Il primo ministro etiopico Abiy Ahmed, primo ministro dell’Etiopia dal 2018, premio Nobel per la pace nel 2019 per lo storico accordo raggiunto con i “nemici” dell’Eritrea, è divenuto il protagonista di una guerra civile, provocata dalla volontà di ridurre il peso politico della potente minoranza tigrina. Con conseguenze terribili sulla popolazione del Tigray.
La testimonianza di un giovane italiano che vive e lavora da anni ad Addis Abeba. (E per saperne di più)
Nell’agosto del 2020 il primo ministro etiopico Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace, decise di rimandare le elezioni politiche a causa del COVID 19. Questa circostanza ha innescato un ulteriore aumento delle tensioni tra il governo federale centrale dell’Etiopia e il TPLF (Tigray Peoples Liberation Front) organo politico che ha guidato l’Etiopia dai primi anni ’90 fino al 2018.
In pratica Abiy Ahmed, da quando è stato nominato primo ministro dell’Etiopia, ha cercato in ogni modo di allontanare dai ranghi del potere il TPLF. Dapprima tagli sui budget alla regione del Tigray, poi estromissione di cariche politiche importanti dei suoi membri più rappresentativi.
Il TPLF, in contrasto con questa strategia, decide di svolgere l’elezioni politiche regionali contro le disposizioni del governo centrale. Eravamo nel settembre 2020. Sarà la goccia che farà traboccare il vaso nei rapporti tra governo federale e il TPLF.
Il 3 novembre 2020, circa alle 2 di notte, inizia il primo atto di guerra tra le milizie federali e le forze del TPLF. Avviene a Mekellè, in un’area militare poco distante dal centro; molti soldati federali vengono uccisi o catturati dal TPLF. Una sparatoria interminabile di quasi 15 minuti. Io l’ho vissuta tutta!
La mattina del 4 novembre, Mekellè si risveglia senza elettricità, senza contatti telefonici, senza internet. Questa situazione durerà a lungo, e in buona parte continua fino ad oggi; progressivamente mancherà anche l’acqua, tutti i collegamenti commerciali saranno interrotti e le banche rimarranno chiuse fino a metà gennaio 2021.
4 Novembre 2020: è l’inizio della guerra in Tigray. Una guerra dove oggi molti riescono a capire qualcosa, ma non tutto. Una guerra, come tutte le guerre, ancora più terribile perché “nascosta”. Violenze ai civili nelle aree rurali, con distruzione di raccolti e campi coltivati, saccheggio indiscriminato, pulizia etnica, violenza sessuale e atrocità di ogni tipo: queste informazioni sono arrivate lentamente, procurate da chi è potuto entrare in Tigray con i convogli degli aiuti umanitari; notizie fornite di nascosto in fretta da chi nel terrore poteva solo esprimere crudeli verità.
In questa guerra i giornalisti di tutto il mondo hanno avuto vita difficile. In Tigray non è stato permesso loro di svolgere la preziosa professione e attività di informazione, quell’informazione che crea la storia, che può lasciare un segno, che può insegnare a sapere e a non dimenticare ciò che di una guerra non si deve e non si può dimenticare.
È proprio questo il punto. Oggi a distanza di quasi 5 mesi, cosa si sa di questo conflitto in Etiopia nella regione del Tigray?
Ci sono stati diversi movimenti di politica internazionale, pressioni verso il governo federale etiope, che hanno coinvolto l’Onu, gli Stati Uniti, l’Unione Africana, l’Oms, le grandi organizzazioni internazionali per le migrazioni, per i diritti umani, per i rifugiati ecc, che hanno chiesto in ogni modo di porre termine al conflitto e alla guerriglia che purtroppo va avanti in un silenzio assenso.
Solo poche e tardive ammissioni da parte del primo ministro etiopico Abiy Ahmed sul coinvolgimento delle truppe eritree nell’azione di guerra nel Tigray e la promessa di un accordo per un immediato ritiro delle stesse. Solo interventi e risposte di “facciata”.
Sono certo di ciò che scrivo, perché noi qui le informazioni le riceviamo quotidianamente e non dai Social da tempo oscurati nella regione del Tigray. Riceviamo informazioni telefoniche brevi ma terribilmente certe, dai dipendenti dell’organizzazione nella quale lavoro, da parenti, amici, da conoscenti dei nostri parenti e amici.
Sono informazioni vere. Di più, sono voci che urlano nel deserto.
Ora, sì proprio ora, mentre qualcuno si “tranquillizza” per la risposta del primo ministro etiope riguardo il ritiro delle truppe eritree dal Tigray, sappiamo con certezza di camion pieni di militari ben armati provenienti da Asmara, sappiamo di diverse aree rurali prese a bersaglio dai federali e dalle truppe eritree, in cui i bombardamenti continuano in modo indiscriminato e la gente civile muore senza sapere perché.
Qualcuno potrebbe pensare che le notizie siano enfatizzate o “riportate” in modo falso; questo potrà essere vero sia da parte delle truppe federali ed eritree che da parte delle truppe del TPLF, così avviene in tutte le guerre. Quello che purtroppo non è falso sono le uccisioni indiscriminate di uomini, donne e bambini, di civili indifesi costretti a subire le atrocità di questa assurda guerra, che purtroppo continuano tutt’oggi. Questo nessuno potrà mai smentirlo.
Intanto ad Addis Abeba è iniziata la campagna elettorale prevista per il mese di giugno 2021. Campagna elettorale? Ma ci rendiamo conto?
Nella capitale la gente evita di parlare del conflitto; colpisce il fatto che molte regioni dell’Etiopia e nella stessa area della capitale ci siano persone che nemmeno immaginano cosa stia accadendo. Ci sono poi altri disordini che mettono in dubbio l’operato di questo governo. Parliamo dell’Oromia (regione vicino Addis Abeba), che sta vivendo momenti di violenza e di repressione con altrettante uccisioni. Parliamo di agricoltori in conflitto con il potere, costretti a subire espropri devastanti e danni alle proprie imprese.
Con piacere ho potuto constatare, sui Social e leggendo alcuni articoli di importanti agenzie giornalistiche, che di questa guerra in Italia se ne sta parlando, finalmente! Ma non basta! Io credo che si possa e si debba fare di più, sempre nel campo dell’informazione, della cultura e – perché no – della politica, che alla fine è l’unica via per la risoluzione di tutte le guerre.
R.
19 Aprile 2021 at 09:13
So di queste atrocità da informazioni avuta da una amica eritrea da tempo in Italia, ma in contatto costante con familiari e amici in Eritrea. Mi parla, tra l’altro di bambini “offerti” dagli armati alla violenza sessuale dei padri, che rifiutano e quindi vengono uccisi, prima i bambini e poi i padri.