“PERCHE’ LA POLITICA?”

| 0 comments

Pubblichiamo una riflessione che Sandro Antoniazzi propone nell’ambito di un insieme di “dispense” o, meglio, di materiali che sono, insieme, di carattere formativo e di promozione di un dibattito e di un confronto che tocchi i nodi cruciali dell’impegno politico, in particolare dei cattolici

 

 

  1. Che cos’è la politica?

La politica si occupa della vita in comune, della convivenza delle persone nella società.

L’uomo ha indubbiamente una natura sociale, perché per vivere e per realizzarsi ha bisogno della relazione con gli altri.

Questo presupposto costituisce una base elementare della convivenza umana, la quale richiede necessariamente una qualche forma di organizzazione.

Però, al di là di questa esigenza primaria essenziale, si presenta all’uomo il compito ben più rilevante di condividere con gli altri la propria condizione umana: le sue relazioni servono dunque non solo per rispondere ai bisogni, ma anche a realizzare la migliore convivenza possibile.

La politica rappresenta un momento specifico di queste relazioni, si può dire il momento più alto, perché si preoccupa della visione d’insieme, di ciò che è più giusto e più valido per la società intera.

Per questo Aristotele la definisce un’attività “architettonica”, che tende a comprendere il “mondo” e di preoccupa di “costruire” le strutture più utili e congrue per la società e il suo funzionamento.

La politica si presenta come una realtà complessa perché è un’attività di donne e uomini liberi in una condizione di pluralismo; si tratta di prendere delle decisioni tra persone che hanno opinioni, esperienze e culture diverse.

Espressione fondamentale della politica è pertanto il dibattito, il confronto tra eguali, che deve essere il più possibile pubblico, data appunto la sua rilevanza per la vita collettiva; è questa l’essenza ideale della democrazia, la partecipazione di tutti in condizione di parità.

Se esiste un livello di partecipazione politica a cui tutti sono chiamati – perché partecipi della vita comune che deve essere condivisa – naturalmente esistono poi livelli e funzioni che vanno assunti da persone che si impegnano più specificatamente.

Si tratta di un impegno importante che richiede, per chi lo svolge, una preparazione e uno studio adeguato, perché si deve agire per individuare le soluzioni più valide per tanti problemi diversi.

E’ facile poi che nell’assumere responsabilità politiche si acquisiscano una certa esperienza e pratica delle istituzioni; occorre però attentamente evitare che questo significhi separazione dalla gente, dai cittadini.

Purtroppo, questo avviene spesso e in parte è nella natura delle cose, ma è una situazione che contrasta col senso della politica, la quale riguarda proprio la decisione condivisa, una visione comune del che cosa fare.

La politica infatti deve tendere al bene comune, la cui espressione più alta è la fraternità umana, l’intesa migliore possibile tra tutti (motivo per cui occorre sempre creare un buon rapporto anche con gli avversari).

Come diceva sempre Aristotele, c’è il bene del singolo e il bene della città e “sembra più importante e più perfetto scegliere quello della città”.

Dunque, la politica è una scelta di grande importanza che deve essere fatta con coscienza e con consapevolezza, sapendo che si tratta di un servizio per realizzare un bene tanto difficile quanto essenziale: il bene umano possibile.

 

  1. Crisi della politica e assenteismo.

Il pensiero sociale sostiene che quando una persona dissente dalle decisioni che si prendono ha davanti a sé due strade: “voice” o “exit”, la protesta o l’abbandono.

In altre parole, può cercare di far cambiare la decisione che non condivide, manifestando il proprio dissenso e organizzando l’opposizione, oppure ritiene che questa sua iniziativa sarebbe inutile e in questo caso abbandona la partita.

Abbiamo un esempio di “voice” nei movimenti studenteschi e giovanili del ’68: la partecipazione era altissima, in chiaro dissenso rispetto alla politica in auge, ma un cambiamento significativo non si è verificato.

L’esempio più lampante di “exit” lo riscontriamo nelle ultime elezioni politiche (settembre 2022) quando l’astensionismo ha raggiunto la quota record del 36,1%: per i più diversi motivi un elettore su tre ha pensato che non valesse la pena di votare.

Poiché non solo il dato è molto alto, ma anche in continua crescita da un’elezione all’altra, esprime un chiaro segnale di allarme, di uno stato di crisi della politica.

Vediamo le motivazioni, le cause di questo fenomeno:

  • Una causa importante è da attribuire al diffuso individualismo: ognuno pensa di gestire da sé la propria vita in tutti i suoi aspetti, politica inclusa.

