Il recupero della rappresentanza ideale e strategica dei partiti sarà una lunga marcia, resa ancora più disagiata se dalla società civile non emerge un protagonismo propositivo dei corpi intermedi. La crisi della democrazia implica regole nuove nelle istituzioni pubbliche e nelle strutture produttive private, ma non basta. E’ necessario alimentare una più diffusa partecipazione al ridisegno di nuovi assetti sociali, economici e territoriali. Nessuno può sentirsi chiamato fuori da questo impegno
La democrazia è un laborioso ma esaltante work in progress. Non si conquista una volta per tutte. Per fortuna, non la si perde una volta per tutte. A meno che non ci sia un colpo di Stato. Eppure siamo in allarme, perché i cambiamenti sono epocali. Per via del clima, per i rischi nell’uso e abuso dell’intelligenza artificiale, per l’incalzare del mutamento rapido delle professionalità nel lavoro, per la cultura che fatica a coltivare diffusamente valori socialmente rilevanti, per l’affanno della politica nel dare senso al futuro e di conseguenza per il peso, per ciascuno di noi, di vivere un permanente oggi.
Eppure durante la pandemia, cioè di fronte ad un evento drammatico, dalle istituzioni, alle imprese, ai lavoratori, agli studenti, agli anziani c’è stato un moto di corresponsabilità e di serietà. Quello spirito non è stato intaccato dalle contestazioni no vax, anzi è stato esaltato e a maggior ragione non andrebbe disperso. Semmai va assunto come paradigma per districarci nel grande disagio della democrazia che abbiamo conosciuta, contribuito a consolidarsi, ma anche in qualche modo a logorare.
In primo luogo, occorre dare priorità alla coesione sociale. Senza questa, la democrazia vacilla, indipendentemente dalle forme che assume. Il trionfo dei particolarismi non alimenta né un corretto svolgimento delle procedure democratiche, perché a vincere sarebbe sempre il più forte, il più urlante, il più condizionante, né assicura equilibri stabili nella distribuzione della ricchezza e del benessere dei cittadini. Se oggi il 25% della popolazione italiana è composta da poveri e da chi è a rischio di povertà, non si può dare per scontato che ciò non alimenti tensioni sociali anche più estreme.
Non è compito soltanto della politica assicurare la coesione sociale. Se così fosse, saremmo nei guai. La crisi di rappresentanza dei partiti – resa sempre più eclatante per la vita breve di quelli di volta in volta vincenti alle elezioni politiche – non si è conclusa con la formazione del Governo Meloni. Piuttosto essa è la più plastica dimostrazione che è stata un’espressione estremizzata di un’alleanza elettoralistica di portatori di obiettivi tendenzialmente corporativi e particolaristici e capaci di dividersi anche sulle proposte idealmente e culturalmente identitarie. D’altro canto, all’opposizione ci sono formazioni che sono state più sconfitte dalle loro debolezze strategiche o ambizioni populiste che dalla sciagurata legge elettorale iper maggioritaria.
Il recupero della rappresentanza ideale e strategica dei partiti sarà una lunga marcia, resa ancora più disagiata se dalla società civile non emerge un protagonismo propositivo dei corpi intermedi. L’associazionismo sindacale e sociale è stato un protagonista straordinario durante la pandemia. Hanno assicurato con i sindaci una tenuta della solidarietà locale e con le imprese le condizioni per non rischiare le chiusure e la disoccupazione. Ma, ricordiamo gli slogan di quel periodo: “ce la faremo” e “nulla sarà come prima”. Per il primo, siamo certi che è stato un successo; per il secondo, la sospensione del giudizio è d’obbligo. E’ naturale che le persone non vedevano l’ora di ritornare a fare quello che facevano e né vorrebbero cambiare. Sono le loro rappresentanze politiche e sociali (alias le élites, divenuta brutta parole per i populisti) a dover esercitare l’orientamento e dare nuova linfa alla democrazia. Se rinunciano, si fa regredire la coesione sociale e con essa la democrazia sostanziale.
I corpi intermedi hanno un grande ruolo da assolvere, quindi. Non devono rifugiarsi soltanto nel servizio civile verso i più deboli, semmai svolgendo funzioni sussidiarie spettanti al pubblico. Non devono limitarsi alla difesa di diritti acquisiti e bisogni sia pure legittimi. E’ richiesto un impegno aggiuntivo, quello di creare senso comunitario nell’agire quotidiano. Per quelli che si occupano di lavoro, diventa essenziale operare per la ricomposizione del lavoro, dando dignità all’area dei non garantiti come soggetti decisivi anche per chi è ora garantito. Quello che si è fatto finora non è stato ancora sufficiente per cancellare le caratteristiche patologiche della precarietà e, fin quando non avverrà, anche la qualità della democrazia continuerà a risentirne.
Ma soprattutto i corpi intermedi sociali sono i più collaudati a distinguere solidarietà e assistenzialismo. La prima ha bisogno di impegno collettivo, quello che va oltre il do ut des e si mette in sintonia con una visione della società nella quale non devono esserci vincitori e vinti, specie se gli uni sono sempre gli stessi e così gli altri. L’assistenzialismo non richiede partecipazione, ma punta soltanto a perpetuare sé stesso, per tacitare il debole (ma spesso non ci riesce) e salvare l’anima ai forti. Esso è necessario, ma è vitale soltanto se è finalizzato ad una fuoriuscita dal bisogno.
In definitiva, la crisi della democrazia implica regole nuove nelle istituzioni pubbliche e finanche nelle strutture produttive private, rispondenti a maggiore rappresentatività e migliore efficienza gestionale. Ma non basta. E’ necessario alimentare una più diffusa partecipazione al ridisegno di nuovi assetti sociali, economici e territoriali. Nessuno può sentirsi chiamato fuori da questo impegno. Che è personale, per far convivere bene interessi e valori nel miglioramento della propria condizione di vita. Che è collettivo nella politica e nel sociale, per non far prevalere sempre di più la rivendicazione dei diritti sui doveri. In quanto cittadini consapevoli della transizione che stiamo vivendo, non si può stare con le mani in mano.
Raffaele Morese
(già segretario nazionale della Fim-Cisl e sottosegretario nel ministero del Lavoro nei governi D’Alema e Amato)