Intervista a Lucio D’Ubaldo a cura di Carlo Cefaloni*
A 100 anni dall’omicidio Matteotti è venuto il tempo di dare spazio all’esempio di Giuseppe Donati, primo direttore de Il Popolo, morto in esilio per il suo deciso antifascismo. Il difficile percorso dei primi cristiani democratici da riscoprire nel momento in cui la Chiesa italiana invita ad andare al cuore di una democrazia in pericolo.
Fa pensare il fatto che la Settimana sociale dei cattolici in Italia sia stata dedicata nel 2024 alla necessità di andare al cuore della democrazia, considerando gli ostacoli affrontati dai primi democratici cristiani nel nostro Paese.
Una storia pressoché sconosciuta, fatta di contrasti all’interno dell’associazionismo cattolico e di rapporti difficili con le istituzioni ecclesiastiche, ma contrassegnata da personaggi di una perenne attualità, come dimostra la vicenda emblematica di Giuseppe Donati, primo direttore de Il Popolo dal 1923, grande giornalista d’inchiesta, uomo con la schiena dritta che meriterebbe libri e film lontani da ogni stucchevole agiografia.
Abbiamo parlato di Donati (1889-1931) con Lucio D’Ubaldo, direttore del sito web Il Domani D’Italia, che esprime una continuità con la storica rivista promossa da Romolo Murri. D’Ubaldo è giornalista e scrittore, già senatore della Repubblica dal 2008 al 2013, fa parte del Consiglio di amministrazione dell’Istituto Internazionale “Jacques Maritain” nonché dell’Accademia degli Incolti, un’antica istituzione romana fondata nel 1658.
Qualcosa si è detto di Donati a proposito del centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, a proposito del quale inquietano certi fatti recenti come, ad esempio, la decisione del condominio del palazzo dove abitava il deputato socialista che ha voluto escludere il riferimento alla “mano fascista” nel delitto dalla targa commemorativa esposta all’ingresso dell’edificio.
Chi non ha avuto alcun timore di esporsi a difesa della verità dell’omicidio politico di Matteotti nel clima di forte violenza del consolidamento del fascismo, è stato, invece, Giuseppe Donati che pagò la propria determinazione con il confino in Francia dove morì di stenti e malattia nel 1931. Di questo luminoso esempio del cattolicesimo democratico sembra che importi ancora a pochi, probabilmente perché la sua memoria mette in evidenza dei nodi tuttora irrisolti ce cerchiamo di far emergere in questo dialogo con Lucio D’Ubaldo.
Parliamo di Donati, un popolare anomalo perché aderì al partito guidato da Sturzo e De Gasperi dopo aver tentato un diverso percorso politico legato all’originaria democrazia cristiana di Romolo Murri. In cosa consisteva questa sua originalità e perché era così minoritaria al contrario della formazione politica del Ppi fondato nel 1919
In realtà, già negli anni ‘10 del Novecento Donati rompeva anche con Murri. Non era convinto che la scelta progressista dei democratici cristiani dovesse motivarsi sulla base di un distinguo polemico dalla Chiesa, mettendo a rischio la fedeltà alla dottrina della fede sulla scia di un movimento, quello modernista, tacciato di eresia. Era doppiamente intransigente, poiché difendeva il richiamo all’ispirazione cristiana nella organizzazione della proposta politica ma, al tempo stesso, rivendicava la piena laicità del partito, così come lui lo immaginava.
Da che formazione veniva Donati?
Prima dell’impegno nella murriana Lega Democratica Nazionale, che volle cambiare in Lega Democratica Cristiana, aveva collaborato con due riviste prestigiose, fuori dal perimetro cattolico: La Voce di Prezzolini prima e L’Unità di Salvemini dopo. Fu quest’ultimo a dare di Donati la definizione di “cattolico anticlericale”: ne ammirava le capacità giornalistiche, come pure il rigore intellettuale e politico. Tra i due, il sentimento di stima non s’interruppe mai. Eppure, quando nel primo anteguerra Salvemini avanzò l’invito a confluire nel partito socialista, quel rapporto così fecondo non fu sufficiente a impedire il rifiuto di Donati, per il quale valeva anzitutto la difesa dell’autonomia politica dei democratici cristiani.
