Finora la sinistra, sapendo di poter cambiare molto poco dell’economia, si è dedicata ai diritti civili, ai diritti politici, ai temi etici – scrive l’autore, già presidente nazionale delle Acli -. La destra ha sfruttato le debolezze di questa mancanza. Ma far finta che l’economia non esista o non sia modificabile (perché la globalizzazione, perché l’Europa, perché le multinazionali ecc.) è una dichiarazione di impotenza. Bisogna essere certamente realisti senza essere arrendevoli, saper immaginare un approdo senza perdersi nell’immaginazione, far prevalere la realtà e non un’idea di realtà
Il PD nasce dall’incontro tra la forza del Pci-Pds-Ds – che ha le sue sorgenti nelle fabbriche, nelle scuole, in tanti luogo di lavoro e nei sindacati – e della cultura di quella parte della Democrazia cristiana da sempre più vicina ai lavoratori. L’origine del PD è stata infatti accompagnata anche da chi aveva militato per lunghi anni in associazioni di lavoratori e sindacati dei lavoratori, che ne hanno composto i quadri e creato sensibilità attorno ai temi dei lavoratori. Per queste ragioni non è azzardato affermare che l’origine di questo partito sia largamente lavorista, pur non essendosi mai trasformata in una identità laburista.
Visti gli esiti elettorali del settembre 2022, pare che il partito abbia smarrito anche l’origine lavorista: il voto degli operai non s’indirizza verso il PD o il centrosinistra. Anzi, le classi sociali più deboli votano soprattutto M5s, Lega e (perfino) Forza Italia, quando invece il PD e il centrosinistra mostrano di essere apprezzati dalle classi agiate; FdI è trasversale. Lo stesso schema si nota per i titoli di studio: più sono alti, più votano centrosinistra. PD e centro-sinistra ottengono consensi tra studenti e pensionati, mentre la classe lavoratrice si rivolge verso il centro-destra, soprattutto se operai. In altre parola pare che chi “lavora duro” non voti PD, in questa fase.
Dalla parte dei più deboli
Diamo per assodato che stiamo attraversando un passaggio d’epoca (che qui non argomentiamo). L’Ipsos usa una espressione interessante: la spirale dell’interregno, ossia attraversare una fase non lineare in un cambiamento ancora incompiuto. In essa la dimensione economica è ansimante per oltre la metà delle famiglie italiane; le classi sociali medie e basse osservano un generale indebolimento economico e finanziario; la maggior parte degli italiani avverte la presenza inquietante di una forte tensione sociale nel Paese. Ma anche la condizione quotidiana individuale è tormentata da piccoli e grandi fenomeni che disturbano e creano l’impressione “del fuoco sotto la cenere”, della stabile presenza dell’imprevedibilità che dal Covid in avanti è entrata nelle nostre vite. Sarà per questo che si sente il bisogno di comunità e di appartenenza. Ognuno, per la propria età e per la propria condizione professionale, sembra chiedere qualche sicurezza di più, qualche forma di prevedibilità, di ordine nel caos; ma anche di opportunità, perché l’ascensore sociale è fermo.
Ipsos argomenta che l’ascensore sociale è disponibile solo per pochi privilegiati, quando invece lo scivolo è sempre attivo per molti. La “cetomedizzazione” dei decenni precedenti è ferma: anzi, dal 2005 in avanti piano piano si sgretola il ceto medio e la società italiana sembra assomigliare ad una clessidra più che ad una piramide. La percezione del futuro risente di questa dinamica e le aspettative si abbassano. D’altra parte il dato sulla povertà, relativa e assoluta è sotto gli occhi di tutti: sono quasi 11 milioni gli italiani a rischio povertà; 4 sono disoccupati e poco meno di 7 sono occupati in modo instabile o economicamente debole. Più povertà, minore senso di sicurezza e minori opportunità sociali danno il quadro di un Paese che lascia esposto all’impoverimento una parte non banale della propria popolazione (del popolo): la parte più debole. Ma è sufficiente tutto questo per dare contenuti politici ad un partito, ad un partito di maggiore equità sociale? Ovviamente no.
