È molto difficile scrivere di Silvio Berlusconi perché è come scrivere dell’Italia: non di tutta l’Italia, non di tutti gli Italiani, ma certo di una fetta consistente del nostro Paese che in maggiore o minore misura si è rispecchiata in lui e gli ha dato fiducia e consenso fino agli ultimi anni della sua intensa esistenza.
Si può dire che egli abbia concentrato in se stesso, ed in pochi anni, quel percorso di egemonia culturale finalizzata all’egemonia politica che Gramsci indicò al Partito comunista come via maestra per vincere quella “guerra di posizione” all’interno delle istituzioni democratiche posta l’impossibilità di una “guerra di movimento” sul modello della Rivoluzione bolscevica.
E in effetti, nel giro di una decina di anni dalla fondazione di TeleMilano, che poi divenne Canale 5 e dal progressivo aumento e differenziazione delle reti di quella che poi si chiamò Mediaset, passando anche per l’acquisizione (e le vittorie) del Milan, Berlusconi divenne il simbolo di una nuova fase della vita del Paese dopo le tensioni e le violenze degli anni Settanta, di un’Italia che si riscopriva ottimista e in crescita economica e che nella figura di un personaggio che incarnava il modello del “Vincente” individuava una possibilità di vita nuova.
Un’Italia che, detto per transenna, credeva sempre meno nella politica, in quei partiti che erano stati insieme la struttura e l’agente educativo delle masse nel primo quarantennio repubblicano ed ora scontavano il logoramento di una lunga fase di potere, nel caso della DC, ovvero l’evidente fallimento della propria visione ideologica, nel caso del PCI.
La necessità di alimentare la tv commerciale con la raccolta pubblicitaria aveva spinto Berlusconi ad una ricerca capillare sui gusti e sui bisogni degli italiani, alimentandoli e riplasmandoli come del resto è tipico di chi la moda, oltre a seguirla, deve anche in qualche modo imporla. Il Berlusconi tycoon ottimista, il Berlusconi capo del team vincente in Italia ed in Europa nello sport più amato, il Berlusconi donnaiolo ma anche capo di famiglia perbenista (come è noto nella cultura nazionale le due cose non sono in contraddizione) era diventato una sorta di brand politicamente non spendibile perché chiuso da un sistema politico che egli disprezzava ma che gli era stato utile nei suoi avventurosi e tuttora oscuri inizi nel mondo opaco dell’edilizia, e a maggior ragione nel consolidamento del suo monopolio sulla tv privata generalista (l’unica allora esistente).
Questo per dire che il berlusconismo come categoria politica era qualcosa di preesistente a Berlusconi, era in qualche modo un fiume carsico, agevolato dalle delusioni ideologiche e dal crollo del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica, causato in senso lato dal cambiamento degli equilibri internazionali col venir meno delle dittature comuniste dell’Europa orientale e della stessa Unione Sovietica. Tangentopoli fu, per così dire, l’elemento emotivo di accelerazione del processo.
Si potrebbe dire che quegli aspetti del carattere nazionale che abitualmente venivano descritti come viziosi (l’individualismo, il familismo amorale, la diffidenza verso le istituzioni, l’incapacità di distinguere fra l’interessa privato e l’interesse pubblico…) erano dal punto di vista di Berlusconi delle virtù di cui lui stesso era partecipe e che dovevano essere esaltate e non corrette, contrariamente a quanto pensava la sinistra “moralista e piagnona”.
D’altro canto, l’intuizione vincente del Berlusconi politico, che meglio di altri aveva inteso la logica soggiacente al nuovo sistema elettorale maggioritario, fu quello di porsi insieme come trait-d’-union e come dominus (di fatto) dell’alleanza, che pareva impossibile, fra la Lega Nord e il MSI appena riconvertito in Alleanza Nazionale con il suo ingombrante passato neofascista tutt’altro che rinnegato.