Di certo Donati, secondo le testimonianze dei contemporanei, era un tipo deciso…
Aveva un carattere duro, non eccelleva nell’arte della mediazione. E difatti, nel 1919 peccò per eccesso di intransigenza: mantenne le distanze da Sturzo, contestando la presenza nel Ppi di troppi clerico conservatori, e giocò la carta della corsa solitaria del suo piccolo partito – il Partito democratico cristiano (Pdc) – in due circoscrizioni. Fu eletto solo Marco Ciriani, deputato uscente del Friuli: una vera débâcle che rivelava il carattere velleitario di quel tentativo elettorale. Da allora inizierà il processo di rapido avvicinamento ai popolari, fino alla designazione nel 1923 a direttore de Il Popolo, il nuovo quotidiano (non ufficiale) del Ppi. Sturzo lo volle in prima linea nella battaglia antifascista dei popolari.
Il mancato accordo tra socialisti e popolari spalancò in quegli anni, come è noto, le porte al fascismo. La difficoltà nello stringere una tale alleanza si basava su ragioni profonde. Matteotti ad esempio salvò dal pestaggio dei socialisti il suo amico Umberto Merlin inviso ai “rossi” perché del Ppi. Eppure giovani militanti come Pier Giorgio Frassati sognavano “un governo dei due Filippo”, cioè Meda e Turati. Cosa si oppose a tale possibilità? E quale era la posizione di Donati?
Certamente il fascismo sfruttò il varco che negli anni cruciali del dopoguerra vedeva su fronti opposti i socialisti e i popolari. Alle contrapposizioni ideologiche, legate all’anticlericalismo degli uni e all’antirivoluzionarismo dei secondi, si aggiungevano i contrasti sulle scelte e le condotte politiche contingenti. Sturzo fu sempre ostile alla demagogia. Il biennio rosso (1919-1920), su cui in seguito anche Gramsci espresse un giudizio negativo, aveva accentuato la diffidenza dei popolari nei confronti del massimalismo socialista. Ciò nonostante, quando nell’estate del ‘22 si manifestò in tutta la sua portata la crisi del secondo governo Facta, labilmente prese forma l’accenno di un dialogo, fino ad allora inconcepibile. Non se ne fece nulla e, nel vuoto, prese il via la Marcia su Roma.
Nel primo governo Mussolini erano presenti esponenti dei popolari. Come la prese Donati?
Donati fu contrarissimo all’accordo che portò alla formazione del governo di unità nazionale, con a capo Mussolini, giudicando pericolosa la partecipazione dei popolari. Il suo antifascismo, inizialmente marginale nel partito, dopo breve tempo aiutò Sturzo, nel congresso di Torino (12-14 aprile 1923), a trascinare il Ppi all’opposizione. Fu anche per questo che gli fu affidata la direzione de Il Popolo – il primo numero uscì il 5 aprile 1923, quindi a ridosso del congresso – essendo Sturzo convinto che una penna come la sua avrebbe dato forza e prestigio alla battaglia per la libertà.
Che tipo di giornale fu Il Popolo di quegli anni?
Il giornale fu una punta di diamante dello schieramento democratico, specie per l’azione di denuncia delle responsabilità dei fascisti negli omicidi di don Minzoni (23 agosto 1923) e Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), il leader dei socialisti unitari. Con la secessione dell’Aventino (astensione dai lavori parlamentari, ndr) , proclamata dalle forze di opposizione proprio a seguito del “caso Matteotti”, apparve su Il Popolo (1° luglio 1924) la famosa intervista che faceva dire a Filippo Turati come fosse necessaria un’azione congiunta di “tutte le energie di redenzione democratica”. Contestualmente, nell’editoriale attribuibile al direttore si affermava: “La minaccia oggi non viene da sinistra, come si vuol far credere, ma dall’altra parte…”. Non si trattava, però, di piegare l’Aventino alla logica di una vera alleanza di governo, essendo la protesta delle opposizioni indirizzata al ripristino delle garanzie costituzionali. Anche Filippo Meda si dichiarava favorevole a un intervento “dall’alto” per riportare l’azione di governo sul terreno della legalità. Era la via maestra per sminare il terreno che i fascisti avevano reso impraticabile.