Questa presa di posizione corrisponde a una caduta di valori, perché i valori sono sempre di carattere collettivo, ciò che l’individualista esclude in partenza.

In questa situazione influisce molto il liberismo, che non è solo una teoria economica, ma induce anche comportamenti congruenti: il mercato, infatti, funziona automaticamente senza bisogno di soggetti pensanti.

Si opera spesso in una realtà impersonale, che non richiede relazioni se non funzionali e superficiali.

Una volta che una persona ha garantito la propria sicurezza e il proprio tenore di vita, può sentirsi libera dal dovere di contribuire all’interesse collettivo, ma questa posizione non può essere condivisa: significa beneficiare dei beni garantiti dagli altri, senza fare la propria parte.

L’individualista pensa che tutto ciò che riceve dallo Stato gli sia dovuto e che il suo comportamento possa limitarsi a non danneggiare gli altri, non avvertendo l’esigenza di partecipare, nella misura in cui gli è possibile, allo sforzo comune.

 

  • Un secondo motivo di allontanamento dalla politica è costituito dalla dimensione sempre più vasta dei problemi che la società e politica devono affrontare, molto al di là delle possibilità di conoscenza del cittadino medio.

La globalizzazione economica, la finanza mondiale, le migrazioni, le tecnologie sempre più complesse, la situazione ambientale del globo, le guerre e la pace scoraggiano spesso il cittadino volonteroso per la difficoltà di capire i termini delle questioni, le diverse ragioni, le competenze dei vari enti internazionali, le possibilità di intervento e di cambiamento.

La complessità dei problemi produce poi una conseguenza immediata limitativa. L’impossibilità di avere una visione complessiva della realtà, cioè una concezione capace di darci una chiave di lettura della realtà (come succedeva una volta).

Ciò spiega anche perché chi diserta oggi le elezioni sono soprattutto i ceti più popolari, che posseggono meno cultura e meno strumenti per interpretare gli avvenimenti.

La loro lettura dei fatti avveniva attraverso l’esperienza che, purtroppo, non è più sufficiente di fronte ai complessi problemi attuali.

 

  • Un terzo problema è costituito dal debole rapporto attuale tra la politica e la realtà sociale, la società civile.

Nel partito di massa di un tempo erano rappresentati gli operai, i contadini, i ceti medi, i professionisti, gli intellettuali: in pratica il partito era un ponte tra la politica e la vita sociale, era rappresentativo della società reale.

I partiti non sono più in grado di rappresentare gli interessi concreti e questi, a loro volta, sono sempre più differenziati e individualizzati; nessun partito naturalmente è in grado di rappresentare la molteplicità degli interessi singoli.

Sarebbe necessario valorizzare le identità collettive, rafforzare i corpi intermedi e ripensare i legami tra questi e la politica.

Per prendere il caso macroscopico del lavoro, non si può certo riproporre la “cinghia di trasmissione” di un tempo, ma neppure un partito di sinistra o centrosinistra può rivolgersi ai lavoratori solo come singoli.

Dovrebbe invece darsi un carattere “laburista” e impostare una politica del lavoro che non consiste tanto nel fare leggi sul lavoro, ma nel dimostrare di “essere dalla parte dei lavoratori”, inserendo questa dimensione nella sua politica generale.

 

  • Infine, va considerato che la partecipazione e l’interesse dei cittadini alla politica non è un dato naturale e scontato, che tutti assolvono tranquillamente.

La partecipazione va stimolata, accompagnata, formata perché incontra difficoltà, non è immediata, richiede spesso un aiuto, va facilitata.

Il primo ostacolo è certamente la legge elettorale, che è una delle peggiori del mondo: in pratica non si può scegliere niente, fa tutto il partito.

Una legge del genere è del tutto inconcepibile in una società democratica.

Occorre una legge proporzionale (con sbarramento adeguato), liste dei candidati formate a livello locale, possibilità di esprimere le preferenze (due, una donna e un uomo); in questo modo, un candidato per farsi eleggere deve essere conosciuto dagli elettori (oggi si mandano candidati in città che non hanno mai visto, ma dove l’elezione è sicura) e dunque deve avere lavorato positivamente sul territorio.

Ma la partecipazione non può ridursi a un rito quinquennale; in una società democratica la partecipazione deve essere una regola, un costume di vita diffuso in vari campi (lavoro, servizi sociali, burocrazia, ecc.): solo così si può formare una coscienza partecipativa da riversare anche a livello politico.

