L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro

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In queste settimane si tende a riferirsi al dopo pandemia come una fase di ricostruzione e rinnovamento, che in parte si compara a quanto vissuto dopo la guerra e il fascismo.  Forse questo riferimento appare un po’ forzato, essendo la condizione del paese in quel tempo molto più difficile sia dal punto di vista sociale, che economico e politico.  Nonostante ciò, ci sono elementi interessanti che ci avvicinano a quel tempo, la riscoperta della politica, della solidarietà, la messa in discussione di modelli economici che hanno avuto importanti successi ma che forse non sono adeguati alla situazione, la volontà di discutere, a tanti livelli, il modello di sviluppo da qui in avanti, solo per citare alcuni aspetti.

Il lavoro, base della nostra Costituzione, appare quindi un ambito importante da dove cominciare ad analizzare una serie di aspetti della convivenza sociale, della politica economica, dei modelli culturali e politici e delle priorità che come cittadini auspichiamo per noi e per i nostri figli.

Il lavoro e la sicurezza economica

La più pesante conseguenza sulla vita dei cittadini dovuta alla tragedia del coronavirus è certamente la perdita del lavoro e quindi del reddito famigliare per una vastissima parte della popolazione e per tanta altra parte una forte riduzione del tenore di vita. Doveroso l’intervento assistenziale dello Stato cui si può anzi imputare qualche incertezza (micidiale per la credibilità delle istituzioni) e molti cedimenti allo strapotere della burocrazia. Assistenza, cioè sostegno economico che, per quanto in molti casi sia stato legato ad una pregressa produttività del soggetto beneficiario dell’aiuto, prescinde per principio da questa.

A questo intervento dovrà rapidamente seguire una vera, vastissima operazione di recupero e di rilancio dell’economia e del lavoro, insomma una robusta (molti usano il termine scioccante) svolta delle politiche economiche e del lavoro, dell’organizzazione dello stato, dei rapporti industriali; intanto l’assistenza dello Stato è servita e serve tutt’ora a lenire per quanto possibile gli effetti dell’impoverimento.

Rimane però una domanda, sottintesa e forse sottaciuta per il pudore di sollevare il tema in tempo di tanto dolore e di urgenze vitali: se l’operazione di assistenza al reddito non possa avere qualche negativo effetto collaterale se non si pone attenzione al fatto che nel lavoro del singolo risiede anche la garanzia del beneficio collettivo. In altri termini il poderoso intervento assistenziale, che segue a breve distanza il reddito di cittadinanza la cui componente di predisposizione alla ricerca di impiego è stata di fatto ignorata (ma lo era già nel concepimento del provvedimento), può indurre più o meno consapevolmente i beneficiari a scindere il diritto della persona ad una vita dignitosa (e quindi il dovere della collettività di garantirgliela) dal dovere di contribuire secondo le proprie capacità al bene ed al progresso della comunità.

L’etica del lavoro: la contribuzione di ciascuno di noi al benessere collettivo

Già da veri decenni, al fisiologico attenuarsi nel tempo della trasmissione a generazioni successive del principio etico del lavoro come il rimboccarsi le maniche per (ri)costruire il paese dalle rovine belliche e fondare solidarietà ed unità di intenti su nuove relazioni interpersonali ed istituzionali (cui non erano certo estranei né una concezione religiosa di popolo né la promessa liberatrice del materialismo storico), si sono aggiunte una cultura ed una prassi politica di progressiva conquista dei diritti dei lavoratori, in confronto dialettico con il datore di lavoro pubblico e privato per forzarne lo strapotere spesso ricattatorio, ma senza o con scarsa tensione pedagogica  all’affermazione che a tali conquistati (o perseguiti) diritti si dovessero accompagnare equivalenti doveri verso la collettività, pena la decadenza dei primi (di tale omissione non è privo di responsabilità il  movimento sindacale). Il concetto è che il lavoratore va garantito nei suoi diritti rispetto al potere (del padrone, dello Stato) e al corpo sociale; dove è la garanzia dei diritti del corpo sociale di avvalersi positivamente del contributo del lavoratore?