Perché, allora, non ci fu il passaggio ad un’intesa più stretta tra socialisti e popolari?
In sede storiografica è difficile negare le responsabilità della destra clericale e della Santa Sede in quel frangente decisivo per la vita democratica del Paese. Molto dipese tuttavia dalla condotta del sovrano, Vittorio Emanuele III, per nulla intenzionato a frenare la spinta autoritaria del fascismo. Se un segnale fosse giunto dal Quirinale, probabilmente la pregiudiziale antisocialista degli ambienti vaticani si sarebbe perlomeno affievolita. Mancando quel segnale, s’incaricò Civiltà Cattolica di stroncare il dialogo tra popolari e socialisti.
Che rapporto esisteva tra Donati e Matteotti? Quest’ultimo era più vicino ai cattolici pacifisti come Miglioli che al Donati interventista nel primo conflitto mondiale secondo la linea della Lega democratica.
Matteotti e i socialisti riformisti erano abituati ad adoperare la clava dell’anticlericalismo, specie nelle realtà amministrative locali. Non erano facili le relazioni con i cattolici, indubbiamente per il peso che continuava ad avere l’ateismo incarnato dall’ideologia marxista. Tuttavia, benché l’Aventino favorisse la riduzione delle distanze, a Donati non piaceva la lentezza e la fragilità di questa anomala “secessione parlamentare”. Sul punto arrivò a scontrarsi con De Gasperi, aventiniano convinto come pochi (si pensi alle parole da lui spese nel 1946, al primo congresso della Dc, in onore del lavoro svolto dalle opposizioni nel periodo dell’Aventino). Donati non sedeva in Parlamento, quindi il suo “incontro” con Matteotti nasceva da una comune sensibilità: l’uno e l’altro, posti di fronte all’avventura del fascismo, mostrarono in maniera pressoché identica una straordinaria reazione morale, prima ancora che politica. Per loro l’antifascismo rappresentò un dovere etico.
Di fatto l’unità dei popolari si ruppe poco dopo la loro fondazione con l’adesione di alcuni loro esponenti nel primo governo Mussolini. La stessa intransigenza di Matteotti si spiega, secondo alcuni, anche con la necessità di contrastare l’attrazione di alcuni esponenti del Psu verso il fascismo, tanto che alcuni suoi ex compagni fecero tale passaggio anche dopo la morte violenta di Matteotti. Emilio Lussu ci ha raccontato quel clima di progressiva conversione al fascismo avvenuta nella società italiana. Donati, quindi, direttore del giornale di un partito diviso al suo interno. Come affrontò tale contraddizione?
Insieme a Francesco Luigi Ferrari, altro grande esponente dell’ala sinistra del Ppi, Donati interpretò con tutta la passione e l’intelligenza che gli si riconosceva la linea di netto contrasto alla concezione panteista dello Stato e alla sua degenerazione in assolutismo antiliberale, secondo la lucida analisi di Sturzo.
Ma si dovette scontrare con gli inviti consueti al realismo…
Si può dire che l’ingresso dei popolari nel governo, sotto la pressione psicologica e politica prodotta dalla marcia su Roma, corrispose a un atto di responsabilità, nel tentativo di uscire in qualche modo da un’inedita crisi costituzionale. Il capogruppo alla Camera era De Gasperi e sostanzialmente scelse lui la via del compromesso, per tenere unita la rappresentanza popolare.
Quanto durò questo compromesso?
