La rete dei cattolici democratici C3Dem (Costituzione, Concilio, Cittadinanza) intende promuovere, a fine novembre, un convegno sul futuro della democrazia. Non riteniamo che si possa condividere l’idea di una democrazia solo procedurale e istituzionale; pensiamo che la democrazia non sia soltanto qualcosa di acquisito e da difendere, ma anche qualcosa da promuovere e rigenerare. Il breve testo che segue è stato redatto, per conto di C3Dem, da Sandro Antoniazzi in vista del convegno, e vuole essere una base di discussione perché ciascuno possa prenderne spunto per approfondire un punto o l’altro, o per correggere il tiro e avanzare un diverso punto di vista.
Viviamo in una società dove la democrazia è data per scontata: da tempo è costitutiva del nostro modo di vivere e più nessuno la mette in discussione.
Però, al di là dell’apparente “mare calmo”, molti sono i motivi di insoddisfazione e molti i problemi aperti.
I partiti, che sono al centro della vita politica, sono oggi poco rappresentativi della popolazione. Quando i partiti erano di massa ed esprimevano visioni del mondo tra loro alternative, trasmettevano i loro messaggi attraverso le persone che credevano in queste visioni, mentre oggi si comunica attraverso i mezzi di informazione (TV e social) rivolgendosi a una generica opinione pubblica, senza instaurare alcun rapporto sociale.
I partiti, così, non sono più un ponte tra la gente e il potere centrale; sono diventati strutture che si autolegittimano per la loro funzione. I loro fondamenti ideali, il loro riferimento a una base sociale, il loro orizzonte di valori, la loro capacità di esprimere cultura, sono oggi molto deboli.
La democrazia soffre poi di altri limiti: l’espandersi della burocrazia, le decisioni spesso affidate ai tecnici, la carenza di un’informazione indipendente, l’impreparazione civica e culturale di una parte dei cittadini, l’esistenza di gruppi di pressione che influenzano le decisioni, il potere eccessivo dell’economia e così via.
La democrazia è strettamente connessa all’eguaglianza, che ne è un presupposto essenziale: però la diseguaglianza di oggi spesso significa esclusione, che mette strati crescenti della popolazione nelle condizioni di non poter partecipare.
La realtà della nostra società si presenta molto diversa da come l’aveva pensata la nostra Costituzione: Costituzione programmatica che, nei suoi primi articoli, proclama la partecipazione dei cittadini come un valore essenziale e afferma la volontà dello Stato di rimuovere le cause che la impediscono.
Nello spirito della Costituzione, ma anche nell’intento di dare una risposta ai problemi attuali e di indicare una meta possibile per l’avanzamento e il miglioramento della nostra società, è possibile pensare a un progresso della democrazia?
I nostri costituenti parlavano di democrazia sostanziale e di democrazia progressiva ma, al di là dei termini, riteniamo possibile che la democrazia si rigeneri e si possa aspirare a una democrazia più compiuta?
Se oggi siamo di fronte a una crisi della partecipazione (dimostrata in particolare dall’astensionismo elettorale) perché non rispondere con una proposta forte di rilancio della partecipazione come forma di vita democratica essenziale che investa ogni realtà sociale, comprese quelle sinora escluse (le imprese, la burocrazia, la stessa chiesa per certi versi)? Se per la maggior parte della loro esistenza quotidiana le persone non fanno esperienza partecipativa, perché dovrebbero partecipare politicamente?
La partecipazione non può che partire dal basso, particolarmente a livello comunale. Esistono oggi diverse esperienze di partecipazione a livello locale, ma spesso sembrano delle aggiunte all’attività normale, un fiore all’occhiello, non una prassi che caratterizzi l’intera struttura e azione comunale.
Vi sono tre grandi classi di persone che vivono spesso in una condizione non pienamente libera, costituendo veri “problemi sociali di libertà”: i lavoratori che sono nella maggior parte “dipendenti” (con ciò che questo significa); le donne ancora lontane da un pieno riconoscimento sociale; gli immigrati che nel loro insieme vivono e sono considerati come cittadini di serie B. E poi abbiamo una larga parte della classe operaia più fragile (operai comuni, manovali, precari) che è sostanzialmente abbandonata a sé stessa, persone che da sole fanno fatica ad affrontare una realtà come quella attuale. Non c’è democrazia senza una battaglia democratica sociale per cambiare le condizioni che mantengono tanta gente in una situazione inaccettabile.
