Il problema delle RSA, occasione per una riforma umana sostanziale

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Fra gli effetti più tristi e incresciosi della pandemia va indubbiamente annoverato l’elevato numero di vittime nelle residenze per gli anziani, le RSA, che sono così balzate sventuratamente agli onori della cronaca.

I fatti sono stati talmente gravi da provocare una reazione indignata, che è giunta a chiederne la chiusura; affermazione perentoria da non prendere alla lettera, ma da tradursi in un risoluto impegno ad evitare ogni ricovero che non sia assolutamente indispensabile, rafforzando a questo scopo sia l’assistenza domiciliare sia le possibili soluzioni alternative.

Ma non di questo intendo parlare. A me sembra che questa sia soprattutto l’occasione per una profonda, coraggiosa e radicale riforma dell’intero settore, una riforma che bene può collocarsi, come spirito, nella concezione di nuova economia propugnata da Papa Francesco.

Questa riforma dovrebbe realizzarsi, a mio modo di vedere, sulla base di quattro principi fondamentali.

Primo. Escludere dal settore le aziende private che perseguono il profitto.

Il settore dovrebbe essere riservato all’operatore pubblico o al privato sociale (terzo settore, aziende benefits, fondazioni). Poiché oggi è presente una discreta quota di aziende private for profit, questo principio andrà realizzato nel tempo, iniziando a non concedere più concessioni ai privati e avviando un graduale processo di riconversione.

Lo scopo di questa proposta è iniziare a dar vita ad una vera e propria “Seconda Economia”, dalle caratteristiche diverse da quella che si svolge per profitto, realizzandola in un campo che per sua natura dovrebbe escludere una logica economicistica e dove invece dovrebbe prevalere una dimensione di attenzione alla persona, dunque un’economia umana, un’economia al servizio dell’uomo.

Secondo. Le RSA oggi sono molto costose. A Milano mediamente il ricovero di un anziano in RSA costa alla famiglia almeno 2.000 euro. Una certa quota, la parte sanitaria, è a carico del fondo regionale che in Lombardia contribuisce attualmente per il 40% del costo totale. I sindacati tanto a livello regionale che nazionale chiedono un intervento statale più massiccio o perlomeno un contributo maggiore. Si tratta, evidentemente, di cifre significative.

Per questo a me sembra che anche in questo campo sarebbe opportuno innovare profondamente, realizzando un grande fondo mutualistico regionale, per il quale chiedere il concorso di tutti i cittadini dai 18 ai 65 anni; il versamento di una quota annua di 200/300 euro a persona sarebbe sufficiente per coprire le spese di ricovero per tutti i casi indispensabili.

Si potrebbe iniziare coi fondi contrattuali già in essere e con una campagna di adesioni volontarie. Poi man mano si completerà il sistema, che deve essere decentrato per provincia e contemplare la partecipazione degli utenti.

Il mutualismo, a differenza delle tasse pubbliche, è un onere connesso a uno scopo preciso controllabile e prevede la gestione degli interessati.

In questo modo, oltre a risolvere un problema oggi angoscioso, si realizzerebbe una grande iniziativa comune di coesione sociale della collettività, sia a livello regionale che locale.

Terzo. Le RSA devono essere collocate nel comune di residenza degli anziani. A Milano, per fare un esempio, succede a volte che alcuni anziani siano inseriti in strutture a 30 o 40 chilometri di distanza (nel pavese o nel cremonese) perché le rette sono inferiori.

Ma in questo modo si allontana l’anziano dalla sua comunità. Invece l’anziano è membro tanto della sua famiglia quanto della comunità di residenza.

Il Pio Albergo Trivulzio, la tradizionale casa milanese per gli anziani, alla sua fondazione era collocata al centro di Milano e così l’Ospedale Maggiore, la Ca’ Granda (che in pratica era l’Ospizio dei poveri). Questo per dire l’attenzione che la città aveva nei confronti delle sue persone bisognose. Ora invece si mettono in posti lontani, possibilmente poco visibili, in modo che non siano di peso.