Parallelamente alla decadenza dell’etica del lavoro si è affermato in politica e nei rapporti sociali il principio suprematista del prima gli italiani che per gradini ascendenti arriva all’io prima di tutti, talché i due sono intrecciati in un rapporto inestricabile di causa/effetto; e non è detto che dalla contingenza COVID19  l’iniziale moto di solidarietà e di unità espresso ad esempio sui balconi (un sentimento assopito o addirittura represso dalla società competitiva?) prosegua nelle fasi di ricostruzione, ché anzi l’esperienza di tanti passati post-calamità raccontano di non rari nuovi egoismi.

 

Il lavoro nel contesto internazionale: libera circolazione?

Si discute molto del trasferimento di fasi produttive dai paesi industrializzati a paesi di minor sviluppo, perché i salari sono significativamente minori.  Evidentemente questo può interrompersi  creando situazione di conflitto commerciale, rompendo sistemi relativamente efficienti di produzione, più in la del semplice costo del lavoro.  Infatti, esistono una serie di fattori, non solo di costo del lavoro, che giustificano il trasferimento di alcune produzioni. Aspetti importanti sono le legislazioni medio ambientali, per esempio; altri sono di logistica rispetto a mercati specifici.  Quando il differenziale salariale è molto elevato, a parità di altri elementi, ha certamente un peso determinante nelle scelte di investimento.

Allo stesso tempo, credo che tutti noi, cittadini di paesi industrializzati,  grazie a questi differenziali godiamo non solo dei costi bassi di consumo, ma di servizi avanzati dato che maggiori risorse si possono dirigere a risparmio e in vestimenti.  Sarebbe una scelta coerente,  anche dal punto di vista etico come molti dicono, che si debbano poter accettare dei costi maggiori a cambio di salari maggiori nei paesi in via di sviluppo, che rallenterebbero lo spostarsi di produzioni in quei paesi.   Si potrebbe aggiungere che i salari maggiori in paesi in via di sviluppo aumenterebbero la domanda di prodotti più sofisticati, a maggior valore aggiunto, tipicamente prodotti dai paesi avanzati. Quindi sarebbe un vantaggio economico reciproco, non solo per non spostare produzioni a basso valore aggiunto, ma per creare società economicamente più stabili, anche in paesi in via di sviluppo (dove tra l’altro vive la grandissima maggioranza della popolazione mondiale).

Come fare muovere questi salari  verso l’alto non è solo una decisione politica.  Lo sviluppo dei mercati finanziari e la libera circolazione dei capitali ha insegnato l’enorme vantaggio e benefici che derivano da mercati aperti.  Certo, nel caso specifico andrebbero anche regolati per evitare posizioni opportunistiche ed eccessi per asimmetria di informazione. Il mercato del lavoro, appropriatamente regolato, può generare grandi vantaggi, ripeto se esiste volontà politica in prendere la responsabilità di regolazione.  Sarebbe interessante una lenta equiparazione dei salari verso l’alto, associata ad un aumento della produttiva’ per maggiore educazione ecc. ,

 

Il lavoro e il la sicurezza del paese: immigrazione

A questo tema si legano aspetti di sicurezza e di assicurazione di stabilita nel Mediterraneo, regione tanto importante per l’Italia, ma anche per l’Europa.  E inevitabilmente il trattamento del fenomeno migratoria entra in pieno in questa visione più ampia. Come recentemente affermava Leoluca Orlando, gli immigrati sono risorse, non costi, se effettivamente accolti e impiegati.  Sono portatori di conoscenze, in molti casi rilevanti; di capacità di lavoro ma anche di intraprendere nuove imprese e attività. E possono quindi anche svolgere questa funzione di lenta crescita di un mercato del lavoro più amplio, che superi il mercato nazionale (peggio il provinciale!).  Non per abbassare i salari, ma per svolgere lavori pagati secondo le regolazioni vigenti (questo è fondamentale lo stato e la società non possono abdicare a questa funzione: se lo si fa per i migranti presto lo si farà anche per i famosi italiani!).

Su questo tema si è molto discusso e studiato in Italia e all’estero. Credo che un analisi politica più ampia, non solo per esperti, ma per conoscenza e consapevolezza della società, sarebbe molto utile.  E su questo che si dovrebbe elaborare di più, per rendere più accettabile e comprensibili le posizioni avanzate sulla integrazione dei migranti, anche a beneficio del paese.

