L’articolo è comparso sul giornale on line dell’associazione “Il Borgo” di Parma
Per non cadere nel catastrofismo delle prime reazioni al voto, è utile estrapolare dal coacervo di sensazioni negative, quanto di positivo è stato espresso dal voto del 24 e 25 febbraio. Se l’ingovernabilità appare oggi il primo pericolo immediato, si prenda tuttavia atto che essa è stata considerata dagli elettori una sorta di prezzo necessario che il paese si è detto disposto a pagare per cercare di voltare pagina. Il messaggio che emerge è infatti quello della necessità di un rinnovamento radicale del paese. Non solo un rinnovamento della politica, che ormai è ineludibile, ma del sistema-paese nel suo complesso, in un’Italia le cui energie positive sono bloccate dalle sue patologie, l’illegalità in primis, che anche nei mesi e nelle settimane che hanno preceduto il voto si è manifestata in un florilegio di scandali che hanno colpito la politica, ma non hanno lasciato immune il mondo delle imprese e del credito. Sullo sfondo, è necessario ricordarlo, c’è la crisi che ha toccato oggi anche la Chiesa cattolica, guida morale del paese, che oggi fatica ad esprimere con la necessaria autorevolezza la propria centralità.
I partiti tradizionali si sono trovati impreparati, ma hanno ora occasione per riconsiderare il proprio ruolo democratico secondo un principio fondamentale di responsabilità. Perché oggi è la parola responsabilità che deve necessariamente associarsi alla parola cambiamento e che deve guidare le scelte anche dolorose dei partiti. Che devono decidere se difendere ancora le proprie rendite di posizione o ascoltare il messaggio dei cittadini, rinunciando ai privilegi intollerabili di quella che Stella e Rizzo hanno definito “la casta”. Ne va della loro sopravvivenza e, con la loro, della sopravvivenza della democrazia rappresentativa. L’alternativa rischia di essere il populismo, un’alternativa inquietante.
Unica prospettiva è quindi una stagione di riforme vere, profonde, e che non si limiti solo a palliativi o a simbolici tagli ai costi della politica. Che sia ispirata a valori, che sappia anche riscrivere regole condivise, a cominciare dalla legge elettorale e dal bicameralismo, coniugando rispetto della democrazia e garanzia di governabilità.
L’effetto Parma non è stato affatto capito dai partiti, quelli della sinistra in particolare, e ciò che è avvenuto con il voto ha rispecchiato proprio quello che successe a Parma nel maggio del 2012. L’arroganza nel ritenere già vinte partite in realtà molto difficili si è ripetuta e l’esito è stato il medesimo. Il centrosinistra ha voluto ancora privilegiare la conservazione di una classe dirigente, rispetto alla possibilità concreta di aggregare nuove fasce di elettorato. Questo conservatorismo si è tradotto in messaggi politici e programmatici poco comprensibili, carenti di una speranza di futuro, tra ipotesi di nuove tasse e esasperazione di tatticismi e alleanze, arroccando il paese alle proprie paure, tra berlusconismo e antiberlusconismo. Mentre il disagio della gente, delle famiglie, dei lavoratori dipendenti, come dei professionisti, degli imprenditori, dei commercianti, delle imprese, dei giovani senza lavoro, dei pensionati, non è stato interpretato nella sua complessità, ma affidato a un’offerta politica per compartimenti stagni, in cui ciascuno ha parlato a interessi circoscritti di parti altrettanto circoscritte di società.
Nel libro di interpretazione sociale del centrosinistra sembra sopravvivere ancora una suddivisione in classi che non rispecchia da anni la società reale. E il centrodestra berlusconiano da parte sua è stato abilissimo nel capire le ansie di una classe media, che è ancora maggioritaria nel paese e che è stata provata dalla crisi. Il fatto che il berlusconismo lo abbia fatto a prezzo di una narrazione falsificata della realtà, di una svendita di illusioni irrealizzabili, sino alla banalizzazione estrema del messaggio politico, non è stato pagato negativamente in termini elettorali, a riprova che la paura ha potuto più della convinzione. Il peso che ne deriva anche nell’immediato rischia tuttavia di incidere negativamente sui processi di innovazione di cui il paese ha detto chiaramente di avere bisogno.
Oggi il paese può ancora vedere la luce in fondo al tunnel, ma solo se la politica tornerà ad essere servizio e non privilegio, se le divisioni sociali ed economiche saranno affrontate, governando le conflittualità, a partire da quelle tra imprese e credito, come tra chi ha un lavoro sicuro e chi non ce l’ha, tra chi gode di protezione sociale e chi è esposto alle insidie del mercato. E il paese dovrà anche avere la lucidità di rimanere fermamente ancorato all’Europa, il cui problema oggi non è di essere troppo invasiva negli affari interni degli stati, ma di essere al contrario ancora troppo lontana da una completa attuazione dei suoi processi di integrazione.
Il fenomeno Cinquestelle impone oggi, forse senza possibilità di un successivo appello, la rilettura urgente della società e del rapporto tra cittadini e democrazia, come impone a quella parte del paese che ripudia il populismo di farsi carico dell’istanza di un rinnovamento, che non sia solo un’operazione di facciata.
Paolo Scarpa