Ci sono indubbiamente altri problemi e difficoltà nel confronto dei cittadini con la politica: l’dea che ci sia troppa corruzione, lo scontento alimentato dalla burocrazia, l’emergere di nuove barriere come il digitale, la diffusa diffidenza nei confronti dell’autorità.

I problemi sono sicuramente tanti e alcuni anche complicati, ma non dimentichiamo che sono problemi umani, dunque tutti risolvibili, almeno teoricamente.

Ed è altrettanto evidente che sono problemi propri della politica e che pertanto è compito innanzitutto della stessa politica risolverli: la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la politica è il proprio funzionamento, cioè il rapporto coi cittadini e con la società civile.

 

  1. Finalità della politica.

La politica affronta ogni giorno un’infinità di problemi, ma su questi deve prevalere la finalità generale, la prospettiva a cui tende o dovrebbe tendere la società e che orienta l’atteggiamento con cui valutare ogni problema.

Osservando la storia del nostro paese come quella di altri paesi, un obiettivo sembra unanimemente condiviso al di là delle diverse appartenenze politiche: quello dello sviluppo economico.

Per giudicare se un paese va bene o va male il parametro consueto è quello del PIL, dell’aumento del reddito nazionale.

Se l’aumento del reddito è elevato, come è successo in Italia per molti anni nel dopoguerra, vuol dire che tutti o quasi tutti vedono migliorare la propria condizione (economica).

Oggi non è più così.

Da quando siamo entrati nella globalizzazione si vive nell’incertezza, lo sviluppo è più limitato e discontinuo e l’incremento del reddito in questa situazione è più diseguale.

Mentre un tempo era diffusa la convinzione che si potesse solo migliorare, ora questa fiducia è venuta meno, si vive nell’insicurezza, si teme che la vita dei nostri figli sarà peggiore di quella che abbiamo conosciuto.

Questa condizione fondamentale di insicurezza e di sfiducia è la realtà che caratterizza il nostro tempo.

Condizione tanto più grave perché contemporaneamente sono svaniti gli ideali di una società futura migliore; per quanto potesse essere considerata un mito, essa ha costituito una fede importante per milioni di persone ed è stata alla base di tante importanti battaglie politiche e sociali.

Siamo quindi di fronte a una situazione nuova, privati della garanzia che ci dava uno sviluppo certo e orfani di una visione ideale futura. Dunque, ci si presenta la necessità di pensare a una diversa prospettiva.

Questa prospettiva deve essere una prospettiva “forte”, che sappia rappresentare una dimensione ideale, che in una qualche misura prenda il posto della visione ideale di ieri, e nello stesso tempo sia concreta, cioè capace di proposte di cambiamento da realizzare già oggi.

La proposta dovrebbe dunque consistere in una trasformazione della società attuale, affrontando le sue strutture e le sue tendenze (anche capitalistiche).

Una difficoltà è costituita dal fatto che siamo in una società tutta organizzata e funzionale in cui è diventato quasi impossibile pensare a una società diversa.

Questa prospettiva è tutta da elaborare, in larga misura si crea facendo, con un’elaborazione costante; non esiste infatti nessun modello prestabilito a cui possiamo riferirci.

In altre parole, il futuro è da creare; lo creiamo noi con le nostre idee e il nostro impegno.

Per questo occorre una cultura adeguata, innovativa, ad ampio raggio, creativa, universale, ma anche, quando occorre, professionale e scientifica, purché non sia fine a sé stessa, ma abbia come ispirazione l’idealità di contribuire all’opera di cambiamento.

Questa prospettiva coincide col bene comune, che non è dato da un insieme di beni materiali, ma che rappresenta una realtà relazionale: è la fraternità che si realizza nel costruire insieme una società più giusta.

Sono molte oggi le persone, soprattutto giovani, che son insoddisfatti di una vita puramente economica e strumentale e che ricercano condizioni più soddisfacenti di qualità della vita, ma in genere si tratta di una ricerca di carattere individuale.

Sarebbe molto importante che queste tendenze fossero rivolte a una prospettiva più collettiva.