Il settore che pone più problemi alla democrazia è indubbiamente quello economico, spesso più potente della politica che ha il compito di orientarlo e controllarlo. Non si tratta solo di incidere nelle relazioni economiche, ma anche sul costume e sulle forme mentali. Le imprese sono oggi impenetrabili alla democrazia: occorre avviare un processo di revisione dello statuto dell’impresa e una progressiva realizzazione della partecipazione dei lavoratori che modifichi sostanzialmente questo stato di cose. Si dovrebbero inoltre diffondere esperienze di economia sociale, di mutualismo, di aziende pubbliche con cittadini azionisti, di attività sociali, fra cui quelle del terzo settore, trasformate in economia associativa, ecc. Tenendo poi conto dell’esigenza di un’informazione indipendente si potrebbe proporre che una rete TV pubblica sia data in gestione alla società civile. Tutto questo per abituare i cittadini alla responsabilità per la vita comune.
Occorre poi individuare i mezzi per far conoscere prima e far partecipare poi i cittadini ai problemi internazionali, a cominciare da quelli europei; ormai molte delle decisioni che ci riguardano sono assunte a livello internazionale, ma naturalmente non è facile per chiunque essere informato e consapevole a riguardo. La dimensione internazionale è oggi una parte importante della nostra vita e anche in questo caso avremmo un grande deficit di democrazia se i cittadini ne fossero esclusi.
Di fronte alla complessità della società attuale, la politica si presenta prevalentemente con un carattere gestionale (si parla di valori sono per specifici casi sensibili). Nella attività normale, la politica, tramontate le ideologie, non esprime più un orizzonte di valori, ma in questo modo la democrazia rischia di presentarsi come un grande contenitore vuoto dove ognuno si arrangia. Dossetti sosteneva che lo Stato “fa la società” non perché limita la libertà dei cittadini e sostituisce le formazioni sociali, ma perché contribuisce dinamicamente a orientare ai valori di una convivenza comune, verso il bene umano possibile, riequilibrando le disparità eccessive.
Infine, vorremmo portare l’attenzione sul cattolicesimo democratico e sociale (le due tendenze tendono oggi a convergere perché l’avanzamento della democrazia richiede importanti cambiamenti sociali).
Anche se i cattolici sono storicamente arrivati tardi all’impegno politico, hanno poi dato alla democrazia un contributo sostanziale: l’affermazione della democrazia in Italia in questo dopoguerra deve molto al loro impegno tanto politico che ecclesiale. Ma questa fase della realizzazione della democrazia è chiaramente conclusa.
Ci chiediamo pertanto quale possa essere il ruolo del cattolicesimo democratico oggi. Sembra finito un periodo storico in cui i cattolici rappresentavano una parte della società accanto ad altre parti (prima i liberali, poi i socialisti, e poi ancor ai comunisti) per trovarci tutti in un’unica medesima condizione – la democrazia, appunto – con la comune difficoltà a trovare risposte a problemi sempre più complessi e a ricercare orizzonti di senso e di valori.
Se nel secolo scorso compito dei cattolici democratici era stato quello di sostenere e affermare la democrazia tanto nell’ ambito cristiano quanto nella società, in questo secolo, in cui la democrazia è diventato patrimonio comune, il ruolo del cattolicesimo democratico si presenta del tutto nuovo e per molti versi più rilevante e straordinario.
La democrazia è di tutti, ma anche per questo può rimanere generica e inerte, senza vita e spessore, senza infamia né lode; allora il compito dei cattolici democratici appare evidente: impegnarsi per dare un’anima a questa democrazia, lavorare per trasformarla nel segno dell’eguaglianza e del valore della persona, operare per strutture sociali e istituzionali sempre più umane e personalizzate.
I cristiani sono persone di frontiera, in quanto vivono in due mondi, quello spirituale e quello terreno (cristianesimo e democrazia); nella fedeltà a entrambi sta la loro forza e la loro capacità di trasformazione della realtà che li circonda, al servizio degli uomini e delle donne con cui vivono, costantemente aperti all’impegno comune.
Sandro Antoniazzi
8 Ottobre 2022 at 17:16
Sono molte le suggestioni che l’articolo di Sandro Antoniazzi pone riguardo alla partecipazione politica. Mi soffermo su 2 aspetti che mi sembrano ineludibili per stimolare una cultura democratica diffusa che riporti alla partecipazione attiva dei cittadini alla Politica.
Il primo elemento lo pongo con una domanda: i cittadini oggi dove sperimentano la partecipazione democratica?