Occorre a riguardo una rivoluzione umana: case di riposo comunali, di quartiere, di zona, dove anche la popolazione, gli amici, i vicini, oltre alla famiglia, possano accedere e visitare gli anziani, mantenendo rapporti con loro.

Naturalmente a queste RSA devono essere affiancate strutture socio-sanitarie sul territorio, che realizzino un’attività di prossimità, sia domiciliare, sia di servizi facilmente accessibili.

Quarto. Da ultimo una grande riforma deve riguardare anche il personale.

Per risparmiare sui costi è costume delle RSA utilizzare cooperative di lavoro, composte in larga misura da persone immigrate. Conosco delle situazioni di RSA dove questi immigrati vengono pagati 3 euro all’ora. E soprattutto a questi immigrati si chiede esclusivamente il lavoro “fisico”, quasi che le RSA fossero una fabbrica produttiva.

Ora il lavoro in una casa di riposo è certamente anche un lavoro materiale, ma è innanzitutto lavoro con le persone, lavoro che ha una dimensione relazionale, affettiva, di attenzione essenziale: è la parte più rilevante del lavoro, è il carattere che distingue il lavoro di cura delle RSA.

Dunque anche il lavoro merita una profonda rivisitazione: va contrastato il prevalere dell’aspetto produttivistico a scapito della cura alle persone, che deve avere la priorità e informare l’intero mondo della RSA.

 

Ho ben presente che si tratta di proposte radicali che richiedono un impegno di molti e un cambiamento generale di mentalità. Ma pensiamo che le cose debbano rimanere sempre uguali? Non concepiamo che ci possano essere delle soluzioni migliori? Non riteniamo che sia possibile lavorare per una vita comunitaria più umana e migliore per tutti? Non crediamo che sia ora di occuparsi seriamente degli anziani che crescono continuamente di numero esprimendo un arco di bisogni che spesso non trovano risposta o solo risposte miserrime?

 

Sandro Antoniazzi

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  1. Credo di dover ringraziare Sandro per aver richiamato l’attenzione su un problema, quello degli anziani e delle RSA, troppo spesso ignorato e altrettanto spesso relegato in ambito privato, quasi a dire “chi ha il problema se lo risolva”.

    Penso però siano opportune alcune precisazioni e integrazioni alle sue ipotesi, anche perché nel tempo e alle spalle dell’attuale rete delle RSA lombarde ci sono interventi normativi (Leggi regionali, Atti di programmazione, Regolamenti, Delibere della Giunta Regionale, ecc.) che, spesso sono anche l’esito di intese sindacali e, nel bene e nel male, ne hanno definito il quadro normativo di riferimento e modellato la loro immagine e il loro sviluppo.

    Anzitutto una precisazione fondamentale: è stato per iniziativa di CGIL, CISL e UIL regionali della Lombardia se alla prima legislatura regionale di Formigoni non sono passate le sue ipotesi di riordino del sistema dei servizi di tutela della salute contenute in due progetti di legge: il primo sul sistema sanitario che smantellava ciò che si era costruito negli anni precedenti, e il secondo sul sistema socioassistenziale concepito come totalmente autonomo.

    Dopo un lungo confronto durato 14 mesi, sostenuto anche da forme di mobilitazione originali, si è pervenuti ad un’intesa sottoscritta tra le parti che ha consentito di definire e approvare la L.R. n. 31 del 1997, così titolata: “Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali”.

    Qualora si volesse ricostruire il percorso di attuazione di questa legge, che già con i primi passi della sua attuazione manifestava una divaricazione importante tra il modello di servizio sociosanitario “annunciato” dalla legge e quello “attuato”, torna utile la pubblicazione distribuita al Congresso della CISL della Lombardia che riporta tutte le intese che, nel merito, sono state sottoscritte con la Giunta Regionale dal 2001 al 2005.

