vigente. Sospetti senza fondamento? O suscitati dalla previsione di ulteriori pasticci castali nella compilazione delle liste? Rispondo alla domanda con un altro interrogativo: come mai tali sospetti non riguardano il Presidente della Repubblica e tutti i suoi reiterati e falliti tentativi di intervenire sulla materia?
Sono questi sospetti infatti che diminuiscono le potenzialità di ridurre i danni del porcellum e che in prospettiva riducono la meritata fiducia fin qui riposta sulle primarie come metodo e come comportamento capace di ritrovare una sintonia altrimenti perduta tra i partiti e la pubblica opinione.
Quinto problema: nell’apocalisse in scatola della transizione infinita italiana si è aperta una lotta mortale tra Cultura e Immagine, tra contenuti e comunicazione. La comunicazione infatti dilaga, soprattutto negli aspetti deteriori di una chiacchiera da talkshow, perché anche sul terreno comunicativo vale la legge di Gresham per la quale la moneta cattiva scaccia la buona.
Una cultura politica ha bisogno di solide radici oltre che di stilemi espressivi. Le è necessaria la continuità della conoscenza storica perché, come sosteneva Pietro Scoppola, se non si hanno dentro le domande la storia non parla. E solo alla cultura è dato di colmare la distanza tra libertà e democrazia, dove continuerebbe a pesare, sempre secondo lo Scoppola, l’ambigua eredità del Sessantotto: una rivoluzione culturalmente fallita ma politicamente riuscita.
Se la politica ha divorziato dalla cultura e dai propri intellettuali organici, ciò si deve al dilagare dell’immagine che in un primo tempo è sembrata in grado dilatare a misura del moderno i territori della politica, e in un secondo tempo ha provveduto a divorare quella politica della quale appariva il vettore.
La chiave per interpretare l’assenza di confine tra politica e chiacchiera la troviamo in un’opera alberoniana del 1963, L’élite senza potere, dove il sociologo milanese opera una chiara distinzione tra leader e divo. Oggi le leadership sono o introvabili o effimere perché sussunte all’interno dell’universo divistico. Noi non siamo più in grado di distinguere, e la politica di distinguere se stessa. Di una cosa sono comunque sicuro: non può darsi sviluppo del cattolicesimo democratico senza una cultura organizzata che raccordi i “mondi vitali” (l’espressione è di Achille Ardigò) e l’impegno istituzionale.
Sesto problema: un partito riformista (il PD) dichiara giustamente di essere in cerca di un riformismo possibile.
È risaputo che il capitalismo crea benessere, ma anche lo distrugge. Il suo compito (il suo Dna) è perpetuarsi, non assicurare all’umanità le magnifiche sorti e progressive o provvedere a ridurre le disuguaglianze: questa l’intenzione e l’anima – di un corpo senz’anima e tutto istinti – intuito alla grossa maniera dal Sessantotto devoto a Marcuse. Il mito del “sistema”. Ma non c’è un grande vecchio e neppure una sola chiave della macchina mondiale smarrita o buttata. Come il demonio, anche la critica può dunque utilmente lavorare nei dettagli e negli interstizi di questo capitalismo finanziario.
Si è a lungo definito “straccione” il capitalismo italiano. I suoi astuti adattamenti (così cari al Censis di De Rita) hanno conosciuto un welfare straccione al Sud del Paese, furbesco e sprecone, non proprio orientato allo sviluppo. Hanno fatto crescere una piccola borghesia urbana destinando gli “sprechi” alla coltivazione del consenso. Un corporativismo in più, ma anche un punto d’attacco per un riformismo che a sua volta non si accontenti di essere straccione girando lo sguardo dall’altra parte per non vedere i processi di proletarizzazione (i nuovi operai) che questa classe media attraversano. Anche per questo, non avendolo inteso, l’Italia entra nella globalizzazione nuda e confusa, vittima di una cultura politica provinciale e non di rado teatrale. Dove la sorpresa sgradevole non sono i comici che si atteggiano a politici, ma i politici che appaiono comici.
Settimo problema: che fine ha fatto la figura del Servizio? Il Servizio infatti è la grande figura della politica di ispirazione cristiana del secondo dopoguerra. Tiene insieme nel credente impegnato nello spazio pubblico la vocazione e la professione, la spiritualità e la laicità. Anzi, soltanto grazie alla figura del servizio, le due citate sono coppie sponsali e non poli in opposizione dentro la realtà del quotidiano.
Quella che dunque potremmo chiamare con un po’ di approssimazione la cultura cattolica del servizio entra nel Concilio Ecumenico Vaticano II dopo tappe faticose e contrastate sia sul piano della teologia, come su quello della prassi sociale, associativa e politica. La “persecuzione” vaticana nei confronti di Jacques Maritain e del suo Umanesimo integrale ne è l’emblema. Ma altrettanto emblematica è la rapida archiviazione del suo riconoscimento. Maritain ottiene alla fine del concilio dalle mani di papa Paolo VI il documento indirizzato agli intellettuali del mondo. La rivincita non poteva essere più esplicita ed appare a tutti come una dovuta remunerazione. Ma proprio con il concilio la Chiesa compie una sorta di sorpasso nei confronti della Democrazia Cristiana. Fino ad allora l’esperienza democratico-cristiana si era segnalata come una avanguardia all’interno della chiesa medesima. Ma sarà proprio il concilio a evidenziare che la stagione della cristianità si è conclusa e che una nuova fase si è aperta. Una fase alla quale paiono più attrezzate le chiese lontane dal Vecchio Continente. Le formule e i sistemi teologici e filosofici fin lì sperimentati e a lungo contrastati sono definitivamente alle spalle. Saranno i tentativi delle teologia della liberazione a indicare nuove piste di lavoro e di confronto. Detto con gli specialisti: non più un problema di ortodossia, ma di ortoprassi. Detto semplicemente: quel che conta non è sistematizzare, ridisegnare le compatibilità, ma ritentare sul campo e praticamente il rapporto tra Vangelo e politica.