 

La tecnologia: la sostituzione di lavori pesanti, di precisione meccanica e ripetitivi con macchine

Il dibattito che spesso sorge sulla riduzione dei posti di lavoro dovuto alla deindustrializzazione, prima, e alla tecnologia, adesso, sembra essere molto importante proprio dal punto di vista sociale e politico, specialmente in un momento in cui si parla di ricostruzione e di nuovi modelli.

Esiste un forma di vedere la cosa, direi semplificatrice: i robot e la tecnologia sostituiscono lavoro e aumentano la remunerazione del capitale, concentrando ancora di più il reddito.  Ma possono esistere altri aspetti da considerare, come molte posizioni hanno espresso, anche in termini politici.  Esistono benefici sociali, la creazione di posti di lavoro a reddito maggiore, perché a maggior valore aggiunto; questo può anche determinare la possibilità reale di ottenere reddito sufficiente per meno ore di lavoro; la discussione, iniziata da Bill Gate, sulla tassazione  dei risultati economici degli investimenti tecnologici, considerando che spesso provengono da investimenti pubblici, e che permetterebbero un reddito di cittadinanza, su cui esiste un forte dibattito ormai anche tra gli economisti (reddito non inteso nella  versione italiana, ma invece più simile agli assegni famigliari, un diritto alla nascita).  Esiste la possibilità della creazione di nuove professioni, che stiamo già vedendo nascere e che interessano i giovani più degli anziani, spesso impegnati alla difesa di un mercato del lavoro prevedibile e statico.

 

Lavoro, innovazione, nuove forme di impresa e sostenibilità ambientale

Al tema dei giovani e del loro inserimento attivo nella società e nel sistema produttivo andrebbe dedicata una riflessione seria.   Lo sviluppo di tecnologie e il dinamismo e incertezza del mercato, anche del lavoro, non sono per se elementi negativi.  In generale, storicamente,  le società hanno reagito alle incertezze con nuove visioni di futuro e nuove soluzioni.  Queste soluzioni innovative non sono solo tecniche, o tecnologiche, ma politiche e sociali. Forse liberarsi di una serie di convenzioni e forme, può liberare una generazione nuova; questo non significa abdicare ad aspetti chiave di difesa e affermazione diritti umani o accettare sfruttamenti di posizione. Al contrario, spingere verso la ricerca di soluzioni innovative, forse anche di rottura con convenzioni sociali statiche.

Esistono forme molto innovative di fare impresa, con obiettivi che vanno più in la del profitto, ma senza perdere di vista il profitto, come le B-corporation, parte dell’universo delle imprese sociali, offrendo beni e servizi in forma nuova e beneficiando consumatori e produttori.  Tutto il sistema di commercializzazione è ormai a un punto di totale rottura con il passato; non si tratta di favorire salari e condizioni pessime ai riders, ma di difenderne chiaramente i diritti minimi del lavoro (la regolazione è la vera responsabilità politica alla quale non si abdicare), senza per questo considerare tutto un settore come fattore negativo allo sviluppo del paese. Infatti, adesso questa stessa tecnologia permette a tante micro imprese di commercializzare prodotti direttamente, senza passare da una quantità di intermediari, con potere di prezzo. Un cantante può registrare direttamente la sua canzone e cercare di diffonderla, e un disegnatore il suo fumetto.

E tutto questo avvicina la ricerca di soluzioni di sempre minore impatto ambientale. Inoltre, proprio il settore ambientale ha aperto una quantità innumerevole di attività e opportunità, dove i giovani sono spesso coinvolti. Dalla diffusione di servizi legati alla sostenibilità ambientale, energia, territorio, al ritorno importante alla agricoltura come attività tecnologicamente avanzata e a limitato impatto ambientale. Una nuova agricoltura fatta di produzioni specializzate, non necessariamente micro, ma certamente legate a territori specifici con vocazioni particolari.

 

Ecco quindi che il lavoro merita un’attenzione non secondaria che deve ispirare la rinascita del Paese, nella pedagogia della politica, nell’azione educativa, nei sistemi di controllo sociale, nelle motivazioni e nelle azioni dei singoli.

 

Antonio Coccia

Claudio Cortellese

 

giugno 2020

*Il presente testo è un contributo alla prossima Scuola estiva dell’associazione Rosa Bianca, di cui gli autori sono soci

 

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