Dallo sport alla politica

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di Salvatore Vento

Le olimpiadi sono senz’altro l’evento pacifico e gioioso più rilevante a livello mondiale, che dimostra che si può competere in pace all’interno di regole comuni condivise. L’aveva ben intuito il suo fondatore, storico e pedagogista, barone Pierre de Coubertin (1863-1937), nel lontano 1896 quando, in ricordo di Olimpia della Grecia antica (con i giochi effettuati in onore degli dei), si svolse la prima olimpiade ad Atene. Il primo congresso organizzativo che portò alla nascita del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) si era tenuto due anni prima nella famosa Università La Sorbona di Parigi. Con l’ultima (dal 26 luglio all’11 agosto) siamo arrivati alla XXXIII edizione; l’interruzione è avvenuta soltanto durante le due guerre mondiali (1914-18 e 1939-45) e dal 1948 si svolgono regolarmente ogni quattro anni.
Significativa la partecipazione alle olimpiadi parigine di ben 205 nazioni, di oltre 11 mila atleti, di 329 gare in 35 sedi e della produzione di oltre 5 mila medaglie. Tutto ciò in un tragico periodo di guerre e di odi etnici che sconvolgono il mondo. L’organizzazione di un evento così imponente richiede notevoli capacità di gestione della complessità e bisogna dire che, al di là di qualche errore, la Francia è stata all’altezza di offrire uno spettacolo senza precedenti. Ci sarebbe certamente da discutere sull’eccessiva mole di rappresentazioni, ma il filo conduttore iniziale ha colto nel segno: la triade storica di “Liberté, Egalité, Fraternité” è stata declinata nella diversità e nell’amore come valori costitutivi per vivere una buona vita, in pace. Queste rappresentazioni, culturali e identitarie, dell’inaugurazione e della chiusura, meriterebbero comunque un serio e libero approfondimento.
L’Italia ha ottenuto un ottimo risultato conseguendo 40 medaglie (12 oro, 13 argento, 15 bronzo) e collocandola al nono posto. Ma ha fatto scalpore l’oro conseguito dalla squadra femminile di pallavolo, con una entusiasmante gara contro quella degli Stati Uniti. L’oggetto d’attenzione si è concentrato sulla presenza di due donne nere: Paola Egonu e Myriam Sylla. L’artista di strada Laika ha realizzato un murale a Roma chiamato “italianità” sulla figura di Egonu, subito dopo vandalizzato, a dimostrazione che la mala pianta del razzismo è sempre in agguato.
La discussione si è quindi spostata sul piano più propriamente politico rimettendo all’ordine del giorno l’annoso problema della cittadinanza e del conseguente “Ius soli”: diventare cittadini italiani se si nasce in Italia, certamente ad alcune condizioni: tra cui quello del completamento di un ciclo scolastico di almeno cinque anni (ius scholae), mentre attualmente il figlio di uno straniero pur essendo nato nel nostro paese e frequentando le stesse scuole dei nostri figli o nipoti, può richiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni. Si verifica un paradosso che soltanto le menti offuscate dal nazionalismo non capiscono o non vogliono capire: l’Italia investe nella formazione scolastica di questi ragazzi ma non li riconosce come propri cittadini. La legge più semplice mi sembra quella tedesca: i bambini nati in Germania da genitori stranieri acquisiscono la cittadinanza se almeno uno dei due risiede legalmente in Germani da almeno cinque anni. L’altro tema da riflettere riguarda il dato messo in evidenza da alcuni interventi (cito quello di Nicola Vallinoto del Mfe di Genova e dell’articolo di Mauro Magatti sull’Avvenire del 10 settembre): se sommiamo tutte le medaglie d’oro vinte dai 27 paesi dell’UE, arriviamo a 97, una cifra di gran lunga superiore a quelle ottenute da Stati Uniti e Cina messi insieme. Ciò significa che, nonostante le paure sull’invecchiamento della popolazione e sul conseguente declino, esiste in Europa un mondo giovanile competitivo e anche un mondo di mescolanze e d’incroci di seconde e terze generazioni di immigrati che sono a tutti gli effetti cittadini europei. Così come sono statunitensi i nipoti degli emigranti dei paesi europei che nel corso del tempo hanno formato la potenza americana. Processi inarrestabili, che soltanto la mentalità chiusa e regressiva dei movimenti populisti cerca di negare.

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