    Di quella legge regionale e degli atti successivi due aspetti di politica sociosanitaria erano strategicamente importanti:

    1) L’integrazione sociosanitaria intesa come integrazione tra il sistema dei servizi sanitari e il sistema dei servizi socioassistenziali deputati alla tutela della salute delle categorie deboli e a rischio di emarginazione: Anziani, Handicappati, minori, tossicodipendenti, ecc., al fine di creare un percorso di continuità assistenziale in grado di rispondere alla domanda di salute di queste persone a prescindere dalle competenze assegnate ai diversi sistemi di servizi. Se dell’integrazione questo è l’aspetto importante, non meno importante è come misurare il costo delle prestazioni sanitarie di cui le persone hanno bisogno e che come tali devono essere poste a carico del Fondo Sanitario e anzitutto come misurare il costo delle prestazioni socioassistenziali da porre a carico del Fondo Sanitario in quanto, senza queste, le prestazioni sanitarie non producono risultati apprezzabili.

    2) Ma l’integrazione sociosanitaria è anche un modello che integra le prestazioni territoriali con quelle specialistiche e residenziali sulla base del principio che sia il ricovero ospedaliero, ma ancor più quello nelle RSA o nelle altre tipologia di istituti socio assistenziali, è da considerarsi come l’ultima delle possibilità dopo che tutte le altre, finalizzate a mantenere la persona al proprio domicilio organizzando e portando i servizi a questo livello, hanno esaurito le loro potenzialità e la loro efficacia. Questo è l’anello debole di tutto il sistema “attuato” che ha ridotto di molto anche il poco che esisteva in termini di servizi territoriali mentre doveva essere fortemente sviluppato e incantivato.

    Nel merito, in Lombardia nel periodo che va dal 1997 ad oggi, il superamento della visione “ospedalocentrica” o “RSAcentrica” del sistema dei servizi andava superato con una forte riorganizzazione e sviluppo dei servizi territoriali che avevano il loro punto di riferimento organizzativo e funzionale nel distretto di base. In realtà la riduzione dei posti letto ospedalieri è avvenuta tanto che il sistema pubblico ha perso ben 16.000 posti letto su 36.000 mentre il settore privato è passato da 8.200 a 10.400 posti letto.

    Nel contempo i posti letto nelle RSA sono passati dai 37.000 del 1997 ai quasi 70.000 attuali, sviluppo in gran parte dovuto all’ingresso in questo settore del privato profit autorizzato e quasi tutto accreditato con la Regione Lombardia. Dal punto di vista formale tutte le RSA siano esse pubbliche o private per poter operare devono essere “autorizzate” cioè rispettare tutti i parametri strutturali e organizzativi definiti dalla Regione, e se “accreditate” ne devono possedere di ulteriori. L’accreditamento è la condizione per la quale il Fondo sanitario interviene nel finanziare le prestazioni sanitarie e dunque contenere le rette di degenza.

    Si può certo discutere di pubblico/privato, ma credo che nella situazione attuale valga sempre il detto “non importa il colore del gatto, l’importante è che prenda i topi”. Ciò per dire che sia il pubblico ma anche il privato hanno una ragione di essere se e in quanto rispondono agli standard, ai criteri e alle indicazioni che l’ordinatore generale pubblico, i governi ai diversi livelli, definisce per il funzionamento e l’accreditamento. Il vero problema allora sono i controlli e le verifiche relative al rispetto di tali standard, criteri e indicazioni.

    A mio giudizio, convenendo sulla assoluta necessità di rivedere e riformare il sistema delle RSA, occorre riprendere le intuizioni, i principi e i criteri contenuti nella L.R. n. 31/1997 e su questa base misurare la distanza che esiste tra quel modello e la realtà attuale essendo questa la condizione per definire il cosa fare per riformare e adeguare il sistema dei servizi di tutela della salute alla mutevole domanda di salute delle persone, in particolare di quelle più deboli.

    R. Vialba

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