Deboli in sé, deboli per sè
Perché un partito esista serve una visione delle cose, che poi possa dar luogo ad una missione. Nel ceto debole attuale non si sviluppa alcuna coscienza di classe con propri valori e virtù, come invece era accaduto nei secoli precedenti: non c’è un orizzonte di futuro e neppure una immaginazione del futuro. Dunque la vera rottura con le epoche precedenti non sta nella situazione materiale, nella povertà assoluta o relativa (quelle rimangono), ma in quella culturale, ideologica: nessuna narrazione giustifica una partecipazione politica, un desiderio di pubblico impegno. Questo dipende da molte cose, a partire dall’individualizzazione delle vite. Una volta gli operai prendevano il bus o il treno insieme e frequentavano luoghi dove il tempo liberato dal lavoro consentiva loro di parlare e acquisire un linguaggio utile a decodificare il mondo. Oggi non ci sono luoghi e tempi per condividere una narrazione del mondo. Forse è per questo che non ci sono narrazioni. A parte i tweet e i post: che sono la parte social del legame. Ma, appunto, trattasi di social e non di sociale, di influencer e non di leader.
In assenza di narrazioni, ci si unisce sulle visioni negative, sulle emozioni e sui sentimenti negativi, su ciò che non funziona, facendo leva sulle rabbie e sui risentimenti, sulle paure e sulle ingiustizie individualmente avvertite. A guidare è la distopia, non l’utopia, come in qualche serie tv di Netflix. Uniti nella paura, nel degrado. È da tempo che si è riscoperto la forza anti-istituzionale, sull’essere contro, sull’insoddisfazione, sull’ingiustizia nell’accesso ai consumi e alle esperienze che – come ci dimostra Luca Ricolfi nella “società signorile di massa” – è a portata di tutti ma non è esattamente per tutti. Qualcuno rimane comunque fuori.
Riassumendo: la base sociale c’è, manca una narrazione convincente: una narrazione non negativa e neppure falsamente democratica come può essere quella che ha puntato sulla democrazia diretta. I problemi della democrazia non si risolvono né riducendo la democrazia né ampliando la democrazia: la democrazia indiretta – anche per i motivi legati alla complessità sistemica – è la “strada maestra”. E allora che narrazione possiamo promuovere?
Un sentimento che consideri il lavoro. L’ambiente di lavoro (il sistema operativo)
Prima di parlare di narrazioni, parliamo di sentimenti. Per calarci nel climax immaginiamo che la realtà sia come un ambiente di lavoro. E allora non possiamo non notare almeno tre cose che tutti – la gente, le persone che parlano al bar o in ufficio – vorrebbero fossero rispettate, tre condizioni generali.
La prima è che ciascuno dovrebbe svolgere il proprio compito e lo dovrebbe fare con metodo e coscienza. Soprattutto il lavoro pubblico è avvertito come eseguito in modo sciatto, impreciso, irrispettoso dei tempi e delle persone, inutile, troppo pagato e incontrollato. Ciascuno dovrebbe fare “il proprio pezzo” facendolo bene e senza essere pagati più di altri o tutelati meglio di altri che fanno lo stesso pezzo.
La seconda cosa: la società premi il merito, chi si impegna di più, e risponda ai bisogni in modo efficace ed efficiente. Ci sono lavori super pagati e lavori mal pagati, mancati riconoscimenti (soprattutto per i titoli di studio) e fenomeni nascosti: il merito va premiato in modo selettivo e il bisogno va superato in modo universale e solidale, non come beneficienza dall’alto, ma come impegno di tutti. Il tema dei meriti e dei bisogni va riletto senza ideologismi con molta attenzione, senza fare differenze ingiuste né nel bene né nel male.
