In un precedente intervento avevo ricordato che le proposte del sindacato sulla riforma sanitaria tendevano alla costituzione delle Unità Locali e dei Servizi Socio Sanitari. Cioè, a monte dell’ospedale si prevedeva la diffusione dei servizi di prevenzione e di strutture ambulatoriali nel territorio capaci di fare da filtro rispetto alla spinta al ricovero ospedaliero e, a valle, si prevedeva la diffusione e la qualificazione dei servizi di riabilitazione e di assistenza domiciliare medico-infermieristica.
Con la tragedia del Coronavirus si è cominciato a ridiscutere di questioni sanitarie. Tra i diversi interventi che si sono succeduti negli ultimi mesi vorrei soffermarmi sull’articolo di Marzio Bartoloni, giornalista de Il Sole 24 ore, uscito il 27 dicembre scorso, con il titolo “Un sistema da ripensare partendo dal territorio”.
Durante l’emergenza si è potuto constatare che ai tagli nelle strutture ospedaliere, effettuati negli anni passati, non ha corrisposto un incremento negli investimenti sul territorio, e si sono determinate notevoli differenze tra le Regioni. A tal fine egli cita l’esempio, positivo, della Toscana e l’Emilia Romagna.
Il modello toscano è quello delle “Case della salute”, dove intervengono anche i medici di famiglia insieme a infermieri e altri operatori in micro-team. Si tratta di un medesimo spazio fisico dove trovano allocazione i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie e sociali per una determinata e programmata popolazione.
Ancora più complesse, continua Bartoloni, le prestazioni fornite dai cosiddetti “Ospedali di comunità” emiliani. Si tratta di strutture intermedie tra l’assistenza domiciliare e l’ospedale, riservate ai pazienti cronici che non hanno necessità di essere ricoverati in reparti specialistici, ma necessitano di un’assistenza sanitaria che non potrebbero ricevere a domicilio.
C’è poi un altro problema, che sperimenta chiunque venga sottoposto a un intervento chirurgico: riguarda la continuità assistenziale tra il momento del ricovero in ospedale e la fase post operatoria, quando il paziente dimesso si trova isolato in casa, mentre avrebbe bisogno di un rapporto stabile o con l’ospedale di provenienza o con una struttura territoriale che se ne faccia carico. Una questione ancora da affrontare.
Salvatore Vento
N.B. Chi è interessato può vedere i seguenti contributi pubblicati su c3dem lo scorso ottobre: Gavino Maciocco, “Imparare dalla pandemia” e “Case della salute da campo” (Salute internazionale.it). Marco Geddes, “Piano nazionale per l’assistenza socio-sanitaria territoriale”.