Educare alla partecipazione le nuove generazioni

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La democrazia oggi, nei sistemi occidentali che l’hanno adottata da anni, decenni e in qualche caso secoli, è attaccata non tanto da azioni dirette e frontali di opposizione (il caso del 6 gennaio ’21 in Usa a Capitol Hill è, per ora, fortunatamente raro), ma da sistematici e organizzati progetti di delegittimazione che ne minano alla base la credibilità e la rispettabilità. In soldoni: ricordate la favola della rana nella pentola di acqua calda, che, trovandola gradevole, la tollera (giudicandola piacevole) e non si accorge del graduale e costante aumento della temperatura, fino a che non diventa bollente portandola alla morte.

Forse non vivremo (al di là della metafora) lo stesso percorso, ma noi cittadini, pur contenti di una democrazia con solidi principi incardinati nei diritti della persona e nelle procedure che ne rendono concreta la difesa, ne vediamo con sconforto i limiti che si basano su un concetto che si applica normalmente in mille altre situazioni, ma che in democrazia (e dunque nella politica, che la rende dinamica e non una formula da manuale) si può fissare in una formula di questo tipo: lo scarso successo del combinato di efficacia (raggiungere i risultati prefissati) ed efficienza (equilibri tra risorse impiegate e obiettivi prefissi).

Bene: quando si critica la democrazia, e allo stesso tempo se ne alimenta il discredito (sia nelle chiacchiere da bar che nelle tribune pregiate di sedi politiche o televisive), si punta il dito su questo aspetto. Come se si dicesse “vedete: la democrazia è quel metodo che fa perdere tempo (e risorse) e non raggiunge risultati se non in rari casi. E sempre meno a vantaggio di tutti”. Luogo comune? Refrain da banale populismo? Antipolitica d’accatto? Sì, ma comunque utile per alimentare la “mitica” necessità di un uomo (donna?) forte, capace in poco tempo, e senza perdersi in inutili chiacchiere, di trovare le migliori soluzioni necessarie.

È evidente che è una menzogna alimentata ad arte da chi vuole distruggere il modello che ha consentito all’Occidente anni di pace (travagliati e controversi, sì, ma indiscutibilmente arricchiti da evidenti conquiste sul piano dei diritti e di lento ma graduale conquista del benessere diffuso).

Moises Naim, nel suo recentissimo Il tempo dei tiranni. Populisti, falsi, feroci: storia di Putin, Erdogan e di tutti gli altri, Feltrinelli, 2022), spiega le origini, gli obbiettivi e le strategie di questo meccanismo: «Il disprezzo inacidito per le istituzioni e le élite, va in metastasi. Una volta in atto tale dinamica, ahimè, il passo successivo più probabile è la vera e propria cachistocrazia: il governo dei peggiori che una società ha da offrire. Ecco perché, a suo modo, l’antipolitica è una delle minacce più pericolose con cui la democrazia contemporanea debba fare i conti. L’antipolitica è una potente forza centrifuga: distrugge alla base la politica democratica, creando gli spazi in cui si inseriscono gli aspiranti autocrati. Per questo i suoi pericoli sono sistemici, perché l’antipolitica erode la capacità della società di cooperare nelle decisioni, di sanare le differenze in modo sereno e istituzionale, e di costruire strutture che includano tutti». E il giornalista (politico e politologo) venezuelano “spende” pagine e capitoli a informare e descrivere come i sistemi autocrati di diversi Paesi (Russia, su tutti) stanno investendo sulla strategia di destabilizzazione totale delle democrazie occidentali. Le ultime vicende Ucraina-Russia lo confermano, ma la storia (documentata) parte da lontano.

Ecco. Quando verifichiamo una tale diffusa e allarmante delegittimazione della democrazia a mio avviso si tocca con mano il nodo del problema, non solo per il presente, ma soprattutto per il futuro. La lenta e progressiva (la rana…) degradazione della credibilità del sistema apre, inevitabilmente, le porte a strani e inaccettabili condizionamenti che permettono l’introduzione di “scorciatoie”, “salti di regola”, “snellimento di procedure” e pseudo meccanismi facilitativi (no a lacci e lacciuoli, voto diretto, ecc.). Ma questi passaggi sono abbastanza facilmente verificabili e contrastabili perché sotto gli occhi di tutti, (si veda la vicenda del Decreto anti-rave). Se le regole vigenti consentiranno ancora i tre capisaldi della democrazia (libera formazione ed espressione delle opinioni; libera e ordinata aggregazione dei soggetti; libere, trasparenti e controllate selezioni dei rappresentanti, elezioni), ecco, allora il sistema democratico può restare solido ancora a lungo.

