Lo scorso 10 ottobre si è tenuto a Milano, presso il Circolo Acli di Lambrate, un Convegno sul lavoro, “Milano, città del lavoro dignitoso e partecipato”, con cui si è presentata pubblicamente alla città una nuova realtà politico-culturale, “Demos Milano”, che ha preso il nome da un’iniziativa già esistente, promossa inizialmente da persone provenienti da sant’Egidio, ma è andata poi esprimendo una propria autonomia e dei caratteri peculiari. Gli amici di Demos Milano dicono di sé: operiamo nel sociale, nel lavoro, nelle periferie, nel terzo settore, nel volontariato, ma ci lavoriamo con un orizzonte politico, cioè con l’idea di riportare questi problemi nella sede comunale.
Dunque – essi dicono – si tratta di stabilire rapporti diretti tra queste realtà, le persone che ne fanno parte e l’azione politica e amministrativa del Comune, superando il distacco e la separazione attuale.
Il Convegno sul lavoro, di cui viene riportata la relazione introduttiva di Sandro Antoniazzi (con il link alla fine ad alcune delle altre relazioni), qui vuole costituire un esempio di questo impegno, nella prospettiva di rimettere al centro di Milano il tema del lavoro, come una realtà tanto personale, quanto collettiva e politica. (red.)
È importante che la prima iniziativa di Demos sia dedicata al lavoro. Non si tratta di un fatto casuale. Ha invece un significato programmatico e ideale. Il lavoro e i lavoratori costituiscono, costituiranno, per noi un impegno permanente e prioritario.
La prima ragione di questo convegno nasce dalla constatazione della caduta impressionante del valore del lavoro, della sua svalorizzazione. Il titolo e i contenuti di un articolo della rivista “Il Mulino,” “Lavoro senza valore”, illustrano bene questa tendenza. Noi intendiamo impegnarci esattamente per l’opposto, per riaffermare il valore del lavoro, per ridare al lavoro senso, dignità, riconoscimento.
Il modello economico-sociale che nel dopoguerra aveva consentito un notevole sviluppo, la piena occupazione, un miglioramento generale delle condizioni di vita (i trenta anni gloriosi, come sono stati chiamati) è finito negli anni ’70 e ad esso è subentrata la realtà della globalizzazione che ha spostato altrove una larga parte dei lavori produttivi. Il lavoro è diventato terziario, frammentario, precario; si sono diffuse tante forme atipiche di lavoro che richiederebbero nuove regole, nuove soluzioni.
Sia la dimensione mondiale che la finanziarizzazione fanno sì che il valore sia prodotto o estratto altrove, così che diventano più difficili le rivendicazioni sindacali. La concorrenza internazionale si presenta come una “race to bottom”, una corsa al ribasso, naturalmente per i salari.
Questi cambiamenti, insieme al diffondersi delle nuove tecnologie, hanno di fatto emarginato e cancellato la classe operaia, che aveva le sue roccaforti nelle grandi fabbriche, che sono scomparse. Ma con la classe operaia è sparita anche l’idea collettiva del lavoro, il lavoro come rapporto sociale, da cui i lavoratori traevano la loro forza.
Da questi brevi cenni, emerge quanto sia ampio il lavoro ricostruttivo necessario. Ricreare una prospettiva valida e condivisa del lavoro, che possa costituire un punto di convergenza e di unione, favorire nuove norme e soluzioni, operare per un lavoro che abbia senso, che possa essere apprezzato: dunque un lavoro dignitoso, partecipato, libero.
Dignitoso innanzitutto nel salario e nelle condizioni. Per il salario va sostenuta la proposta di un salario minimo garantito che per essere efficace deve essere realizzato in accordo col sindacato e rapportarsi ai contratti nazionali.
Pensiamo ad un lavoro sempre più partecipato, dove il lavoratore sia non solo esecutore, ma possa esprimere al meglio le proprie attitudini e capacità; le nuove tecnologie e lo smart working dovrebbero favorire la partecipazione, non ostacolarla. Ma in prospettiva pensiamo anche che si debba modificare lo statuto dell’impresa, realizzando altri modelli di rapporti tra i lavoratori, la proprietà e la gestione.
Il problema del lavoro non è solo un problema sindacale, investe tutte le persone, l’intera società: in altre parole è un problema politico. Il sindacato, quindi, non può essere lasciato solo ad affrontare questi problemi: occorre creare una diffusa coscienza e consapevolezza nella società riguardo al lavoro. Una volta esistevano partiti operai, partiti dei lavoratori; adesso non c’è più nulla di tutto questo. Il nostro impegno è ricreare un’attenzione, un impegno e una visione politica per il lavoro e per i lavoratori.
Una seconda ragione di questo convegno è data dalla situazione attuale: oggi il lavoro è il problema numero uno di Milano e per questo motivo noi riteniamo che il Comune di Milano debba farne un suo compito prioritario. Non ci sono poche e semplici risposte risolutive a riguardo, piuttosto occorre sviluppare tante risposte diverse che nell’insieme rilancino la città.