Sappiamo che non solo i partiti ma in generale le organizzazioni democratiche sono tutte in crisi di iscrizioni. Pertanto i cittadini che fanno esperienza di partecipazione alle scelte di un’organizzazione collettiva sono sempre meno e, purtroppo, a volte sperimentano anche una democrazia più formale che sostanziale. Di qui le articolate riflessioni su come migliorare la democrazia interna e su quanto ci sia volontà di escludere da parte di chi ha il potere e quanto invece vi sia una poca disponibilità di chi non lo ha, ad assumersi responsabilità organizzative (mi riferisco per esempio alle difficoltà di ricambio nei ruoli di responsabilità che riscontriamo in tane organizzazioni democratiche..). Parliamo comunque di una minoranza dei cittadini.
Se c’è un luogo che viene sperimentato dalla maggior parte delle persone attive questi sono i luoghi di lavoro. Antoniazzi dice in un passaggio “le imprese sono oggi impermeabili alla democrazia”. Io credo che questo sia un punto fondamentale. La maggior parte delle persone fa esperienza di lavoro in un’organizzazione collettiva, piccola, grande, più o meno strutturata. In questi luoghi di vita quotidiana quasi ovunque si sperimenta la NON DEMOCRAZIA. Anzi questa viene teorizzata come il modello più corretto e funzionale di organizzazione collettiva di successo. Occorre che vi sia un CAPO, che sia chiaro CHI COMANDA. Aggiungiamo che si tratta di luoghi dove i quadri intermedi riescono ad avere riconoscimenti positivi nella misura in cui soddisfano le richieste del loro diretto superiore in una organizzazione rigorosamente piramidale. Quanto più l’organizzazione è complessa tanto più essa mette in atto strumenti di pianificazione e verifica degli ordini impartiti dai vertici. Il coinvolgimento dei lavoratori non solo sulle strategie ma anche sulle scelte più semplici e operative volte a produrre di più e meglio, magari con qualche miglioramento anche delle condizioni di lavoro, sono praticate da poche aziende di eccellenza (a volte con modalità più formali che sostanziali) oppure lasciate alla sensibilità personale del singolo dirigente (capo stabilimento, capo reparto ecc.). Oggi l’azienda è il luogo formativo per eccellenza delle persone che determina la cultura diffusa sperimentata dalle persone. Perciò senza seri interventi volti a rendere più partecipati i contesti lavorativi facendo sperimentare ai lavoratori l’utilità, la concretezza della partecipazione per raggiungere risultati migliori e condizioni di lavoro più umane, come si potrà convincerli che la società si possa cambiare in meglio partecipando alle organizzazioni democratiche. Infatti i partiti di successo oggi sono quelli che hanno il leader carismatico. Hanno il CAPO CHE COMANDA. I sindaci e i premier apprezzati sono quelli che non si fanno condizionare dai partiti ma che decidono loro che vanno diritti per la loro strada senza guardare in faccia a nessuno. Perciò io ritengo, come Antoniazzi, che il vero cambiamento sociale deve ripartire dai luoghi di lavoro e che questa sia la grande sfida di tutte le organizzazioni democratiche a cominciare da quelle che sono protagoniste nelle azienda, come i sindacati. il secondo elemento è quello relativo all’approccio consumistico che caratterizza tutte le relazioni sociali e che ha ridotto la POLITICA A UN PRODOTTO. Ormai sempre di più la comunicazione politica utilizza schemi tipici della pubblicità. I giornalisti parlano di OFFERTA POLITICA, di PERCEZIONE DELL’ELETTORE, ecc. Le trasmissioni di approfondimento sono spesso ridotte a schermaglie tra politici che invece di discutere contrappongono affermazioni più o meno argomentate per convincere l’ascoltatore della propria idea o ricetta. I “rosari” politici nei telegiornali consistono nella ripetizione delle stesse frasi tutte le sere per convincere i cittadini con la stessa tecnica degli spot pubblicitari. Il risultato è lo svilimento della politica, la confusione del cittadino, sempre più scettico verso qualunque proposta e incapace di ragionare con una visione unitaria di bene comune. La proposta politica ridotta a un menù a la carte in cui scegliere le cose più convenienti per se’ o per la propria categoria di appartenenza. Questo è l’altro punto fondamentale su cui ragionare e che dovrebbe spingere a rivedere profondamente non solo i modelli di comunicazione delle forze politiche , ma soprattutto i format giornalistici di approfondimento politico, riducendo fortemente il loro numero e rivedendone le formule. Aspettarsi una capacità di autoregolamentazione dei giornalisti che affollano i tallk-show e i social media mi pare illusorio. Forse, invece di pensare alla pars condicio in campagna elettorale bisognerebbe pensare seriamente a dare regole permanenti che tutelino i cittadini e valorizzino la politica seria e i suoi interpreti.