La terza cosa: i lavoratori non chiedono che i dirigenti siano “abbassati” o umiliati. I lavoratori vogliono essere orgogliosi dei loro dirigenti purché siano competenti, lavorino da mattina a sera tardi, che “li riconoscono” per il fatto che essi stessi conoscono bene le condizioni di lavoro e dei lavoratori, perché fanno le battaglie per il successo dell’impresa che migliora le condizioni di tutti. Poi se, ogni tanto, i dirigenti si fermano in mensa a mangiare con loro, ancora meglio: ma non è così essenziale, perché non è questo che rende tale un dirigente. Ciò che conta è la competenza e la passione.
Se l’ambiente reale non risponde a questi… pre-requisiti di fondo, è più difficile fare azione politica promuovendo politiche magari anche giuste, eticamente doverose eppure avvertite come non prioritarie, fuori dal perimetro del senso comune.
Sono queste assenze che producono rabbia, atteggiamenti di chiusura verso la politica, antipatie. Ha ragione Papa Francesco quando usa la metafora dell’essere tutti sulla stessa barca: e avvertiamo che se qualcuno nella nostra stessa barca non lavora o lavora male, allora fa un danno per tutti. La metafora di Papa Francesco non è buonista, è realista. Per questo espelliamo – o non concediamo il nostro voto a – chi non saprebbe governare la nave o diventa un pericolo per tutti.
Politiche per il lavoro
Come si fa allora a cogliere questo sentimento dei lavoratori? Serve promuovere alcuni temi veicolari, alcuni argomenti, perché alcuni temi trasportano una narrazione. I temi, le politiche sociali, vanno scelti con cura e attenzione perché sono simbolici come risposta all’ambiente reale di lavoro. Per esempio, il salario minimo è un tema interessante, ma – nella logica che ci siamo appena detti – non è così centrale: può far parte di un pacchetto di proposte ma non può essere la proposta principale. Così come non può esserlo la transizione ambientale e digitale se non sono accompagnate da un provvedimento che dia la tutela a chi sa per esperienza che “nelle ristrutturazioni” la perdita di posti di lavoro è assicurata. Ma non può esserlo neppure il Reddito di cittadinanza o l’Assegno unico per la famiglia, perché riguardano platee ben definite e non posseggono neppure la forza di riorientare il sistema.
In realtà una politica fortemente laburista dovrebbe considerare più questioni. Facciamo un beve elenco: la formazione professionale, gli stage e l’apprendistato, i contratti (come si sa al Cnel sono registrati un migliaio di contratti diversi), gli stipendi e il loro adeguamento, gli stipendi e i carichi familiari, le politiche attive e passive del lavoro, gli ammortizzatori sociali in particolare, la durata e la risoluzione del contratto di lavoro, la gestione dei conflitti sul luogo di lavoro, le patologie del lavoro, il lavoro in nero. Basterebbe prendere la parte dei Rapporti economici della nostra Costituzione e tradurla in politiche sociali conseguenti!
Ma c’è una politica che risulta del tutto centrale in questa fase e che andrebbe assunta come grande battaglia da fare perché i dirigenti avvertono che i lavoratori la stanno soffrendo particolarmente: è la politica dei redditi. Si deve partire da qui, dai redditi: è una cosa che richiede un riassetto complessivo tra pubblico e privato, tra giovani e adulti, tra uomini e donne, tra carichi familiari e fisco. Una politica dei redditi più adeguata, più vicina, più… sartoriale, grazie anche all’uso delle informazioni provenienti dalla banche dati consente di ragionare su cose concrete, reali, quotidiane, sui meriti e sui bisogni. La politica dei redditi deve tener conto del diritto/dovere alla formazione professionale, perché essa deve far parte in modo pressoché stabile del proprio impegno lavorativo settimanale: miglioramento della propria professionalità e delle proprie competenze.