Per un primo orientamento possono tornare utili le indicazioni di Gandhi sui peccati sociali da cui rifuggire:

  • Politica senza principi
  • Commercio senza morale
  • Benessere senza lavoro
  • Istruzione senza forza interiore
  • Piacere senza coscienza
  • Religione senza sacrificio

Su un piano più pratico, di strategia politica, il compito di una forza politica progressista dovrebbe essere quello di definire un programma fondamentale di lungo periodo su alcuni temi essenziali, quali il lavoro, l’eguaglianza, la pace, l’ambiente.

Esprimere una robusta posizione sui temi di fondo è il modo da considerare oggi adeguato per mostrare la propria identità.

In secondo luogo, la politica è troppo concentrata sui problemi istituzionali e legislativi: dovrebbe invece dare priorità alla società reale, ciò che le consentirebbe di essere più vicina alle persone e ai loro problemi e di avere una visione più completa del senso stesso della politica.

 

  1. L’impegno politico dei cristiani.

 

Perché il cristiano deve interessarsi della politica e offrire, secondo le proprie possibilità, il proprio contributo?

Poiché la politica si interessa dei rapporti tra le persone e delle condizioni per realizzare una buona società, si presenta ai cristiani come un campo in cui possono manifestare il loro amore al prossimo, uno dei massimi comandamenti evangelici.

L’amore al prossimo non è solo quello diretto, tra persone vicine, ma comprende anche l’interesse per una convivenza possibilmente giusta, perché in una società giusta anche le persone sono più portate ad essere giuste.

Viviamo in un’epoca di secolarizzazione e succede spesso che i credenti adottino un atteggiamento dualistico: sono cristiani in chiesa alla domenica, ma nelle attività di tutti i giorni non si differenziano dalle altre persone.

Si ritiene che la vita familiare, lavorativa, economica, politica abbiano proprie leggi e norme che hanno poco a che vedere con la fede: la religione rimane così una sfera separata e non un criterio che investe tutta la vita orientando i comportamenti.

Ma è proprio questa secolarizzazione il peggior rischio per la fede; perché se la fede viene considerata una delle tante sfere di attività accanto alle altre, poiché queste prevalgono per importanza nella vita umana, la religione rischia sempre di più di avere un ruolo marginale.

Quindi contrastare questa visione e pratica dualistica è importante innanzitutto per la fede e nello stesso tempo è la condizione per un atteggiamento più positivo verso la politica.

 

Vi è poi una seconda difficoltà nel rapporto dei cristiani con la politica.

Per un lungo periodo di tempo – sia dopo l’unità d’Italia, sia dopo l’ultimo dopoguerra – i cattolici si sono presentati politicamente uniti.

Il motivo di questa unità è dovuto al fatto che trovandosi di fronte a gruppi ideologici/partiti avversi (prima i liberali e poi i socialisti/comunisti), anche i cristiani si sono costituiti come una parte (partito).

Ora questa lunga fase è terminata perché le ideologie si sono praticamente esaurite: le posizioni attuali sono più contenute, più sfumate, più articolate.

Da una parte questo comporta un chiaro vantaggio (non ci sono più forze organizzate contrarie alla religione), dall’altra permangono tante posizioni non condivisibili, ma più frazionate e diffuse e per questo più difficili da affrontare.

Inoltre, su un piano più immediato, se ieri era facile indicare a un cristiano che cosa doveva fare, vigendo l’unità politica dei cattolici (chi non si ricorda i moniti dei vescovi che per tanti anni ci hanno chiesto di votare DC? Era praticamente un obbligo); ora non è più così e la scelta politica richiede un discernimento che non è sempre facile a livello individuale.

Per questo molti preferiscono rinunciare e fanno delle scelte a caso, in base a opinioni occasionali.

Occorrerebbe a riguardo una maggiore preparazione anche da parte dell’ambiente cristiano, che in genere si limita alla formazione dei ragazzi, ma non osa affrontare un’educazione degli adulti.

Così le parrocchie e i movimenti, al fine di evitare scontri tra cristiani con opinioni diverse, preferiscono non parlare dei problemi politici, ma in questo modo disabituano i cristiani a considerare la realtà umana con uno spirito evangelico.

Se la fede è veramente importante si dovrebbe poter discutere di politica fra cristiani, in quanto la fede costituisce una base comune condivisa che li unisce e che dovrebbe essere più importante delle diverse opinioni individuali.

Dobbiamo dunque fare uno sforzo per superare queste difficoltà e favorire un giusto modo di affrontare i problemi politici negli ambienti cristiani, perché si tratta di una questione decisiva prima per la fede e poi per la politica.

 

Sandro Antoniazzi

 

 

 

Lascia un commento

Required fields are marked *.