Perché il dato di fatto rimaneva questo: l’esistenza di un amplissimo numero di cittadini italiani che non desiderava in alcun modo essere governato dagli eredi di un’ideologia fallimentare, che ne avevano preso le distanze praticamente solo col crollo del Muro di Berlino e che si erano presentati all’appuntamento elettorale scartando ogni alleanza col centro e presentandosi invece insieme a chi orgogliosamente pretendeva di “rifondare” il comunismo.
La sua irruzione in politica fu spiazzante anche per l’ambiente cattolico, che già scontava lo choc per la scomparsa della Democrazia Cristiana, e che non sapeva come rapportarsi ad un personaggio evidentemente estraneo ad ogni sia pur recondita dimensione spirituale ma altrettanto evidentemente impregnato di quella patina di cattolicesimo che in questo Paese chiunque si porta dietro e, soprattutto, inserito in un filone anticomunista in cui i settori più rilevanti della Gerarchia e dello stesso popolo cattolico si riconoscevano. Ciò gli concesse un credito che permetteva anche di sorvolare sull’evidente incoerenza morale del personaggio, non solo nel senso del suo esibito libertinismo, ma anche della sua estraneità all’insegnamento sociale della Chiesa, come del resto è tipico per chi fin dalla giovinezza fra Cristo e Mammona aveva scelto costantemente il secondo.
Quanto ai cattolici democratici, la diffidenza era di antica data, fin dai tempi della battaglia contro il monopolio sancito di fatto dalla legge Mammì, fortemente voluta da Craxi, cui si oppose un manipolo di esponenti della sinistra dc fra cui Sergio Mattarella. Il rigetto del berlusconismo nacque da un lato da un’evidente ripulsa di ordine morale, talvolta moralistica, dall’altro dall’evidente mancanza di cultura istituzionale di Berlusconi, peccato gravissimo per chi aveva riversato così tanta cura nella costruzione e nella tutela del modello costituzionale e di un vero Stato di diritto. Non è un caso che sia stato un esponente di quest’area, Romano Prodi, l’unico a sconfiggerlo due volte.
E in effetti per Berlusconi il concetto della necessità di equilibri fra poteri e funzioni diverse e quindi l’esistenza di soggetti indipendenti dal governo, cioè da lui, era del tutto incomprensibile, e ciò fa capire quanto poco di liberale e di sturziano vi fosse nel suo pensiero. In un certo senso egli fu il proto-populista, colui cioè che dava voce al cittadino vessato da poteri anonimi e prometteva di risolvere i suoi problemi.
L’emergere di altri, più feroci populismi dimostra appunto come la famosa “rivoluzione liberale” di Berlusconi sia stata un fallimento, e l’unico aspetto della sua creatura politica, Forza Italia, che può evitarle di scomparire insieme al fondatore sta nell’aggancio al Partito popolare europeo, dove Berlusconi era più tollerato che amato.
Forse ha ragione il brillante Giovanni Cominelli quando argomenta che Berlusconi lascia gli Italiani così come li ha trovati: del resto, i vizi nazionali che lui ha esaltato gli preesistevano, e la spettacolarizzazione e personalizzazione della politica sono fenomeni (irreversibili) che erano già in atto prima di lui.
Berlusconi è stato il catalizzatore di tali processi, e ciò che gli ha impedito di trasformarli in un progetto politico di ampio respiro è stata, da un lato, la sua indifferenza alla dimensione storica perché eccedeva la sua parabola vitale (ed è il motivo per cui non solo non esiste un delfino ma neppure un partito strutturato – e questa è stata la fortuna di Salvini prima e di Meloni poi) e, dall’altro, la costante preponderanza dei suoi interessi personali rispetto al bene pubblico.
E tuttavia, di lui si può dire in un senso certo più ristretto quel che Manzoni disse di Napoleone: “Ei si nomò: due secoli, l’un contro l’altro armato/sommessi a lui si volsero/come aspettando il fato….”
Ora non c’è più spazio per berlusconiani ed antiberlusconiani, ed alleati ed avversari dovranno sforzarsi di costruire una nuova storia, sapendo che comunque, più nel male che nel bene, la storia nuova porterà inevitabilmente in sé qualcosa del retaggio dell’uomo di Arcore.
Lorenzo Gaiani