La linea di mediazione si spezzò in occasione del voto sulla riforma elettorale (legge Acerbo) quando la destra interna venne meno alla solidarietà di gruppo, votando come aveva chiesto Mussolini. Solo a cavallo delle elezioni del 1924, predisposte in base al nuovo sistema ultra maggioritario e in un clima di crescente intimidazione, divenne chiara l’esigenza di marcare il confine tra fascismo e antifascismo. I popolari pagarono un prezzo salato per difendere la loro autonomia: in alcune regioni, come ad esempio in Puglia, rischiarono la cancellazione. Con Donati Il Popolo fu la bandiera di questa strenua opposizione, tanto da essere inquadrato tra i nemici più diretti del regime. Aveva già denunciato il coinvolgimento del gerarca Farinacci nell’omicidio di don Minzoni, avrebbe proseguito, dopo le elezioni, con l’attacco a Mussolini sull’altro omicidio, quello appunto di Giacomo Matteotti.
Cosa fece Donati per denunciare i mandanti del delitto Matteotti? Come direttore de Il Popolo agì contro le direttive ufficiali della gerarchia ecclesiastica che invitava a non sobillare l’opinione pubblica per non favorire la rivolta socialista. Di fatto, la mancata crisi del governo Mussolini permise il consolidamento del regime con leggi sempre più liberticide e un consenso di massa, tanto che i parroci ricevettero l’ordine di celebrare il Te Deum di ringraziamento per il fallimento dell’attentato a Mussolini a Bologna nel ‘26. Sturzo prima, e Donati poi, dovettero “scegliere” di espatriare. Si è mai fatto una pubblica ammenda collettiva di questi fatti?
Donati si comportò come suo solito, senza risparmio di energie e con impressionante determinazione, mettendo a nudo le complicità che portavano direttamente al capo del governo. Perché Matteotti pagò con la vita? Aveva puntato il dito contro le sopraffazioni e i brogli elettorali, ma era anche andato oltre scavando su fatti inquietanti che rivelavano l’intreccio perverso di politica e affari, con al centro Mussolini. Sul ruolo della società petrolifera Sinclair Oil – ottenne una convenzione a prezzi superiori della Standard Oil e dietro questo successo faceva capolino una mega tangente – Il Popolo non fu da meno grazie alle documentate analisi di Annibale Gilardoni.
Evidenze tali da portare Donati a far valere la responsabilità diretta del vertice del regime e non solo dei sicari. Una strategia considerate avventata da alcuni…
Il 24 dicembre la battaglia condotta da Donati portò alla messa in stato d’accusa di Emilio De Bono, ex capo della Polizia, davanti alla commissione speciale d’inchiesta del Senato. Lo storico Giovanni Sale, scrittore della Civiltà Cattolica, ritiene che “fu un grosso errore di prospettiva politica, perché toglieva il processo al suo giudice naturale e lo affidava a un organo giudiziale straordinario, certamente più ligio alle indicazioni dei capi fascisti. Questo procedimento, infatti, si concluse il 25 giugno 1925 con l’assoluzione di De Bono per insufficienza di prove”.
Cosa ne pensa in merito?
C’è da dire che l’iniziativa dirompente del direttore de Il Popolo mirava evidentemente ad alzare il livello dello scontro, sperando nella possibile crisi di governo e quindi nella l’esautorazione di Mussolini. Padre Giovanni Sale, tra i nostri storici sicuramente uno dei più accurati, dovrebbe anche tener conto di questa probabile scommessa di Donati. Sta di fatto che l’uomo, sconfitto e isolato, dovette cedere alle pressioni del ministro dell’Interno, Luigi Federzoni, affinché abbandonasse il Paese in fretta e furia, lasciando la famiglia senza neppure un saluto. Dopo Sturzo, toccò a lui imboccare a giugno la strada dell’esilio (poi, nel 1926, analoga sorte spetterà al suo amico Francesco Luigi Ferrari). Tutto questo lo ricordiamo a stento, fa parte della memoria archivistica, per così dire, ma non alimenta una riflessione adeguata sulla dolorosa testimonianza dei primi antifascisti.
Donati soffrì l’isolamento anche da esule per la sua identità di cattolico tra tanti fuoriusciti di estrazione laicista, socialista e anticlericale. I tanti infiltrati dei servizi segreti fascisti, inoltre, lo insidiarono con calunnie fino alla morte. Come si spiega la mancata solidarietà dei popolari verso questo loro eroe?