Le attività del Comune sono molteplici e fra queste si tratta di individuare quelle che oggi possano avere effetti economici e risvolti occupazionali. Sono previsti investimenti nazionali ed europei rilevanti nell’istruzione, nella sanità, nel digitale, nella politica industriale: Milano deve farsi trovare pronta con progetti di fattibilità e immediatamente operativi. E poiché si parla molto di medicina territoriale, sarebbe opportuno chiedere un maggiore ruolo del Comune a riguardo.
Ma, al di là dei compiti specifici, in una situazione eccezionale come questa, pensiamo che il Comune di Milano debba assumere un ruolo di riferimento, di stimolo, di orientamento per l’intera città. È un compito da assumere subito, non possiamo aspettare i programmi elettorali della prossima primavera: si tratta di un programma di ripresa, di rigenerazione, di rilancio che deve essere attivato al più presto. Per questo è bene che Sala riconfermi subito la sua candidatura e prenda in mano immediatamente la situazione.
È il Comune che deve stimolare le notevoli risorse culturali, economiche, finanziarie, professionali presenti nella città perché contribuiscano a individuare nuove iniziative e soluzioni. Si è parlato di un Patto per il Lavoro, che noi immaginiamo non come un convegno o un documento, ma come una mobilitazione permanente delle energie disponibili. Ben vengano i tavoli e i confronti, ma ciò che conta sono le iniziative e i progetti che si mettono in campo.
Quello che possiamo fare noi – gruppo appena sorto e dalle forze ancora modeste, sia pure in crescita – è metterci in grado nei prossimi mesi di avanzare delle proposte, magari limitate ma concrete e nello stesso tempo mettere in atto alcuni servizi informativi e di incontro sul lavoro (di cui uno in questa sede), servizi che in rete con altre realtà analoghe possono costituire un fattore utile di conoscenza e di iniziativa. L’idea poi di svolgere un ruolo di connessione tra le diverse realtà sociali e del terzo settore costituisce una delle nostre finalità essenziali e anche un metodo di lavoro costante.
Un terzo motivo del nostro convegno è che per rivalutare il lavoro occorre rafforzare e potenziare il pensiero sul lavoro, occorre che il lavoro ritorni ad essere studiato, analizzato, approfondito; che si elaborino nuove idee, nuove prospettive e che si aprano dibattiti pubblici a riguardo. Aveva ragione Axel Honneth, della Scuola di Francoforte, che anni fa diceva: da quando gli studiosi hanno capito che la classe operaia non sembra destinata a fare la rivoluzione, hanno smesso di studiare il lavoro. Mentre oggi sono molti i motivi per studiarlo di più.
Così ci troviamo ad affrontare un tema come lo smart working senza adeguati strumenti contrattuali e anche solo di conoscenza, per poterlo inquadrare e riportarlo a una dimensione normale, evitando esagerazioni.
Il tema dell’orario di lavoro che era in auge negli anni ’70 (“lavorare meno, lavorare tutti”) è stato abbandonato e da anni non se ne parla; se non è attuabile una riduzione generalizzata, si possono pensare soluzioni di riduzione modulari e flessibili, abolendo il più possibile gli straordinari, introducendo tempi parziali più consistenti e così via. C’è bisogno di superare una cultura tradizionale, propria di un’epoca del tutto diversa, sempre meno adeguata alla situazione attuale. È un tema da riprendere con forza, di fronte alle innovazioni tecnologiche ed a un lavoro che tende a rarefarsi.
Sono emerse poi tante forme di lavoro nuove che gli stessi giuristi non sanno come classificare e che richiedono normative ad hoc che sono da predisporre, innovando e sperimentando.
Più a fondo si pone un problema che appare teorico, ma che ha enormi conseguenze concrete: eravamo abituati a misurare il valore del lavoro in termini fisici, materiali. Ma come misurare il lavoro cognitivo, il lavoro informatico, il lavoro di cura, il lavoro educativo, il lavoro relazionale che oggi costituiscono la gran parte del lavoro e che per loro natura presentano un carattere immateriale?
Anche l’impegno culturale sarà dunque una dimensione essenziale a cui dedicarsi.
Tante volte si è parlato di Milano come capitale del lavoro; è bene oggi qualificare questa espressione. Milano dovrebbe mirare a un obiettivo più ambizioso, diventare una città esemplare per il lavoro, in Italia e in Europa, la città, appunto, del lavoro libero, dignitoso e partecipato. Milano dovrebbe costituire un modello ideale di come deve essere una città del lavoro. Questo è per noi il vero programma di Milano per il prossimo futuro.
Ora lascio la parola agli altri amici. Devo solo aggiungere che ci sono temi importanti, come quello del lavoro degli immigrati e del ruolo del terzo settore, di cui non ci siamo dimenticati; sono per noi così importanti nella nostra attività che intendiamo dedicarvi degli incontri specifici, naturalmente con la partecipazione dei diretti interessati.
Sandro Antoniazzi
Tommaso Senni, “Esperienze di servizi per il lavoro”
Anna Ponzellini, “Problemi e prospettive dello smart working”
Marzia Pontone, “Quale ruolo per il Comune di Milano?”
Hanno partecipato inoltre: Luca Caputo, Aldo Bonomi, Massimo Ferlini, Marco Carcano, Gianluca Alfano, Francesco Prina