Credo di potere aggiungere che, in una fase nella quale reputo necessaria una rifondazione del cattolicesimo democratico dopo la fine di un suo ciclo politico, essa non possa prescindere – quantomeno per gli aspiranti rifondatori – da un rapporto esplicito della prassi politica con la fede: da non dare per scontato e da non rimuovere. Non una politica cristiana e neppure gli schemi conosciuti della politica a ispirazione cristiana. Come allora? Proviamoci. La mia unica certezza è che non si possa prescindere dal rapporto “costitutivo” con la fede in Gesù di Nazareth, perché l’esigenza della testimonianza viene prima per il credente della necessaria professionalità.
Almeno quanto alla gerarchia delle priorità il Dossetti del giugno 1993 ha ragione delle mie esplicite professioni di weberismo. La fede, e la sua inquietudine totalmente laica, prima del rapporto con la visione maritainiana. In linea probabilmente con l’ultimo Maritain, che sulla porta della sua cella nel convento della Garonna aveva scritto: “Se la sua testa non funziona più, lasciatolo ai suoi sogni”.
Mi chiedo se una delle circostanze che abbiamo incautamente rimosso è che accanto a un’etica esiste anche, e corposa, un’ascetica del cattolicesimo democratico. Carlo Carretto quando sceglie i Piccoli Fratelli non rompe soltanto con l’onnipotenza del geddismo, ma esalta la sporgenza mistica di una cultura popolarmente radicata. Per cui ridurre la complessità del cattolicesimo democratico significa non solo mutilarlo, ma porre le condizioni di una sua estinzione. Ovviamente anche l’inquietante parabola dossettiana può essere traguardata da quest’ottica e il ritorno in campo del monaco di Monte Sole per la difesa della Costituzione non è soltanto il ritorno di San Saba nell’agone, ma la ripresa nella continuità di un aspetto agonistico della stessa complessità. Osservazione che comporta ulteriori indagini, sul confine delle quali chi più si è spinto avanti è Pino Trotta. Esiste un qualche rapporto di laicità praticata (sì, laicità) tra la grande tradizione del monachesimo e le forme associative e politiche del cattolicesimo democratico?
Perfino Mario Tronti, il filosofo dell’operaismo, ha provato recentemente a interrogarsi sulle affinità storiche tra la presenza diffusa del monachesimo e la potenza un tempo creativa del movimento operaio. Siamo soliti riflettere sul rapporto tra illuminismo e cristianesimo (Habermas e Ratzinger a Monaco di Baviera, 2004) dal punto di vista dell’utilità della religione per il mantenimento e lo sviluppo della democrazia. Stupisce che non si rifletta con pari lena sugli apporti della democrazia alla vita della Chiesa. Una concezione della politica che prova anzitutto ad evitare contaminazioni e confusioni affidandosi a delimitazioni confinarie. Ma storicamente – e non solo nel Bel Paese vista la presenza del Vaticano – Chiesa e Stato governano e contendono a diverso titolo lo spazio pubblico, al di là di una spartizione tradizionale che vede le religioni più presenti nel privato. Ma non solo. Due punti di respiro politicamente epocali la dottrina sociale della Chiesa ha mantenuto nel fuoco dell’attenzione: il lavoro e la pace. Andando in senso ostinatamente contrario rispetto alla deriva delle moderne sociologie del lavoro, che del lavoro mettevano soprattutto in rilievo l’uscita dai ceri, il Papa Polacco, pur segnato da un sofferto anticomunismo, ha mantenuto la barra di una centralità addirittura neolavoristica in encicliche che hanno segnato il magistero del pontificato: Laborem Exercens e Centesimus Annus. Per la Chiesa cattolica non si tocca cioè il principio che il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro.
Quanto alla pace, è dal primo gennaio del 1969 che le navate delle chiese cattoliche sentono risuonare a capodanno il messaggio e l’invito voluto da papa Paolo VI. E sulla scena internazionale è certamente la diplomazia vaticana la più coerentemente attiva nel proporre mediazioni e disegni pacifici pur in presenza di un riprodursi senza soluzione di continuità di conflitti sanguinosi. Non di rado in rotta di collisione con l’egemonia globale dell’unica superpotenza occidentale e “cristiana” (dove peraltro la gerarchia cattolica non recede da un’attitudine propositiva e interventista) che poggia il proprio dominio sull’esercito più potente che il globo abbia mai visto.
Il libera Chiesa in libero Stato è dunque soltanto una sistemazione cavouriana di stampo ginevrino-calvinistico in una fase della storia nazionale che si apre a un sentire europeo maggiormente segnato dalla Riforma. E non a caso la logica concordataria fu sempre vissuta con sospetto dalla Fuci e dall’intellettualità cattolica più spiritualmente attenta e progressista: ancora Dossetti, che teneva disperatamente fermo il rapporto tra riforma della politica e riforma della Chiesa, e vista l’immaturità dei tempi lascia a Rossena…
Ma non è finita, perché Giuseppe Dossetti non demorde e mi tallona come il fantasma di Banquo. E ripropone il rigore della vocazione con il massimo della professionalità disponibile, ma senza professionismo: questo è don Giuseppe. Come è possibile? E noi?
Giovanni Bianchi
[1] Su spiritualità e politica, incontro con Giuseppe Dossetti, in Giuseppe Trotta, Un passato a venire. Saggi su Sturzo e Dossetti, Cens, Milano, 1997, p, 109.