Sturzo, a dire il vero, gli fu sempre vicino. Attraverso i buoni uffici del Conte Sforza, futuro ministro degli Esteri nei governi De Gasperi, gli procurò un incarico di letteratura italiana a Malta. Nel collegio inglese dove insegnava, si andava profilando la censura verso una certa “italianità” che sapeva di fascismo. Fu un altro elemento di sofferenza, perché il “patriota” Donati non poteva accettare che in nome dell’antifascismo venisse oscurata o sminuita la grandezza della civiltà italiana. Tornò a Parigi, anche per sfuggire al clima umido dell’isola, inadatto per i suoi polmoni malati. Alla firma del Concordato, i fuoriusciti laici e socialisti (Salvemini, Turati, Rosselli) lo circondarono di silenzio e riprovazione, perché moralmente non poteva non essere coinvolto, in quanto cattolico, nella compromissione della Chiesa con il regime mussoliniano.
Chi fu vicino a Donati fino all’ultimo? E quale è stato il suo testamento politico in questo stato di abbandono?
Gli ultimi anni furono segnati da stenti e amarezze. Morì nella capitale francese, assistito da pochi amici, il 15 agosto 1931. Ai suoi funerali vennero tutti. Questa la bella pagina scritta 13 anni dopo in suo ricordo dall’amico Domenico Ravaioli (Il Popolo – 15 agosto 1944) “A rappresentare il partito c’era Ferrari, venuto da Bruxelles. Doveva fare anche lui, poco dopo, la stessa fine. C’erano Turati, Treves, Buozzi, Rosselli e Salvemini: e mentre m’intrattenevo con qualcuno di loro mi veniva in mente quello che mi aveva detto qualche giorno prima. «Tra noi e loro – m’aveva detto – la differenza è questa: che pur possedendo in misura tanto larga carattere, umanità, intelligenza e cultura, per arrivare dove la storia ci trascina devono cambiare; mentre noi, se siamo democratici e cristiani, sul serio possiamo dire che siamo quello che eravamo e che saremo quello che siamo».
Ci lascia davvero stupiti la sua fede nell’avvenire politico dei democratici cristiani così come si esprime, profeticamente, nelle parole (“saremo quello che siamo”) pronunciate in punto di morte e nel momento più buio della storia del popolarismo.
Chi ha seguito le sue tracce?
Proprio con Ravaioli e la rivista Politica d’Oggi, il suo lascito morale e politico fu raccolto e rivissuto, andando a segnare la dialettica tra le varie anime della neonata Dc, specialmente nella città di Roma. Ancora bisogna scrivere un racconto convincente su questa eredità che dette linfa vitale alla battaglia per la Repubblica in seno al partito romano e nazionale. Molti anni dopo, il 14 febbraio del 1976, l’allora segretario della Dc Benigno Zaccagni salutò con fervore gli 80 anni di Ravaioli. Il giorno dopo su “Il Popolo” fu ricordata la sua amicizia con Donati«cementata da una profonda comunanza di idee e dal loro intransigente antifascismo». Tra gli eredi di Donati possiamo annoverare lo stesso Alberto Canaletti Gaudenti, che fu senatore, presidente dell’Istat e soprattutto sindaco di Roma per un istante, nel 1961, in una duplice votazione nel giro di pochi giorni (20 giugno e 7 luglio), cui seguirono le immediate dimissioni: contro gli accordi di partito, aveva ricevuto in Consiglio comunale anche i voti dell’opposizione comunista. Ma questa è un’altra storia.
* l’intervista è stata pubblicata su Città Nuova
12 Agosto 2024 at 18:28
Intervista molto interessante e ben documentata…… Forte anche la sua intuizione: ” ……se siamo democratici e cristiani sul serio, possiamo dire che siamo quello che eravamo e che saremo quello che siamo».
Anche se meno decantati possiamo dire, sicuramente, che nella nostra storia ci sono testimonianze di grande attualità.
E’ amaro, però, constatare l’incapacità di essere oggi, nonostante questa storia, una voce nel Paese.