Occorre che il partito “ci metta testa” nel lavoro, riprenda a familiarizzare coi temi e coi problemi dei lavoratori, ascolti, dialoghi, interloquisca, ipotizzi, sperimenti e poi verifichi, abbia lo stesso odore dei lavoratori, per usare un’altra similitudine di Papa Francesco. La politica ordinaria di questo partito dovrebbe occuparsi di lavoro. Poi la politica, ovviamente, si occupa di molto di più: si pensi anche solo alla cronaca di questione settimane, dall’invasione dell’Ucraina alla questione degli sbarchi, dalle bollette dell’energia al Covid, dall’emergenza ambientale alle morti stradali… Ma la preoccupazione principale deve essere rivolta al lavoro. Poi il lavoratore ben sa che non c’è solo il lavoro, che non di solo pane vive l’uomo.
Collaborare = lavorare con
Peraltro il lavoro è la spina dorsale del Paese. I lavoratori dipendenti sono poco più di 23 milioni, gli autonomi quasi 5; i disoccupati circa 2; i pensionati 16 milioni; gli studenti attorno ai 18/20 anni quanti sono? Un paio di milioni? A spanne, su 60 milioni di italiani quasi l’80% a che fare (o ha avuto a che fare) col lavoro, nel bene e nel male. Occupa buona parte dello spazio settimanale e dello spazio mentale: un partito che vuole essere considerato dalle persone e dalle famigli si occupa del lavoro, dei suoi problemi; ha a cuore i desideri dei lavoratori, sa come incentivare la promozione dei meriti e come intervenire sui bisogni quando si manifestano. Lo fa con rapidità, con appropriatezza, con coerenza.
Ma non lo fa da solo. Essere laburisti significa anche saper lavorare con gli altri. Cooperative, associazioni di lavoratori, sindacati, imprese e oggi – grazie alla biodiversità sociale – aggiungiamo – aggiungiamo gli incubatori di lavoro, di talenti e di startup, le agenzie di somministrazione del lavoro, le fondazioni, gli osservatori, le Camere di commercio. E poi ancora le scuole, i centri di formazione professionale, le università. Esistono insomma una serie di soggetti con i quali costruire strategie e tattiche per far sì che un territorio senta l’energia a muoversi, a integrarsi e a includere, a rispettare l’ambiente e a promuovere l’innovazione. L’entusiasmo genera energia capace di muovere quanto possibile per vivere bene la fase di passaggio che stiamo attraversando. Quindi cooperazione e poliarchia, ossia solidarietà e sussidiarietà come principi cardine su cui impostare il sistema, con l’ente pubblico capace di disciplinare, ossia di stabilire gli obiettivi pubblici, far rispettare le regole, garantire i fondi. Il lavoro è energia, il lavoro è sinergia. Un partito che promuove lavoro trova origine proprio in questo ambiente operativo, ne sposa le tattiche, ne sente l’appartenenza.
Il lavoro politico
Un partito così anzitutto studia, si prepara, crea classe dirigente capace di tradurre la domanda sociale in risposta politica. Si muove e decide. Fa azione politica concreta. La classe dirigente di un partito è un passaggio essenziale, perché rappresenta il vero capitale di un partito: persone capaci di dirigere, di individuare le priorità, di conseguire un esito, di creare consenso sociale e politico, di motivare e di decidere. Il lavoro politico – non lo spieghiamo certo in questa sede – è delicato e prezioso. Non va sprecato, una volta creato. Ma deve essere esito anche di un processo democratico trasparente. Vivere di lavoro politico non significa vivere di rendita politica. La regola del voto popolare deve valere sempre, evitando i luoghi – gli anfratti – dove l’acquisizione del consenso è più facile: il leader si misura sempre sul terreno più ostico, lasciando il collegio più facile ai giovani che devono crescere.
In un partito così la classe dirigente si crea in congressi che legittimano posizioni di idee e di organizzazione. I programmi devono essere chiari sulle questioni di breve e di lungo respiro. Si pensi alla fase che stiamo vivendo: in questa fase è doveroso dire cose di chiarezza su almeno quattro ambiti (tutti “a tre punti”, ma è un caso): l’Ucraina, la Nato e l’Unione europea; il contrasto alla diseguaglianza interna, lo sviluppo imprenditoriale e tecnologico e l’ambiente; il presidenzialismo, i partiti e la forma della decisione politica. I congressi si fanno per tesi. Con chiarezza. Chi perde non esce dal partito, ma si prepara per il prossimo congresso. La politica è anche conflitto, bisogna accettarlo.