C’è, però, un altro passaggio che mi preoccupa. Il discredito che viene dal basso, e che in qualche modo si alimenta di uno spirito positivo e condivisibile. È quello che individua opzioni che incoraggino la partecipazione di base come strumento di riabilitazione (o rigenerazione, come si dice nel convegno) della democrazia vista come cura dell’interesse generale. Sono quelle attività, encomiabili per valore ideale e pratico a beneficio della comunità, che coinvolgono (milioni) di cittadini attivi. Lo si legge nel volume di Giovanni Moro e altri (La cittadinanza Attiva in Italia, una mappa. Carocci, 2022), quando sul tema del rapporto volontariato/partecipazione si scrive che non bisogna «sottovalutare il fatto che, proprio grazie a queste esperienze presenti ormai da un quarantennio in Italia, l’attivazione dei cittadini per l‘interesse generale si sta diffondendo come una pratica comune». Ottimo: è l’effetto indotto in chi, praticando in condivisione pratiche democratiche al fine di gestire singoli beni comuni, ne apprezza di conseguenza il valore generale.

Eppure, se queste pratiche sono, al contempo, accompagnate da una fragile cultura di insieme, di quadro generale, scarsamente volto a un disegno più vasto e collettivo, si finisce che, individuandone i difetti, gli ostacoli, soggetti e comportamenti devianti, la condanna di istituzioni protagoniste del sistema democratico (compresi i tanto deprecati partiti) sia vista come prioritaria alle buone pratiche. Insomma: se la cittadinanza attiva per molti rimane alternativa e l’unica soluzione al problema di una “democrazia malata”, non abbiamo fatto un passo avanti. Anzi. È il paradosso del farmakon/rimedio che i sostenitori della democrazia partecipata dal basso sostengono giustamente, che piano piano si trasforma in un farmakon/veleno, che, a prescindere dalle dosi, si sa dove porta.

 

Sarebbe interessante se anche di questo si discutesse nel nostro variegato mondo di associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, a cominciare dal convegno del 26 novembre. Ossia, in altre parole: come fare in modo che quel prezioso e irrinunciabile patrimonio di ossigeno che viene da chi la partecipazione la vive nei fatti (con effetti concreti e positivi) possa corroborare il sangue che attraversa le istituzioni, le quali, per loro natura, riguardano tutti, anche chi, legittimamente, quelle esperienze non vive direttamente (si astiene…) e non per questo è “meno” cittadino di altri. È il valore dell’erga omnes, che i sindacati conoscono da molto tempo.

Per attivare questo percorso di rigenerazione di lungo termine, credo che siano importanti due attenzioni: la prima è quella di porre estrema, concreta e continua attenzione allo sviluppo delle democrazie negli altri paesi. In positivo e in negativo: in un mondo interconnesso nulla ci è estraneo, e le conseguenze dello sviluppo democratico (in meglio o in peggio) prima o poi ricadono anche nei nostri piccoli cortili. In Italia, gli strumenti formativi e informativi (tradizionali o innovativi) sono sempre poco attenti alle questioni internazionali. Male. È ora di cambiare direzione.

E poi, l’educazione delle giovanissime generazioni. Per alimentare (oso) la “passione” per la democrazia, bisogna cominciare da piccoli. Banale dirlo, ma anche banale constatare che con l’introduzione della cosiddetta Educazione civica, abbiamo fatto solo un primo passo non valorizzato fino in fondo. Oso, di nuovo: le nuove direttive del ministero dell’istruzione e del merito (?), vorrà dare un concreto sostegno a questa materia?

Sono percorsi lunghi, non privi di ostacoli e incertezze, sbandamenti e verifiche necessarie. Ma se le classiche agenzie educative (la scuola su tutte) non faranno il loro dovere (nolenti o volenti) potremo attivare una convinta e coordinata strategia della società civile in questa direzione?

 

Vittorio Sammarco

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