Più lab
Per buona parte del suo lavoro, Zygmunt Bauman ha cercato di descrivere il passaggio dall’etica del lavoro all’estetica dei consumi. La contemporaneità ci ha abituato al consumo di cose e persone, di esperienze e di valori: niente rimane dopo aver ingurgitato ciò che per qualche momento placa la nostra ansia. Anche i partiti hanno seguito questa strada, e si sono resi leggeri, vacui, meno legati ad una cultura politica e più basati sull’opportunismo delle scelte. Non possiamo tornare indietro ai partiti-strutturati e solidi, però dobbiamo mettere la testa in una società che rimane fortemente caratterizzata dalla dimensione del lavoro, per quanto essa trovi spesso il proprio immaginario nel consumo. Ma recuperare l’immaginario del lavoro significa affidarsi sia a nuove esperienze (l’economia circolare, la green economy e l’economia sostenibile) sia recuperare il senso di antiche esperienze: il reddito che garantisce l’opportunità di avere un’abitazione, una famiglia, un tenore di vita dignitoso, una cultura e una formazione in movimento. Dobbiamo promuovere l’idea legata al talento e alla creazione di cose ed esperienze, che contribuisce a fondare una repubblica contemporanea sul lavoro. Ecco l’immaginario: il merito col bisogno, il talento con la tutela, l’innovazione con sicurezza. Serve creare un laboratorio di politica per i tempi contemporanei, dove ciò che ci unisce è l’essere lavoratori, lavoratori interessati alla politica.
Il cantiere di centro-sinistra
Non so se – come afferma Massimo D’Alema nella sua intervista rilasciata pochi giorni fa – si stia tornando ad uno schema noto e consolidato, in Italia: l’alleanza tra un centro capace di fare il centro e una sinistra capace di essere pienamente sinistra. Magari finirà anche così. Molto dipenderà dalla legge elettorale. Ma se dovessimo fermarci esclusivamente alle identità, allora non potremmo non notare come all’interno del cantiere di centro-sinistra non possono mancare alcune identità. Le elenchiamo senza pretesa: progressista, socialista, laburista, ecologista, liberale, cattolico-popolare, civica. Queste identità possono fondersi tra loro, presentarsi separate o in incroci che ridanno vigore a culture politiche solide e antiche. In un’epoca di cambiamento dobbiamo aspettarci cose antiche e cose nuove. Di sicuro sappiamo che la politica non si fa senza cultura politica, altrimenti è improvvisazione, esattamente come l’economia non si fa senza cultura economica. Le culture politiche sono solide ma non immutabili e soprattutto si combinano e ricombinano, con effetti differenti. Una solida cultura laburista ci pare un modo per rafforzare un centro-sinistra capace di rispondere all’economia senza affidarsi a qualche scappatoia liberista (o, peggio ancora, fintamente liberista).
Finora la sinistra, sapendo di poter cambiare molto poco dell’economia, si è dedicata ai diritti civili, ai diritti politici, ai temi etici. La destra ha sfruttato le debolezze di questa mancanza. E allora è da riprendere l’elaborazione anche economica, a partire dal ruolo dello Stato in economia – dove dobbiamo capire come collocare la sua azione – e di avere l’ambizione di contribuire a costruire una economia più umana. Far finta che l’economia non esista o non sia modificabile (perché la globalizzazione, perché l’Europa, perché le multinazionali ecc.) è una dichiarazione di impotenza. Bisogna essere certamente realisti senza essere arrendevoli, saper immaginare un approdo senza perdersi nell’immaginazione, far prevalere la realtà e non un’idea di realtà.
Roberto Rossini
(già presidente nazionale delle Acli, portavoce dell’Alleanza contro la povertà)